Finalmente i Sixers escono da una offseason con certezze granitiche, che non ne fanno ancora il team da battere nel prossimo campionato, ma che almeno liberano ogni ragionevole dubbio sulla bontà delle loro scelte.
Ironia della sorte, questo “successo” arriva proprio nel momento in cui cominciano a girare rumors che vorrebbero la franchigia emigrare nel New Jersey dopo più di 60 onorevoli tornei nella City of Brotherly Love.
E’ questo il vero ed enorme successo di una dirigenza sotto “the process” da tempo oramai infinito, sovente accusata di iniziare o finire una stagione coi rimpianti sul cosa sarebbe o non sarebbe potuto essere, ma che si ritrova invece oggi a ripartire dall’alto, pronta ad assaltare la vetta dell’Est.
Depressioni, Elton Brand, la saga Ben Simmons, tanking selvaggio, trade e pick barattate al ribasso rappresentano il drammatico passato recente di cui tutti sono a conoscenza, ma che mai come in questa estate si possono considerare superate.
Inoltre, anche negli ultimi anni al vertice qualcosa è sembrato sempre mancare, un minuscolo quid che avrebbe fatto la differenza, e non ci riferiamo alla danza sul ferro del buzzer beater di Leonard, ma di una gestione manageriale che persino recentemente ha generato falle.
La rinuncia a Simmons per esempio ha radici più grandi, e deriva dall’aver sepolto un capitale enorme, sebbene poi limitato tecnicamente, per colpa di uno spogliatoio spesso bollente, nella quale la mancanza di leadership – Embiid per primo – ha creato una caccia al colpevole al termine di ogni deludente postseason.
Stesso dicasi dell’affaire Harden/Morey, che oltre a palesare l’incapacità di lavare i panni sporchi in casa, non è servita nemmeno ad esteriorizzare le pecche di un acquisto meno proficuo di ciò che si pensava.
L’età del soggetto e il suo basket individuale e spremuto fino al midollo, toglieva infatti soprattutto spazio all’astro nascente Maxey, e le contropartite ottenute per liberarsi del suo contratto, fra gli altri i “datati” Covington, Morris e Batum, appaiono ora ai nostri occhi come fallimentari mosse che hanno ritardato una decisa rincorsa al titolo.
La sgradevole opinione odierna si basa per l’appunto nel sospettare che gli anni migliori del proprio mastodontico MVP siano quelli appena trascorsi: in assenza di un supporting cast che lo aiutasse ad arrivare allo step decisivo, il totem africano ha dovuto far tutto da solo, stressando eccessivamente un fisico oggi saturo. Per fortuna mai come nella futura stagione Embiid avrà sulla carta un numero di elementi tanto qualitativi da farlo rifiatare, senza che la squadra rallenti la propria corsa.
Lo stesso Rivers non si è mai rivelato adatto ad aggiustamenti in corsa specialmente nel clutchness, dove un gruppo bipolare abbandonava la nave in avaria, tranne che nel breve periodo con Butler a dettare legge.
Pure qui non ci soffermeremo sul mancato rinnovo di Jimmy dopo quella faticosa uscita di scena al cospetto dei Raptors, dato che le cifre richieste avrebbero all’epoca distrutto qualsiasi altra possibilità di costruzione, puntando sì su un cavallo di razza ma allergico alle direttive manageriali; è pur vero che le sigle di Harris, Simmons ed Horford sono state col senno di poi pietre tombali ad ogni speranza di vittoria.
Adesso, liberi da contratti onerosi, finito “l’equivoco” Tobias Harris, Morey ha investito i soldi di Josh Harris nel miglior modo possibile, forte di una snellezza salariale acquisita recentemente che gli ha permesso di trovare un alter ego ad Embiid e Maxey, di rifirmare qualche cavallo di razza e di dare in mano a Nurse materiale ottimo su cui lavorare, utility player esperti ma tuttora vigorosi, poliedrici in difesa e che sanno coprire/attaccare il perimetro con la stessa qualità: pane per i denti di un allenatore molto attento alle due fasi.
Nella bacheca dei free agent Paul George era l’unica opzione d’elite, c’è poco da dire, sebbene nemmeno il trentaquattrenne californiano abbia alle spalle una storia limpida a livello fisico; tuttavia immaginiamo che verrà gestito con un load management oculato assieme ad Embiid, per consentirgli di performare sempre al massimo.
Ciò che lo differenzia rispetto agli altri crack sfortunati sbarcati a Phila ultimamente, è ovviamente quella del ruolo, un anello di congiunzione fra il playmaking rapido e ferocie di Maxey e i giochi in post di Embiid, ferma restando l’abilità dei due a riempire tantissime altre zone di campo.
Così facendo Nurse si ritrova fra le mani in un’ipotetica postseason tre satanassi che possono gestire il pallone e creare gioco da qualunque mattonella, dividendosi perciò le responsabilità ma avvalendosi pure di almeno altri 5/6 giocatori di spessore che possano proteggerli nonché divenire alternative affidabili.
Un inarrestabile play in transizione che sa segnare da fuori, un’ala jolly fra le più forti della sua generazione e l’unicorno MVP che domina il frontcourt ma tira anche da ogni “zolla”: tutto questo non si vede qui da decenni, e scrutando le altre franchigie da vertice, inclusi i Celtics campioni, nessun altro può vantare.
A legare questo mostro a tre teste ci saranno con tutta probabilità Kelly Oubre Jr fra Maxey e George e Caleb Martin nello slot da 4 in prossimità di Embiid, prototipi dell’ideale di gioco del coach, atletici difensori su più ruoli e dinamici scorer perimetrali nonché jolly d’attacco, dignitosi sia palla in mano che nei paraggi del colorato.
Dicevamo delle ottime – e scontate – mosse societarie in offseason, che partono dal lapalissiano adeguamento contrattuale del franchise (parola di Embiid) Maxey, bloccato per 5 stagioni a più di 200 milioni, e si chiudono col fresco buyout di Reggie Jackson.
A parte ciò, convince addirittura di più il rinnovo dello stesso Oubre Jr, paritetico a quello di Drummond per 26.3 milioni combinati in due anni, che giustificano le mire egemoniche della dirigenza per il prossimo biennio, con due pedine basilari sia per la lunga rotazione dei futuri Sixers che per gestire la muscolatura di George ed Embiid, pertanto sostituiti degnamente da veterani affidabili, in attesa della maturazione sotto al ferro del rookie Bona.
Un po’ più di scommessa sa invece la conferma di KJ Martin sempre a biennale, ad ora terza alternativa agli starter e antecedente a Ricky Council IV e alla matricola Jared McCain da Duke, giocatori comunque di enorme talento che in un contesto così variegato e duttile potrebbero trovare spazio e brillare.
Per quanto concerne il quadriennale a 35M per Caleb Martin siamo bensì di fronte a una vera e propria steal, viste le peculiarità di un giocatore tatuato a marchio Heat e fatto e finito per completare quel mosaico two way tanto vivo nei desideri di Nurse.
Le intese annuali nonchè usato sicuro e garantito da modalità win now avranno le sembianze di Lowry (confermato) ed Eric Gordon, pure qui manovre convincenti per giocatori a fine prime ma tuttora sulla breccia.
Anche all’ex skipper di Toronto si chiede adesso il salto di qualità, dopo un anno – il primo – sabbatico caratterizzato dagli infortuni di Embiid e da un roster troppo corto per una marcia estasiante, flagellato perciò da problemi di falli e da numerosi tempi morti in garbage, con più di 15 giocatori inseriti nel parquet, ma che ha dato a vedere convincenti migliorie specialmente sulla resilienza difensiva e nello spirito di sacrificio, veri e propri miraggi sotto Rivers.
“Malato” di sport a stelle e strisce dagli anni 80! Folgorato dai Bills di Thurman Thomas e Jim Kelly, dal Run TMC e Kevin Johnson, dai lanci di Fernando Valenzuela e dal “fulmine finlandese”. Sfegatato Yankees, Packers, Ravens, Spurs e della tradizione canadese dell’hockey.