Si è chiuso il Draft NBA, per la prima volta diviso su due giorni. Introiti televisivi, spettacolarizzazione della palla a spicchi, commercializzazione del prodotto: una tendenza che, nel 2024, non può e non deve scandalizzare nessuno.

A parte la bipartizione dell’evento, il Draft in sé è stato alquanto piatto. Nessuna sorpresa, nessuno scambio dell’ultimo momento che coinvolgesse qualche grande nome e qualche importante scelta.

Il motivo è abbastanza semplice, e sta in una semplice domanda: tra le 60 nuove facce della National Basketball Association, ce ne sarà almeno una che potrà diventare il volto della lega?

1) SENZA PADRONI

Risacher, Sarr, Sheppard. I primi tre nomi erano già scritti nel granito, e anche l’ordine (prima i due francesi, poi lo sbarbatello da Kentucky) sembravano fissi. Così è stato: Atlanta ha puntato su Risacher, e poi a cascata Washington e Houston. Niente di sorprendente. Ciò che però più ha stupito di questo Draft è stata la mancanza di un vero prospetto ‘number one’, uno di quelli per cui saresti disposto a fare follie. Ma anche solo uno di quelli che è prevedibile possa cambiare la rotta della franchigia in cui approderà. Siamo passati da anni di Wembanyama e Miller, Banchero e Holmgren, Cunnigham e Mobley… Insomma, nessuno di quei tre nomi sembra così NBA-ready e così formato da poter avere un impatto immediato sulla situazione in cui è stato catapultato.

A questo si aggiunge il fatto che i primi due vengono dal basket europeo. Per la prima volta nella storia della lega americana, in due anni consecutivi la prima scelta assoluta non è statunitense. Anzi, è un back-to-back francese. Wembanyama non ha subito nessun contraccolpo nel passaggio oltreoceano, ma lui era stato preparato al grande salto per anni e anni. Per Risacher e Sarr potrebbe essere più faticoso sbloccare il nuovo livello.

Mai dire mai: se gli ultimi anni ci hanno consegnato enormi talenti, ci hanno anche insegnato che è facile trovare un diamante nella terra argillosa. Chissà se i primi a brillare saranno proprio quei ragazzi su cui pochi avrebbero scommesso, poco conta se trentesima o prima scelta in un Draft considerato da molti ‘il peggiore di sempre’.

2) LOSERS del draft

A rigor di logica, il peggiore Draft di tutti lo hanno avuto i Brooklyn Nets… zero scelte, zero nuovi innesti a basso costo pur avendo sacrificato in direzione New York la loro stella Mikal Bridges. Detto questo, se davvero questo sarà the worst Draft ever, forse non avere un’ombra di capitale è stato un bene per i nerobianchi.

Chi invece aveva capitale e lo ha sperperato in maniera sconsiderata sono i Milwaukee Bucks. La scelta numero 23 non è certo la miglior posizione per pescare un talento generazionale, ma perlomeno si può puntare a un pezzo di rotazione di buon livello. Cosa che non sembra Milwaukee abbia fatto.

AJ Johnson ha soli 19 anni, è giovane grezzo e inesperto. Dai più era dato come scelta da secondo giro: la NBA non ha neanche pensato di invitarlo nella green room insieme ai giocatori più quotati a essere chiamati la prima notte. Medie basse, troppo, anche per uno che comunque viene da un’esperienza professionistica in Australia. Tutto ancora da dimostrare, insomma.

In un ambiente che – tra Giannis e Dame – vuole vincere ora ma sente che la finestra per il titolo si sta progressivamente chiudendo, forse optare per un giocatore più pronto e solido sarebbe stato meglio.

Negative anche le notti dei Detroit Pistons. Il diciottenne Ron Holland chiamato alla cinque è un azzardo che deve pagare per permettere al rebuild di ripartire: Cunnigham e Duren non reggono il peso della franchigia da soli. Quasi 20 punti di media e 7 rimbalzi in G League non sono cosa da tutti.

Per Holland uno stile di gioco simile a quello di Jaden Ivey: aggressivo, above the rim, agile ed esplosivo. Certo, durante tutta la passata stagione la voragine più grande nel gioco dei Pistons era il tiro da tre. Holland ha tirato con il 24%. Così come Klintman (37 al secondo giro) con il 30%. Difficile che nella Motor City ricomincino a segnare dalla distanza.

3) WINNERS del draft

Chi ha vinto, anzi stravinto il Draft, sono i San Antonio Spurs. Con la scelta numero quattro si portano a casa Stephon Castle. Personalità, winning mentality ereditata da coach Dan Hurley. Primo per punti, assist e rimbalzi tra tutti i freshman. Difensivamente molti azzardano un paragone con Jrue Holiday: ordinato, preciso, mai esuberante e sempre aggressivo. E si va a incastrare proprio nel ruol di maggior bisogno per gli Spurs. Che rincarano la dose sulle guardie con la scelta di Juan Nunez (alla 36), ventenne spagnolo di prospettiva e maestro del pick-and-roll. Wembanyama ci andrà a nozze. E da ultimo, con la 48esima scelta, Harrison Ingram: ala di sostanza in entrambe le metà campo.

Anche Minnesota esce tronfia dal Draft. E lo fa perché osa, va fuori dagli schemi. Alla numero otto stanno per chiamare il loro nome gli Spurs, ma Minnie piomba e offre la prima scelta nel 2031 e uno swap nel 2030. I loro occhi sono puntati solo su un nome: Rob Dillingham. Sesto uomo dell’anno con oltre 15 punti dalla panchina, dice di ispirarsi a Steve Nash e Darius Garland. Pecca di stazza ma ‘when you’re good enough, you’re big enough‘. Fenomeno nel crearsi canestri in situazioni di isolamento, permetterà a Conley di rifiatare e a Edwards di avere molti meno compiti palla in mano. A Dillingham è seguito, alla 27, Terrence Shannon Jr: difensore di grande atletismo e grinta, si aggiungerà a una delle lineup difensive migliori della lega.

4) LE ALTRE SCELTE MIGLIORI

  • Matas Buzelis, scelta 11 dei Chicago Bulls: All’inizio dell’anno era dato come potenziale prima scelta assoluta. Ala promettente, dotata di buona dose di esplosività e ottimi istinti difensivi. Fatica ancora in fase di gestione palla ma il potenziale c’è tutto, ed è a dir poco intrigante. C’è poi la parte di favola nella storia: cresciuto nella periferia di Chicago, calcherà proprio lì per la prima volta un parquet della NBA.
  • Nikola Topic, scelta 12 degli OKC Thunder: Masterclass di Sam Presti, come al solito. OKC sceglie il miglior creatore da pick-and-roll di questo Draft. Passatore d’élite, ancora molto acerbo per quanto riguarda la costanza realizzativa al tiro (sotto il 25% da tre). La duplice lacerazione parziale del legamento, che lo terrà fuori ancora per un bel po’, non dovrebbe essere motivo di apprensione per coach Daigenault e il suo staff. Non c’è fretta di vederlo in campo, basta che sia pronto a creare con Shai una delle coppie più letali della NBA.
  • Dalton Knecht, scelta 17 dei Lakers: Forse LA scelta della prima notte e del Draft. Precipita senza un vero motivo fuori dalla top 10 (un po’ come Cam Whitmore l’anno scorso), e i Lakers ringraziano e raccolgono il dono. Knecht ha viaggiato a 21.7 punti di media nell’ultima stagione: rifinitore, grande calamita di falli per il suo modo naturale di mettere giù la palla e attaccare il ferro. Carente in difesa – e per i Lakers non è un gran bene – ma l’impressione è che JJ Redick possa trasformarlo in un mini… JJ Redick. Tralasciando la scelta di Bronny James alla 55… whatever makes LeBron happy.
  • Kyle Filipovski, scelta numero 32 degli Utah Jazz: Per molti era tra i 20 migliori giocatori del Draft. Il centro ex Duke è cafuto fino all’inizio del secondo giro, nonstante una carriera da five star recruit e All-American. Versatile, alto come un grattacielo, andrà a rimpolpare il reparto dei lunghi in quel di Salt Lake City.
  • Pelle Larsson, scelta numer 44 dei Miami Heat: A metà del secondo round Pat Riley trova la nuova probabile gemma per Miami. Tiratore formidabile da Arizona (43% da tre), attivo e agile difensivamente. Great value e possibile steal per il vecchio volpone.

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