Per la seconda volta in tre anni i Boston Celtics sono tornati alle NBA Finals. Due anni fa lo scherzetto glielo fece Steph Curry con i suoi Golden State Warriors. Adesso per i verdi del Massachusetts le scuse sono ormai finite.
USe prima era questione di esperienza, ora di minuti sui parquet più prestigiosi ce ne sono a sufficienza. Se prima era la gestione del front office, i diversi riconoscimenti che Brad Stevens ha ricevuto come general manager dovrebbero dirla lunga. Esattamente come i successi raccolti nonostante tutti gli stravolgimenti sulla panchina.
E ora l’occasione è più che succosa. Perché tra Boston e Dallas il ruolo degli inesperti è occupato dai secondi. I Celts sono i grandi della classe, i bulletti del corridoio che le hanno già viste tutte. Peccato che le matricole hanno qualche esponente che ne ha viste (anzi vinte) una più del diavolo. E la garra sportiva non manca. Ne vedremo delle belle.
LA STRADA PER LA FINALE
Addio Ime Udoka, benvenuto Joe Mazzulla. La scorsa stagione era iniziata di lampo con uno shock per l’intera franchigia. Perché l’attuale coach dei Rockets era l’uomo del futuro, che aveva preso una squadra uscita male al primo round della Orlando Bubble e l’aveva condotta per mano fino all’ultimo atto della postseason. E anche perché, francamente, Mazzulla era un nome che sembrava pescato al buio a occhi chiusi dai meandri più bui del TD Garden. Come se Stevens, preso dalla fretta di una stagione che si avvicinava, avesse preso il primo che passava.
Beh, la realtà si è rivelata diversa. Dopo soli 4 mesi di gestione, il caro vecchio Joey si era guadagnato il rinnovo di contratto e la nomina da interim a head coach effettivo. Poi la batosta degli scorsi Playoff. Quella voragine di 0-3 contro Miami, quella china impossibile che passo dopo passo gli uomini di Mazzulla avevano risalito contro qualunque pronostico. Fino a Gara-7, al TD Garden. Fino a quell’annientamento asettico e crudele messo in campo da Eric Spoelstra. Il grido Don’t let us get one si era spento in gola. La panchina non era in discussione, ma negli spogliatoi iniziava a tremare un po’ il pavimento. Insomma, non era ancora terremoto ma era tutto pronto a esplodere.
Durante l’estate le mosse di mercato sono limitate ma mirate. Il sacrificio di Marcus Smart, Malcolm Brogdon e Robert Williams (nonché di varie prime scelte) per arrivare a Kristaps Porzingis e Jrue Holiday. Tutta la stagione di Boston è in questi due nomi: spaziature, tiro e difesa. Un lento scollamento da quel solo-ball che era diventato il mantra per Boston. E che, soprattutto con Jason Tatum e Jaylen Brown, troppo spesso diventava hero-ball. Il risultato? Una stagione regolare dominata in lungo e in largo, chiusa con un record di 64-18 e la certezza che nessuno da ottobre scorso era riuscito a dimostrare di essere più forte.
Nella postseason il concetto si è più o meno ripetuto. I primi due turni si sono chiusi con due identici gentleman sweep: 4-1 a Miami, 4-1a Cleveland. E nelle finali di Conference non è stata nemmeno concessa la vittoria della bandiera a dei sorprendenti e lodevoli Indiana Pacers: sweep, 4-0 e arrivederci alla prossima. MVP a Jaylen Brown, con un Tatum che finora si è potuto permettere di rimanere un po’ più nell’ombra.
PUNTI DI FORZA
Si potrebbe partire facilmente dalle tre J. Non Jaren Jackson Junior, ma Jason-Jaylen-Jrue. Tre giocatori assurti ormai da anni al rango di stelle. I primi due (per il secondo si è dovuto vincere non poche remore di pubblico e stampa impietosi) perfino a quello di superstar. Dieci selezioni all’All-Star complessive. Una lunga serie di First o Second NBA Teams e All-Defensive NBA Teams. I riconoscimenti non mancano, e con loro – ovviamente – la controprova sul parquet.
Se mi permettete, su Tatum mi soffermerò ben poco. Terza scelta assoluta nel 2017 da Duke, è entrato nella NBA e si è guadagnato il ruolo di predestinato. (N.B.: non quello di ‘prescelto’, occupato da un nome leggermente più pesante di quello di JT. Con tutto il rispetto…). Sono tre stagioni che scherza con il premio di Most Valuable Player della stagione. Salvo poi arrivare sempre corto rispetto ad altri mostri sacri come Nikola Jokic e Joel Embiid. Forse pagando proprio la presenza, nella sua stessa squadra, di giocatori di altissimo livello che gli fanno ombra. O che comunque spengono un po’ la brillantezza della sua stella. Il gene clutch rimane innegabile, anche nei Playoff.
Simile discorso vale per Jaylen Brown. Arrivato un anno prima di Tatum, anche lui con la terza scelta assoluta, l’ex California ci ha messo vari anni a ingranare la marcia. Dalla stagione 2019-20 viaggia stabilmente sopra i 20 punti di media e il 48% dal campo, aggiungendo al contributo offensivo una presenza non secondaria nella propria metà campo. Una reputazione costruita mese dopo mese e rovinata completamente a maggio scorso, in quella sciagurata serie contro i Miami Heat. Errori in palleggio, bloopers degni di Shaqtin’ a Fool, decisioni incomprensibili, svarioni difensivi. Contro di lui si era scatenata una vera e propria campagna mediatica (francamente immeritata, almeno per le dimensioni che aveva preso) che sembrava aver messo in dubbio la sua permanenza in Massachusetts.
Tutte suggestioni false… Brad Stevens alla prima occasione ha schiantato sul tavolo davanti a Brown un bel rinnovo al massimo contrattuale: 5 anni e 304 milioni di dollari, trenta in più rispetto a Nikola Jokic. E – tra regular season e postseason – Jaylen non ha fatto rimpiangere la decisione e anzi si è guadagnato il titolo di MVP delle finali di Conference. Per citare il mio illustre collega Marco Mezza: «A suon di prestazioni roboanti che lo hanno fatto preferire per lunghi tratti a Tatum durante i Playoff dei Celtics e difensore assolutamente da rispettare».
E poi c’è Jrue Holiday. Difensore egregio, acquisito da Milwaukee via Portland con un sacrificio tutto sommato esiguo (Brogdon, Williams e due prime scelte). Permetterà a Mazzulla di rendere la vita di Irving un inferno. Giocarlo su Doncic potrebbe essere alquanto rischioso per la differenza di stazza (lo si è visto lo scorso anno con Jimmy Butler). Ma diciamo che Holiday in difesa non sfigura quasi contro nessuno. Difesa e basta? Magari. Dall’arco ha stampato un sonoro 43%, miglior percentuale in carriera. E così svanisce il vecchio leave him open che per anni era stato un po’ il salvagente difensivo di molte squadre. Finché mattona sul ferro va bene, ma se la retina inizia a muoversi…
E poi si passa agli “altri”. Che poi altri proprio non sono. A partire da Derrick White, protagonista indiscusso del primo turno di Playoff contro Miami. Dalla regular season alla postseason ha alzato la sua portata realizzativa di tre punti (da 15 a 18) e con essa la percentuale dall’arco, che è salita oltre il 40%. Definizione del giocatore hard-working, rimbalzista, stoppatore e difensore dinamico. Potrebbe essere una delle armi che tenterà Mazzulla per disinnescare Luka Doncic. Ammesso che ce ne sia una. A White possiamo aggiungere il duo di lunghi. Porzingis, reduce da un’ottima stagione che sembra averlo riavvicinato ai livelli di New York, e Horford. Due omoni per certi versi molto simili come stile di gioco. Braccia lunghe e alte, dinamismo non eccelso ma presente, protezione del ferro, spaziature e bombarde da tre punti. Una ricetta che, finché non si entra nel pitturato, potrebbe dare un vantaggio non indifferente a Boston visto chi si troveranno davanti. Gafford e Lively, per quanto atletici, non sono abituati a uscire dalla painted area. Tirarli fuori dalla loro zona di comfort sarà decisivo per far trovare praterie fino al ferro a gente come Tatum o Brown che negli 1vs1 sono difficilmente contenibili.
PUNTI DI DEBOLEZZA
Favoriti per la prima volta dal 1986. Forse assurdo, se si pensa alla regale storia dei Boston Celtics. Però non è un dato da sottovalutare. Siamo abituati a pensare ai fenomeni NBA come macchine, automi, cyborg. Sono molte le situazioni in cui la realtà non si è dimostrata tale. Sono uomini, giovani, che vivono la loro competitività al massimo. Per cui una sconfitta fa più male di una coltellata. Avere i favori dei bookmakers è da sempre un’arma a doppio taglio.
Non è da sottovalutare neanche l’assenza di profondità Abbiamo citato i sei ‘titolari’, ma dopo? Pritchard, Hauser, Tillman, Brissett. Sono davvero considerabili opzioni? A questi dubbi si aggiungono ulteriori problematiche. La salute di Porzingis in primis. Tre turni di Playoff, tre vittorie facili. E ora arriva il primo test vero per gli uomini di Mazzulla. La presenza dell’Unicorno sembra indispensabile: i Celts non possono pensare di affrontare il duo Gafford-Lively con quel che resta di Al Horford. In più, quando sano, è sembrato davvero un mismatch vivente contro tutti (o quasi). E giocherebbe contro uno dei suoi passati, il più fallimentare.
Poi si va su altri tasti dolenti. Come questo: ma Luka Doncic chi lo marca? Uno contro uno è ingiocabile, e su questo non ci piove. Una tattica di raddoppi sullo sloveno libererebbe nei corner uno dei tiratori di Dallas. PJ Washington e Derrick Jones Jr. non saranno tiratori scelti, ma l’efficacia non gli è mancata nell’ultimo mese. E se il raddoppio liberasse Kyrie Irving? Peggio mi sento. E si arriva dunque al capitolo Kyrie-Celtics. Sfottò, diti medi, simboli calpestati, odio. Tutto questo a gonfiare quella che – probabilmente – sarà solo una sfida di basket tra un fenomeno e una sua ex squadra. Per di più al fianco di Doncic sembra che la guardia americana abbia fatto finalmente un gradino a livello di maturità. Ma probabilmente per le migliaia del TD Garden rimarrà una mela marcia traditrice.
Da ultimo gli ultimi Playoff. Come? Dopo che ne hanno vinte 12 e perse solo 2? Esatto. Competizione scadente e un discreto fattore c (da oggi chiamato fattore Mazzulla) per cui è stata ko la stella della franchigia avversaria. Butler per Miami, Mitchell per i Cavs, Haliburton per i Pacers. Eppure, dopo aver perso solo 4 gare casalinghe in tutta la stagione regolare, le due sconfitte sono arrivate proprio in Massachusetts. E non sempre il gioco dei verdi si è espresso ai livelli che aveva dimostrato di poter raggiungere. E ora la sfida più grande: coronare uno stint con il Larry O’Brien Trophy. Con il rischio – se fallimentare – di vedersi sfuggire di mano l’opportunità di una vita. E passare alla storia come uno dei più grandi what if.
23 anni, folgorato fin da bambino dal mondo americano dei giganti NBA e dei mostri NFL, tifoso scatenato dei Miami Heat e – vien male a dirlo – dei Cincinnati Bengals. Molto desideroso di assomigliare a un Giannis, basterebbe anche un Herro, ma condannato da madre natura ad essere un Muggsy Bogues, per di più scarso.