La National Basketball League non fa in tempo a godersi la soddisfazione per la buona riuscita della novità Play-In Tournament che subito finisce sotto i riflettori per una notizia ben poco piacevole: a seguito della sua terza espulsione in stagione Draymond Green è sospeso dalla lega a tempo indeterminato.

A far scattare la pesantissima decisione è stato il pugno del tutto gratuito che Green ha assestato a Jusuf Nurkic nel corso della gara del 12 dicembre tra Golden State Warriors e Phoenix Suns, alla fine vinta da questi ultimi. Si tratta però solo dell’ultima intemperanza in campo dell’Orso Ballerino che nel corso della stagione è andato sempre più vicino al limite tra un giocatore duro e addetto al lavoro sporco e un pericolo per i suoi colleghi, fino a oltrepassarlo definitivamente con quella che è la diciottesima espulsione in carriera.

Nessun giocatore in attività ne ha di più; a titolo di cronaca solo Rasheed Wallace è stato espulso più volte di Green avendone collezionate 29. Ora il 33enne Draymond perderà 153.941 dollari a gara fino all’eventuale ventesima, dopo la quale i bigliettoni persi saranno 202.922 a partita; la NBA ha inoltre richiesto espressamente che Green si sottoponga a un percorso di counseling riabilitativo da discutere, oltre che col giocatore stesso, anche col suo agente Rich Paul e con il general manager dei Warriors Mike Dunleavy Jr.

Chiariamo subito che questa sanzione era praticamente obbligata per la lega specialmente dopo che il precedente episodio da condannare senza mezzi termini con protagonista in negativo Green aveva visto una sospensione di sole cinque gare. Eppure Green aveva preso per il collo Rudy Gobert in modo molto pericoloso tanto che erano stati molti gli appassionati perplessi che sottolineavano la disparità di trattamento tra la punizione inflitta a Draymond e quella comminata a Ja Morant (ancora non rientrato in campo lasciando i Memphis Grizzlies in fondo alla Western Conference davanti ai soli San Antonio Spurs che non vincono letteralmente da due mesi)

Le conseguenze di questa sospensione sono da analizzare sotto due punti di vista: quello dei Golden State Warriors e soprattutto riguardo l’impatto sulla carriera di Draymond Green.

QUALI CONSEGUENZE PER I WARRIORS?

Non credo ci sia bisogno di troppe analisi per capire che i Golden State Warriors stanno vivendo uno dei momenti più difficili dalla loro trasformazione da squadra di bassa classifica in dominatori della NBA. La squadra di Kerr si trova oggi all’undicesimo posto nella Western Conference a tre vittorie dai Suns decimi e dopo aver vinto cinque gare di fila tra il 27 ottobre e il 3 novembre ha portato a casa lo stesso numero di W in un mese e mezzo, di cui una contro i Detroit Pistons da record di sconfitte di quest’anno.

Lo si è detto varie volte e la parola finale spetta sempre alla conclusione della stagione ma stavolta i fasti dei Warriors di Steve Kerr, rinverditi dall’anello di due anni fa, sembrano davvero volgere al termine ed è curioso come il declino della squadra stia procedendo con l’emergere netto dei lati meno positivi delle sue stelle.

Così come abbiamo visto l’intensità e l’agonismo di Green trasformarsi in atti di violenza ai danni non solo degli avversari si registra quindi il calo delle percentuali da tre di Klay Thompson (36.4%, peggior dato in carriera) che coincide con 16.5 punti di media a gara che non si vedevano dai suoi anni da rookie e sophomore, a testimonianza della difficoltà attuale di Klay nel mantenere un contributo elevato quando il tiro non gli entra.

Ora i Warriors hanno perso il loro miglior difensore e un giocatore prezioso per equilibrare il corri e tira che ha caratterizzato la saga Splash Brothers con conseguenze potenzialmente catastrofiche su una difesa che già non era esattamente inespugnabile dato che la squadra di Kerr concede 115.5 punti a gara, gli stessi che realizza in attacco. Ad Ovest è la quarta peggior difesa, davanti all’incommentabile San Antonio, ai Mavericks che subiscono da anni rimonte improbabili e ai Sacramento Kings.

A mio avviso ce n’è abbastanza per parlare di ciclo finito e non è stata certo la sostituzione di Jordan Poole con un Chris Paul attualmente noto soprattutto per le polemiche con l’arbitro Scott Foster la mossa ideale per riportarlo in auge (a prescindere da come se la stia passando Poole nei disastrosi Washington Wizards) Steph Curry è ancora un giocatore fantastico ma bisogna iniziare a utilizzarlo come leader morale e materiale di un gruppo giovane e in ascesa piuttosto che come ultimo baluardo di una squadra che non è più vincente.

Che Green rientri o no in maglia Warriors (ovviamente sono partite subito le voci di trade) e qualunque sia lo stato in cui tornerà sul parquet è decisamente l’ora di valorizzare Jonathan Kuminga (12.5 punti a gara al suo terzo anno in NBA) e valutare cosa potranno dare alla causa Moses Moody e il rookie Brandin Podziemski (partito titolare nell’ultima gara di Golden State in casa del Clippers ma con un pessimo 2/11 dal campo) a costo di farsi una ragione di un mancato rinnovo di Thompson, in scadenza di contratto.

Riguardo a Draymond la situazione non è sicuramente facile essendo il 23 dei Warriors a libro paga fino al 2027. Un suo ritorno che lo veda mentalmente ristabilito e nuovamente aggressivo ma non violento però dovrebbe nell’interesse della dirigenza per tirarne fuori il massimo in un’eventuale trade più che per puntare ancora su di lui; i cicli si chiamano così perchè hanno un inizio e una fine e quello dei Golden State Warriors sembra avviato alla sua conclusione.

La franchigia di casa a San Francisco non ha finora dimostrato di essere convinta che sia il momento di un nuovo inizio ma questi mesi di regular season le stanno sbattendo in faccia la realtà. Meglio quindi non proseguire con mosse come il biennale a Paul se si vuole restare sulla cresta dell’onda di quell’NBA che si è dominato per anni.

QUALI CONSEGUENZE PER GREEN?

Premessa: ad oggi è piuttosto facile dare addosso a Draymond Green soprattutto se si fa parte di coloro che non hanno mai digerito l’innovazione cestistica portata dai Warriors tra la fine degli anni ’10 e l’inizio del ’20 del ventunesimo secolo.
La cosa da evitare nella maniera più assoluta per quanto mi riguarda rimane tuttavia sparare giudizi sulla persona.

Quello che noi conosciamo è il lato pubblico di Green, come accennato giocatore durissimo in campo (come Bill Laimbeer, Dennis Rodman, lo stesso Sheed e tantissimi altri ancora) e un personaggio estroverso e tagliente nelle sue dichiarazioni pubbliche che ultimamente vedono anche la cassa di risonanza del suo podcast. Gli analisti, i giornalisti e i tifosi assistono da dieci anni e oltre a ciò che fa in campo il personaggio Draymond Green, non a ciò che fa nella vita la persona Draymond Green.

Per questo non leggerete da parte mia giudizi nel bene o nel male su questo signore che ha intrattenuto e intrattiene milioni di appassionati come me che lo guardano dai loro dispositivi, spesso e volentieri da chilometri di distanza.

Molte delle reazioni dei colleghi di Green sembrano seguire peraltro questa linea. Steve Kerr si è detto ovviamente concorde con la decisione della NBA di sospendere a tempo indeterminato uno dei suoi cestisti più rappresentativi sottolineando come Green abbia bisogno di assistenza piuttosto che della gogna ma soprattutto giocatori come Gobert e Kevin Durant, che si sono scontrati con Draymond in tempi più o meno recenti, nonchè lo stesso Nurkic hanno immediatamente posto l’accento sul fatto che le intemperanze del 23 dei Warriors nascondano un disagio di cui ora è chiamato ad occuparsi.

Da questo punto di vista la richiesta della NBA di un percorso di counseling è sacrosanta e soprattutto coerente con la crescita della sensibilizzazione sulla tutela della salute mentale che ha accompagnato l’evoluzione della società e non ha lasciato indifferente la lega stessa, da Kevin Love tra i primi ad aprirsi pubblicamente sui suoi attacchi di panico a Ricky Rubio che sceglie addirittura di rinunciare alla stagione per occuparsi del suo benessere psicologico (lui che invece in campo appare sempre positivo e sorridente con gli avversari, esempio perfetto per quanto scrivevo sull’evitare giudizi sulla persona)

Draymond Green ora ha la possibilità di fermarsi e di riflettere su come presentare al futuro prossimo della NBA la versione migliore di sè. Mi auguro davvero che l’organizzazione del percorso di recupero sia efficiente e non dettata dalla volontà di mettere a tacere le malelingue perchè sono convinto che Green sia davvero in grado di superare un momento obiettivamente negativo per lui e per la squadra in cui milita fin da rookie e tornare a offrire la sua intensità cestistica e il suo agonismo ai Warriors o a chi sceglierà di accoglierlo.

Certo, si potrebbe e si può discutere di come si sia arrivati a questo dopo l’aver praticamente strozzato Gobert, l’aver calpestato Domantas Sabonis e aver preso a pugni Jordan Poole (la cui carriera sta venendo letteralmente devastata da questo avvenimento) In questo caso però per me vale il “meglio tardi che mai” a patto ovviamente che la linea NBA nei confronti di eventuali situazioni simili future resti questa. La tutela dei giocatori deve infatti restare la priorità anche sul dover lasciare gli spettatori senza giocatori più o meno importanti e più o meno fonti di guadagno e ascolti TV.

Attendiamo quindi il ritorno dell’Orso Ballerino nella sua versione cestisticamente migliore. Aggressivo solo sportivamente e non violento, uomo squadra e non prevaricatore, soprattutto vincente. Come è stato per tanti anni e come non è stato questo.

 

 

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