La fenice è un uccello mitologico considerato in grado di controllare il fuoco e di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. In alcune parti del mondo, specificamente negli Stati Uniti, è conosciuto anche con il nome di Indiana Pacers.

Era dalla stagione 2019-2020 che Indiana non assaporava così spesso il gusto della vittoria. Da quel 45-28 di una franchigia guidata da Domantas Sabonis, Malcolm Brogdon e dal prime Victor Oladipo. Poi tre anni di completo oblio: 34-38, 25-57, 35-47.

E per la nuova stagione – quella attualmente in corso – niente di nuovo: i volti erano sempre gli stessi. Tutto faceva presagire a un’altra annata da ‘galleggio come un sughero’.

Finora, è stato tutto eccetto che questo. Il record: 15-9, che vale il quinto posto nella Eastern Conference. Ma soprattutto una indimenticabile cavalcata da imbattuti nella nuova NBA Cup, interrotta proprio sul più bello dall’eterno LeBron James.

Una squadra dai due volti

L’origine di tutte le disgrazie e di tutte le fortune per la squadra di Rick Carlisle è la sua impostazione di base. Un’impostazione alla ‘Giano bifronte’ che è già ben visibile alla sola lettura del roster. In poche parole, un talento offensivo fuori dal comune e lacune difensive non da poco.

La fase offensiva, nelle prime 22 gare della stagione 2023/2024, è di gran lunga la migliore dell’intera lega. Una sorpresa, considerando che solo lo scorso anno erano nella seconda metà della NBA in qualunque statistica. Da fine ottobre i Pacers sono primi per punti a partita (128.4) e per offensive rating (123 punti ogni 100 possessi). Che messi in confronto ai 114 di dodici mesi fa certificano un enorme balzo in avanti nella metà campo avversaria.

L’enorme efficienza dell’attacco di Indiana può essere spiegato in molti modi. Mi limito a citare due semplici dati. In primo luogo gli assist a partita, categoria che vede i gialli di Indianapolis ancora primi in tutta la lega (30.3). Una propensione all’altruismo e alla condivisione della palla a spicchi che ovviamente facilita la costruzione di un attacco più fluido e meno statico. E che crea ottimi spazi ai cecchini: il 42.8% dei tentativi dal campo arriva senza che il tiratore abbia palleggiato una sola volta. E, addirittura, più della metà senza che abbia tenuto la palla in mano per più di 2 secondi. Insomma, l’isolamento non sembra essere nelle corde dei ragazzi di Carlisle.

In secondo luogo, il ritmo elevatissimo con cui giocano. Push the pace, direbbero negli Stati Uniti. I Pacers sono – ancora una volta – primi per possessi ogni 48 minuti di gioco (104.4). Ulteriore sintomo della velocità delle loro operazioni offensive è un altro dato: solo il 17% dei tiri arriva con 7 o meno secondi allo scadere dello shot clock. Una rapidità che raramente si trasforma in fretta e che permette a Indiana di avere il miglior field goal percentage (50.7%) ed effective field goal percentage della NBA (58.4%).

Rimane però un attacco che funziona molto a fiammate. E se la difesa riesce a creare una gabbia attorno a Tyrese Haliburton, stella indiscussa, i Pacers faticano a funzionare. Lakers docent.

Dall’altra parte, la difesa è un grande tasto dolente. La parabola di netto miglioramento offensivo non è stata rispecchiata nell’altra metà del campo. Sono ventinovesimi nella NBA per punti concessi a partita (125.5) e ventisettesimi in defensive rating (120.2 punti concessi ogni 100 possessi).

Concedono percentuali dal campo intorno al 50% e un effective field goal percentage vicino al 56%. Ma soprattutto mandano in lunetta gli avversari con il tasso più alto della lega (28.7 tiri liberi concessi a partita). E, alla fine, le partite si trasformano in una gara a chi segna di più. Divertenti, per carità: ma sarà una ricetta sostenibile per una possibile deep run nei Playoff?

I giocatori decisivi

La squadra è giovane, c’è poco da dire. Otto dei 15 giocatori con contratto standard sono nati dopo il 1999, sette non hanno mai visto dal parquet una partita di Playoff. Inesperienza che porta con sé una buona dose di incoscienza. Talvolta sana, si veda l’In Season Tournament. Talvolta un po’ meno.

Star assoluta di un progetto appena decollato è Tyrese Haliburton. Scaricato dopo troppo poco dai Sacramento Kings, ha preso le redini dell’attacco di Carlisle già dalla metà della scorsa stagione affermandosi come una delle migliori opzioni offensive della lega.

Le sue statistiche di questa stagione sono davvero fuori da ogni logica per un classe 2000 in una squadra teoricamente non in lotta per il titolo. Viaggia a 26.1 punti di media a partita con il 44% da tre e il 62.7% di effective field goal percentage. A cui bisogna aggiungere 4.3 rimbalzi, 12 assist, 1 rubata. Che Haliburton sia il fulcro dell’attacco di Carlisle lo dicono anche altri dati. Tyrese è primo in:

– Assist a partita (12.0)
Potential assists a partita, vale a dire passaggi che portano un compagno a tirare entro un palleggio dalla ricezione (20.3)
–  Assist points created, cioè punti a partita che vengono da suoi passaggi decisivi (31.4)

Il tutto con un assist to turnover ratio abbacinante: 4.25. Per un giocatore che contribuisce così tanto e così spesso all’attacco della sua squadra (compie il 45% degli assist e il 22% dei punti), è un numero da superstar.

Quest’anno, poi, Tyrese ha confermato più volte di poter reggere la pressione del grande palcoscenico americano. Lui che fino ai quarti di finale della NBA Cup aveva giocato in diretta tv nazionale solo due volte nella sua intera carriera. Si pensi alla tripla + fallo sul 105 pari proprio nel quarto contro i Boston Celtics.

O ancora il Dame Time in semifinale contro i Milwaukee Bucks dello stesso Lillard, dopo la dagger three. Ci sta sbocciando davanti agli occhi un vero fenomeno.

Dietro a Tyrese, il secondo violino è sicuramente il veterano Myles Turner. Perfetto nel gioco di Carlisle: tiratore, floor stretcher, buon realizzatore da sotto il ferro e ottimo difensore del pitturato. Certo, i suoi 17.6 punti e 8 rimbalzi a partita non sono numeri da seconda stella. Così come un buon apporto viene da tutti gli altri giocatori. Da Bennedict Mathurin, che ha un po’ rallentato rispetto alla stagione rookie, a Buddy Hield fino a Obi Toppin, Bruce Brown e Aaron Nesmith. Tutti mattoncini nella costruzione di una delle storie di inizio stagione più appassionanti degli ultimi anni. Tutti vittime di alti e bassi, come è normale per una squadra che non è abituata a bazzicare i piani alti della NBA. Tutti, in un modo o nell’altro, tirati su da quel fenomeno con il numero 0. Perchè è inutile negarlo: Indiana Pacers è sempre più sinonimo di Tyrese Haliburton.

Da qui l’idea di acquisire una vera seconda stella. I nomi sarebbero tanti, ma quelli per ora più mormorati vengono ambedue da Toronto: Pascal Siakam e OG Anunoby.

Io personalmente preferirei il secondo. Pur consapevole che Siakam fornisce maggiore esperienza e un più esteso arsenale offensivo. Anunoby, però, fornirebbe quella grinta difensiva in più in un roster che – è evidente – di armi per attaccare la retina avversaria ne ha già da vendere.

One thought on “La rinascita degli Indiana Pacers

  1. Squadra che non difende. Se per miracolo arriva ai playoff esce alla prima occasione.

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