E’ da un po’ che mi frullano in testa delle idee perché qualcosa non torna a riguardo delle ultime narrazioni NBA e sulla recente riapertura del caso “Jordan o Lebron” dopo l’ennesimo record battuto qualche settimana fa da LBJ.
Prima di tutto è obbligatorio fare la scontata premessa che gli unici discorsi intelligenti riguardanti il GOAT in qualsiasi sport, sono quelli che non si fanno: quasi impossibile comparare anche i contemporanei; quando poi ci si spinge su epoche diverse l’esercizio diventa praticamente fideismo.
Le rivalità (fra squadre e/o fra giocatori storici nel loro “prime”) consumate sul campo e non unicamente discusse sui social sono rarissime e quando “inciampiamo” nelle classiche diatribe tipo Larry-Magic o Nadal-Federer, le trattiamo giustamente con un senso epico che sconfina nel mistico-filosofico. Ok, l’ho detto. Andiamo avanti.
Il problema è che la comparazione è anche una delle attività base con cui si articola il pensiero umano ed è quindi impossibile evitare completamente i “GOAT debates”, solo che qui voglio provare a giocare un po’ con i concetti e le categorie con cui valutiamo e ci innamoriamo di certi giocatori per provare a dare una prospettiva diversa (e non numerica) sulla questione.
A causa dell’eterno (e noiosissimo) ritorno dei discorsi sulla rivalità Jordan-Lebron, riproposti ogni qual volta il secondo supera un qualsiasi record, mi sono chiesto come mai la narrativa Lebroniana continui a non convincere una buona parte di media e fan.
Sono (siamo) tutti davvero così ottusi e incapaci di rivalutare un’opinione di fronte a tanta grandezza?
Non credo. La risposta che mi sono dato è che per ragioni precise che proverò qui ad elencare, il nativo di Akron polarizzi una buona fetta di mondo creando due fazioni estreme (haters e witnesses – entrambe cause vinte o perse a seconda di come la pensiate, ma comunque persone a cui questo pezzo NON è rivolto) lasciando tanti scettici e indecisi nel mezzo per cui la questione numerica non è sempre essenziale.
Fra questi, c’è una buona fetta credo, composta da quelli che hanno seguito e sperato di assistere in prima persona alla History in the making del più forte giocatore di sempre e ne sono (a mio avviso giustamente) rimasti parzialmente delusi. A loro si contrappongono invece quelli che credono di averci visto giusto, continuando così a produrre dati su dati per fare quello che in inglese si potrebbe dire reverse engineering his greatness (non c’è bisogno che la traduca, si capisce e suona bene così da sola). Da questa dicotomia e dall’ovvia possibilità di monetizzarci sopra con click e visualizzazioni nasce il malsano numero di contributi su questo argomento di cui ovviamente anche questo articolo fa parte.
Non sono di norma contrario alle statistiche e di certo non ho nulla da dire contro l’ultimo record di LBJ che a livello di continuità di rendimento, stabilità fisica e mentale non ha da invidiare niente a nessuno nella storia di ogni sport.
Anche quest’ultimo record, lo dico forte e chiaro, fa paura: fare più di 38.387 punti in 18 stagioni è al limite dell’incredibile e sicuramente (anche per questo) LBJ credo debba stare nella top 10 di qualsiasi appassionato di basket nel mondo. Questa precisazione dovrebbe essere abbastanza per passare da critico, ma (almeno spero e credo giustamente) non da hater.
Bisogna però contestualizzare tutti i numeri, specialmente quando parliamo di una lega che ci vizia con atleti fenomenali e record assurdi: ricontrollare per credere i 100 punti in una partita di Wilt (Chamberlain) o gli 11 anelli in 13 anni -di cui 8 di fila- del buon Bill (Russell) giusto per citare due persone che nel famoso GOAT debate non ci entrano praticamente mai.
E’ allora obbligatorio fermarsi un attimo e dare una prospettiva anche quest’ultimo record di LBJ e del suo (probabile) capitolo conclusivo con i Los Angeles Lakers con una domanda che lascio aperta a tutti (commentate qui sotto per dirci la vostra): se i Lakers continuassero a non giocare un basket vincente e Lebron continuasse fino al ritiro a impilare “solamente” statistiche, senza altri titoli, senza altre playoff run, la sua legacy migliorerebbe o peggiorerebbe?
Suona strana, ma fatemela spiegare…
Pensando intorno a questo tema, mi sono da poco ricordato di quando, da studentello del corso di chimica di base, mi hanno spiegato le diluizioni. Processo ideale per aumentare il volume di una qualcosa abbassandone però il contenuto specifico, “la ciccia”, di una determinata sostanza o composto. Mi sembra che il costante accatastamento di numeri in favore di LBJ stia facendo proprio questo: sopperire con tanto volume numerico ad una carriera straordinaria si, ma deficitaria di quei picchi emozionali che tutti ci aspettavamo da uno soprannominato The chosen one.
Tutto questo è legato ad una serie di ragioni che mentre invecchiamo insieme (chi vi scrive è praticamente coetaneo di LBJ) mi sono sempre più chiare e secondo me condivise da una buona fetta di mondo, anche se spesso espresse “male” e troppo di pancia.
Per iniziare, ammetto che a me LeBron (e quel tipo di basket) non ha mai fatto strappare i capelli; non è mai stata una questione di numeri o record o fatturato. In quello, invece, devo ammettere che non ci ha davvero mai preso in giro.
Se una critica gli può esser fatta è stata sempre e solo quella di mancare di quelli che negli States vengono spesso chiamati -ironicamente- Jordan moments o Mamba Mentality che di per sé non sono solo (ma anche) una questione di canestri fatti negli ultimi minuti, ma più in generale rappresentano un modo diverso di vedere il gioco e la sfida, basato sul killer Instinct più che sugli scarichi per il tiratore libero allo scadere del cronometro. Un approccio diverso verso il mondo e la competizione, più che una advanced stat. A me nello sport piacciono di più quelli così.
Riconosco anche che nel corso di questa parabola comunque avvincente e lunga 18 anni ci sono stati alcuni punti ad altissima intensità in cui tutto sarebbe potuto cambiare in meglio (o in peggio, se pensiamo ai canestri di Irving e Allen) e sono convinto che anche quelli un po’ più rompiscatole come me gli avrebbero perdonato tanto (se non tutto) se fosse arrivato qualche anello extra o almeno uno stradominio effettivo sulla lega.
Dominance che, adesso, guardando indietro nell’albo d’oro della NBA, possiamo affermare sia stata “parziale”: sotto la presunta “reggenza” di King James abbiamo visto tante (troppe a mio avviso) altre squadre avere successo, e addirittura dinastie vincere, riaffermarsi o formarsi on his watch (penso agli Spurs e ai Lakers prima e agli Warriors poi), nonostante i molteplici cambi di casacca che dovrebbero averlo aiutato nel suo percorso (Wade, Bosh, Irving e Anthony Davis non capitano a caso in una lega come la NBA).
E si arriva così ai benedetti cambi di squadra di Lebron, altro punto nevralgico da toccare e spesso mal affrontato, perché viziato da questioni (a mio avviso sbagliate) sulla fedeltà alla maglia e non focalizzandosi mai abbastanza sulle enormi difficoltà intrinseche che questa lega mette alle superstar per mantenere a lungo il successo nella stessa franchigia. Da questa difficoltà LBJ ha deciso di chiamarsi fuori semplificandosi oggettivamente la camminata verso l’olimpo.
Per me questa questione è ancora più amara perché io adoro il fatto che la struttura della NBA dia questa meravigliosa possibilità di creare dinastie e rivalità; per me è la vera secret sauce della National Basketball Association. Il “problema” è che tutto questo può esistere solo a patto di accettarne anche il passaggio attraverso degli inevitabili momenti di ricostruzione e sviluppo che portano via tempo (e tantissime energie). Croce e delizia di questa lega.
Capisco molto bene quindi quelli che vedano il team hopping (il saltare da una squadra all’altra) come una furberia, un trick, come giocare ad un videogioco con i codici per avere vite o munizioni infinite.
Nonostante questo (a voi l’ardua sentenza), il dato oggettivo, o la critica che dir si voglia, è l’aver vinto tutto sommato poco nonostante tutti questi cambi, super-compagni e superteam: in 18 anni, “solo” 4 titoli, di cui uno conquistato in un parco giochi chiuso al pubblico durante una pandemia mondiale, sembra sinistramente un “non abbastanza”, non per lui almeno.
18 anni in cui ha avuto una grande stabilità fisica e mentale ma in cui non ha mai voluto sobbarcarsi né le ricostruzioni, né lo sviluppo dei pezzi utili alla vittoria della squadra e nemmeno il tenere un gruppo insieme nel lungo periodo gestendo infortuni, contratti, management, star e co-star (che secondo me rimane una delle cose più complesse e più energy draining per le superstar NBA e per cui non lodiamo mai abbastanza i vari Duncan e Curry di questo mondo…); splendido egoismo dei numeri che ribattezzato player mobility è stato consumato in un valzer fra Cleveland e Miami ed LA alla ricerca di prime scelte al draft o del next superteam per tornare alle Finals sempre nel più breve tempo possibile.
Questo è quello che gran parte di noi rimproverano a Lebron e queste sono le ragioni per cui molti di noi non riescono a metterlo nelle primissime posizioni della GOAT list e non cambieranno certo opinione qualunque sia la nuova statistica infranta in 20 o 25 anni di NBA giocata. Ed è per questo che provocativamente sostengo che anzi.. continuare su questa strada -l’affastellamento, l’incoronamento e la celebrazione dei numeri per sé, senza giocare un basket vincente- possa nuocere alla causa dei witnesses
Sul lato dei record, forse la penso così perché io gli sportivi li tratto un po’ come grandi artisti; la vastità di una produzione è importante, ma sono i masterpiece quelli che li mettono nella storia delle proprie professioni/arti. Li amo per i loro picchi e i loro momenti più alti, per quegli istanti in cui ti stracciano la partita con una punta di boria/sfrontatezza-irriverenza declinata in uno sguardo o in una punta di trash talking, per quei picchi di estro/talento/genialità che a volte non puoi nemmeno spiegare a parole, figuriamoci con un numero.
La costanza di rendimento e le stats sono un di più che, quando diventa fine a se stesso, mi annoia anche un po’.
Giusto per non fare l’ignavo, concludo facendo coming out: complessivamente, se devo darvi un GOAT (per ora) nel mondo del basket vado con Michael Jordan. Non solo (ma anche) per i 6 anelli, ma più per una questione di anima, emozioni e filosofia sportiva che di numeri.
Per la storia complessiva, le difficoltà superate l’istinto competitivo, quel rifiuto di perdere e un’anima guerriera come credo poche ne siano apparse in tutti gli sport.
Anche per MJ, i numeri al massimo ti confermano qualche punto, ma non dovrebbero mai essere usati come ariete per sfondare ogni porta di ingresso in questa discussione.
Per ironizzarci sopra, Robert “Big Shot” Horry ha vinto più titoli di Duncan, Kobe ed MJ ma nemmeno ad un parente stretto verrebbe mai in mente di metterlo davanti a queste persone per quanto riguarda il posto nella storia della lega.
Chiudo dicendo che questo è ovviamente solo un punto di vista e che tutto è meravigliosamente parziale.
Lo sport, e la NBA in particolare, è meraviglioso proprio perché è sempre tutto in divenire e finché il libro non si chiude c’è sempre tempo per un’altra pagina fondamentale nel romanzo di questi fenomeni, come recentemente mi (ci) hanno insegnato in campi diversi Messi e Tom Brady, per esempio.
Sono parecchio curioso di vedere cosa ci riserva ancora la meravigliosa favola di LBJ.
E voi invece, come la pensate?
Sottoscrivo la premessa che l’unico discorso veramente intelligente sulla qustione sia “”.
A mio parere, il record di punti in carriera è un dato spettacolare ma molto parziale. Ad esempio non tiene conto della difesa, non tiene conto dei supporting cast, nè dei modi nè dei tempi in cui questi numeri sono stati messi insieme. Sicuramente il record ci delinea un giocatore di livello epocale, ma non ci dice tutto. Per fare un esempio, se un record ci dicesse tutto, probabilmente un grandissimo candidato all’effimero titolo di capra sarebbe chi ha saputo mettere insieme quattro stagioni in tripla doppia di media, laddove al massimo in una sola occasione, un solo altro essere umano era mai riuscito. Invece no: anche qui parliamo di un talento indiscutibile, ma non certo di goat.
LBJ ha messo insieme numeri da urlo, ma va anche detto che questi numeri sono resi possibili, oltre ad un talento indiscutibile, dal fatto di avere saltato del tutto il college, di non avere subito infortuni gravi tanto da essere ancora oggi tra i migliori e dal fatto, come scrive l’articolo, di avere saltato qua e là alla ricerca delle opportunità migliori. Ma mi chiedo, se un giocatore “la tira per le lunghe”, è più grande rispetto a chi, intravista la parabola discendente, decide di passare la mano? Io non credo, pur rispettando massimamente le scelte personali di giocatori che, visto che sono ancora richiesti, decidono di continuare a giocare.
Leggo sempre di questo dualismo con MJ. A mio parere il record dell’altro giorno non toglie e non aggiunge nulla: non era MJ il detentore di quel record. Se fosse quel record a dirimere la questione, non sarebbe con MJ che si dovrebbe fare i conti. Ma con un soggetto da UCLA, uno per il quale avevano pure bandito le schiacciate dal basket, facciamo un po’ i conti.
Per me personalmente, il campione più campione è il più determinante. Quello che sposta gli equilibri maggiormente, quello che definisce senza discussioni chi vince e chi invece deve fermarsi. E sono indeciso tra Jordan e Russell. Purtroppo ho “vissuto” giocare solo il primo, per cui non sono in grado di risolvere la questione.
Ciao e grazie per il commento. L’argomento un po’ pugilistico del “portare via la cintura al campione”, suona molto bene anche per me, ma l’ho volutamente omesso perché molto legato ad un certo modo di vedere il mondo (estremamente statunitense) che se non ben argomentato rischia più fraintendimenti che altro. Per il resto sono d’accordo con tutti gli altri punti che hai sollevato!
In realtà, nonostante non sono un suo fan, ma neanche un hater, penso che sia incredibili che LeBron abbia incontrato addirittura 3 dinastie e le abbia battute tutte almeno una volta, e’qui secondo me la grandezza…
Parliamoci chiaro, la NBA NON È LA NFL, la dinastie sono molto più facili da trovare e batterne 2 per me è grandezza
“Se dall’ultimo tiro di un incontro di basket NBA dipendesse la tua vita, a chi daresti la palla in mano?”
Non certo a Lebron, oltre a non essere mai stato un clutch player vero e proprio, ha vissuto sullo sfondo 3 tiri iconici dei suoi anelli, quelli di Ray Allen, Irving e Davis. Dalla sua di sicuro c’è il The Block su Igoudala, ma che conferma appunto la prevalenza del suo atletismo sull’essere il giocatore che mette il tiro della vittoria. Lebron è sempre stato il dominatore della partita, quello che macina punti su punti, ma nei finali tirati ha sempre sparacchiato un pò.
Bellissimo articolo, in cui mi ritrovo al 100%. Unico piccolo appunto..io avrei ricordato che Kareem ha fatto 4 anni di college, siglando il record (quello sì imbattibile) di 3 titoli Ncaa.