I Golden State Warriors battono i Boston Celtics 4-2 in queste Finals ‘22 e aggiungono un altro tassello allo loro dinastia. E’ il quarto titolo in 8 anni, il settimo nella storia della franchigia (i primi due vinti quando ancora erano a Philadelphia).
Steph Curry su tutti, MVP delle Finals per la prima volta, Klay Thompson, Draymond Green e anche Andre Iguodala pur in netto calo e con minuti in campo irrisori. Sono loro i Big 4 di una dinastia che ha già cambiato nettamente la storia della NBA.
Ovviamente con Steve Kerr in panchina, grande uomo e gran condottiero, già 5 volte campione da giocatore e quindi ora con 9 anelli alle dita.
Proviamo ad accennare alle 5 storie che ci ricorderemo di queste Finals, dando ai Celtics il giusto tributo per l’onore delle armi.
FINALMENTE MVP DELLE FINALS, STEPH E’ DI UN ALTRO PIANETA
Ovviamente i media americani su questo hanno costruito ore e ore di palinsesti TV. “A Steph manca l’MVP delle Finals per essere davvero tra i più grandi di sempre ?” è stata una delle domande più sentite e giù di lì tutti a discutere sul peso della sua futura legacy.
Io penso modestamente che a Curry, falsa modestia a parte, interessasse davvero tanto poter essere incoronato miglior giocatore delle Finals. Lo hanno chiaramente derubato la prima volta, onore a Iguodala in ogni caso, si poi è visto cadere addosso tal Kevin Durant con i suoi tiri decisivi contro i Cavs di LeBron, peraltro dalla stessa mattonella da un anno all’altro.
Ora questo trofeo se lo prende senza nessuna concorrenza, pur avendo tirato anche 0-9 da tre in gara 5. Quindi, per rispondere a quella domanda su cui cincischiano i nostri amici di ESPN e dintorni, no, Curry non aveva bisogno di questo Finals MVP per sedersi comodo nel primo cerchio della storia NBA.
E’ già il più grande tiratore di sempre, è il pezzo più continuo e più importante di una dinastia che ha semplicemente riscritto le regole del gioco.
A partire proprio da lui. C’è una NBA prima e dopo Wilt Chamberlain, prima e dopo Magic e Bird, prima e dopo Michael Jordan e decisamente c’è una NBA prima e dopo Steph Curry e i suoi Warriors. Suoi senza più dubbi.
KLAY SPUNTATO MA REDIVIVO
Voglio bene a Klay e non vorrei essere cattivo con lui, sarà sicuramente quel bravo ragazzo di cui ci hanno parlato sia Mark Jackson che Jeff Gundy in telecronaca.
Mi ha dato fastidio vederlo tempo fa con la maglietta con su il numero 77. Voleva gridare al mondo che lui in quella lista dei primi 75 di sempre, che poi sono diventati 76, ci stava legittimamente dentro. Non sono d’accordo ma sorvolo, pronto a ricordare il suo contributo in questa dinastia.
In queste Finals porta a casa 17 punti di media ma è terzo dietro Wiggins, ormai chiaramente la seconda arma offensiva della squadra. Non è questo il problema ma piuttosto le sue percentuali. Alla fine è riuscito ad aggiustarle un po’ ma chiude comunque col 35% dal campo (Steph al 48% e Wiggins al 45%) e col 35% da tre (Steph al 44% nonostante lo 0-9 di gara 5).
Ha subìto infortuni per cui possiamo essere orgogliosi e stupiti se è tornato in campo, questo va sempre ricordato, come è doveroso ribadire che non è più il Klay di una volta in ogni caso.
Nonostante tutto c’è anche la sua firma. Mi ha fatto sorridere sentirlo dire a Steph nel mezzo delle celebrazioni “tutto quello che facciamo è tirare da tre e vincere titoli”.
Candido come una rosa. I due hanno impresso una nuova marcia nel corso del gioco stesso e non solo della NBA. Oggi al playground, nel giardino in casa, in palestra, ovunque si sente dire ai ragazzi che il loro obiettivo è tirare da lontano come quei due. E giù spingardate da 9 metri.
Ai miei tempi le “americanate” erano le entrate spericolate a canestro magari con layup rovesciati oppure cercare di “rompere le caviglie” con palleggi in crossover, tra le altre cose. Il tiro no, era ancora un fondamentale europeo, semplice e pulito, da imparare come le pagine di Tucidide al Ginnasio quindi va da sé con tanta noia.
Hanno imposto un nuovo orizzonte alla generazione di oggi e allargato il range portando tutti fuori l’arco. E’ la più grande e più duratura rivoluzione di questa dinastia firmata Steph and Klay.
E’ TORNATO IL CELTICS PRIDE
Il record di titoli all-time non ha ancora un chiaro padrone. I Celtics non sono riusciti a staccare i Lakers dal primo posto condiviso a quota 17 e in onor di più Finals giocate dai californiani (ne hanno perse 15 contro 5) mantengono lo status di “primus inter pares”.
Gran bei Celtics in queste Finals, partiti col botto in gara 1, poi in vantaggio 2-1 nella serie. Sono un po’ calati alla distanza rendendo abbastanza chiaro un gap soprattutto per colpa dell’attacco avversario.
Se i Warriors sono in forma e girano a pieno regime come fermi la loro maggiore potenza di fuoco ? Domanda che sorvola nell’etere dal 2014.
No, non li fermi. I Warriors faranno un punto più perché hanno semplicemente più munizioni di chiunque, forse anche nella storia del gioco.
Celtics che escono davvero con la testa alta, a tratti anche eroici. Il problema fondamentale è che l’unico modo di battere Golden State è adeguarsi al loro attacco, sparando da tre come se non ci fosse un domani, “five out”, senza traccia di un gioco spalle a canestro.
In gara 1 i veri Warriors erano vestiti di biancoverde, compreso Al Horford, ma si è subito capito chiaramente che fosse un ritmo innaturale ed impossibile da mantenere.
Jayson Tatum finisce le Finals come secondo miglior scorer dei suoi (21,5 di media contro i 23,5 di Jaylen Brown), col 37% dal campo e con quasi 4 perse a partita. Non è andata benissimo, senza un vero big game.
Troppe responsabilità e troppe scelte sbagliate. L’ho visto addirittura troppe poche volte in isolamento, magari in quel territorio ormai vituperato che è il post- medio. Sempre faccia a canestro, o si spara la tripla (chiude in ogni caso con un bel 45% da tre) oppure si va dentro, peccato per lui però spesso a sbattere.
Non gli voglio dare colpe non sue, non vorrei che sia stato gestito male il suo spazio in campo. Per questo bisognerebbe bussare più che altro ad Ime Udoka.
Di questi Celtics vorrei ricordare soprattutto Marcus Smart. Non è un playmaker, non è una guardia in senso classico, è un giocatore con buone ma limitate virtù personali se rapportate alla media ma che ha saputo incarnare in pieno lo spirito storico dei Celtics.
Legittimante con i capelli verdi, l’anima della squadra, un combattente. 15 punti e 5 assist di media ma con perse anche banali ad ogni gara. Spesso va oltre il suo limite ma sono sicuro che senza di lui questi Celtics mai avrebbero scalzato Giannis dal trono della Eastern Conference.
E JABARI PARKER DOV’E’ ?
Il Draft 2014 è stato fantastico. Per tutto l’anno prima delle chiamate il dibattito unico verteva su chi dovesse essere scelto al numero 1 tra Andrew Wiggins e Jabari Parker. In ogni caso, si diceva, sarebbero stati due futuri pilastri della nuova generazione NBA.
Sappiamo che non è andata così. Jabari Parker dov’è? Fa ridere abbastanza ma è passato proprio dalle parti di Boston in questa stagione, tagliato due volte dai finalisti ad Est in un anno e definitamente a gennaio scorso.
Ne ha giocate 12 con 9,3 minuti di media a gara per 4,4 punti. Doveva diventare il volto dei Bucks e invece ha ceduto il passo ad un ragazzino smilzo dalla Grecia. La sua carriera non è mai decollata, un bust assoluto.
Perchè dico questo ? Perchè avrebbe potuto essere l’identico destino anche per il nostro Wiggins e invece eccolo qui a sollevare il trofeo di campione NBA.
Il ragazzo canadese ha avuto anni dall’enorme potenziale a Minnesota ma è sempre sembrato sul punto di sbocciare senza mai raggiungere appieno il suo potenziale. I Warriors hanno fatto una scommessa rischiosa su di lui e l’hanno vinta.
Con un altro ruolo, senza il peso di portarsi addosso un’intera franchigia, è risultato il miglior giocatore della serie tra gli umani, tolto Steph che appartiene ad altra categoria.
18,3 punti di media, 8,8 rimbalzi col 45% dal campo ma soprattutto una presenza difensiva da primo della classe. Un giocatore totale, anche spettacolare, finalmente motivato e inserito nel contesto giusto che possa esaltarlo.
E Jabari Parker dov’è ? Ah, a proposito, che quel draft fosse ben poco previdente lo si può vedere alla chiamata numero 41. Andava in onda uno spot di Taco Bell e nemmeno si vide in TV il giocatore scelto, un ragazzotto che tendeva ad ingrassare proveniente dalla lontana Serbia. Il due volte MVP Nikola Jokic.
STEVE KERR, IL NUOVO MODELLO DI HEAD COACH
Azzardo questo parallelismo. Come Steph Curry ha rivoluzionato il gioco in campo Steve Kerr lo ha fatto dalla panchina.
E’ bene dare merito all’allenatore di questa dinastia, il grande ex tiratore da tre dei Bulls di Michael Jordan del secondo three-peat.
Ora va molto di moda il cosiddetto “players-coach”, anzi è diventato di fatto il modello unico di riferimento. Prendi un ex giocatore, magari ritiratosi da poco, mettilo a guidare una squadra puntando forte sulla conoscenza da dentro delle dinamiche di spogliatoio e sulla chimica che può legare i giocatori a qualcuno che è percepito come uno di loro e non come corpo estraneo.
E’ un discorso lungo che andrebbe ben affrontato ma diciamo che ormai il modello è vincente e Kerr ne è il simbolo in NBA, come probabilmente Carlo Ancelotti fresco di Champions League nel calcio europeo, già di suo calciatore di livello.
Il prototipo alla Larry Brown o ai fratelli Van Gundy è il passato, o anche un ibrido come Phil Jackson. L’intellettuale studente del gioco già giocatore di scarso successo è ormai un concetto superato, nonostante nel nostro campionato Ettore Messina e Sergio Scariolo stiano alla resa dei conti in Finale Scudetto.
Cosa ci sorprende di Steve Kerr ? La sua capacità di tenere insieme la squadra e di riportarla al successo dopo due stagioni buie ha qualcosa di epico e di sottovalutato al tempo stesso. Nessuno come lui ha costruito con il nucleo storico un rapporto così forte nel corso degli anni.
L’impressione è che per Steph, Klay e Dray sia ben più che il loro allenatore e questo loro legame è la dimostrazione che il calore umano sia ben più importante della mente tattica, che pur certo non è assente.
Ce lo ricorderemo in questi playoffs per la commozione sincera in conferenza stampa quando con le lacrime agli occhi sfogò tutta la sua rabbia per le leggi permissive in tema di armi dopo la strage in Texas nella quale sono morti 19 bambini e due insegnanti.
Il padre fu ucciso in Libano da una milizia islamista, la sua rabbia gli viene da dentro nel profondo. Non è un caso. Steve Kerr l’ha vinta sul piano umano e ci ha costruito una dinastia.
I Golden State Warriors sul tetto del mondo dunque, complimenti a loro. Dalla stagione 2015 sono sempre stati alle Finals tranne che in due occasioni, vincendone 4 e perdendone due per colpa di un LeBron in missione di ritorno a casa e per gli infortuni a catena contro i Raptors di Kawhi Leonard.
Siamo tutti testimoni degli anni dei Warriors. Dimenticavo, è anche il primo titolo nella città di San Francisco, avendo lasciato l’anonima Oakland dall’altra parte della Baia.
San Francisco è un vestito più aderente a questi Warriors, perfettamente in tinta col loro carattere, un connubio perfetto. Leggeri e scanzonati all’apparenza, delle belve pronte ad azzannarti quando più conta. Magari col sorriso, senza apparentemente faticare.
“E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure…”
Pensavo ad una gara 7 visto quanto ostici si sono dimostrati i celtics. Invece i warriors ne hanno vinte 3 di fila.. grandiosi .. grande organizzazione e squadra , e contento per klay anche se non più quello di prima
C’era troppa differenza. Anzi, mi hanno sopreso i verdi maestosi in gara-1, ma era ovviamente un fuoco di paglia. Due mezze stelle che insieme non fanno il solo Curry, Smart che è commovente ma limitato, Williams unico lungo competitivo (da Garnett-Perkins i Celtics sotto fanno pietà) e un allenatore-matricola: dove vuoi andare contro la meglio squadra degli ultimi 10 anni? Già hanno avuto culo a incontrare i Bucks senza Middleton… O aggiungono un paio di pezzi pregiati o più di così a Boston non faranno mai.
I Warriors, viceversa, salutando Iguodala e irrobustendo la panca hanno ancora un paio di cartucce prima che il 30 si ritiri.