Il ritorno di Klay Thompson nei nuovamente funambolici Warriors dell’MVP Curry, l’ennesimo tentativo di Chris Paul di portare a termine la propria missione a Phoenix, le lotte intestine a Est fra Milwaukee campione in carica, i Nets dei Big Three part time e dei rientranti al vertice Bulls nonché le crisi losangelene doppia sponda; tutte queste storie stanno togliendo il giusto e meritato risalto al team che più di tutti si sta palesando come vera contender presente e futuristica: i Memphis Grizzlies di Taylor Jenkins.

La guida del coach texano appena trentasettenne e al terzo anno da capo allenatore conferma la politica tout court di Jason Wexler e proprietà, ovvero puntare sui giovani e farli crescere in modo sereno dentro un ambiente non asfissiante come quello della Grind City. Certo se poi la fortuna strizza l’occhio e ti concede in dote un campione generazionale al draft col quale iniziare sin da subito a vincere e competere, gli obiettivi al ribasso vengono d’un tratto stravolti.

Chi segue da decenni gli sport professionistici americani sa benissimo che ogni matricola scelta alla prima tornata ha skillset particolari che potrebbero un giorno elevarla al top, ma ciò che distingue un crack da un bust sono mentalità, leadership e resilienza psicofisica. Se Zion era la prescelta sensazione collegiale, punta di diamante con la quale regnare nel pitturato, nessuno poteva minimamente immaginare l’impatto che la seconda overall Ja Morant avrebbe avuto nel panorama NBA.

Chiunque si augura che il ragazzone da Duke possa riprendersi e perdere peso, tornando così a farci divertire e sognare, ma quel che il play di Memphis possiede è qualcosa di magico e innaturale che pochi altri debuttanti hanno, Zion in primis, e non si trova all’esterno ma all’interno della propria la testa!

I meriti del ragazzo sono sì tanti ma vanno divisi appunto con quelli del coach, che con un roster giovane e talentuoso ha deciso di sciogliere le briglia ai suoi giocatori, permettendo magari di rischiare la giocata in palleggio a discapito di qualche persa di troppo (Morant per primo), facendo loro però acquisire sicurezze e serenità nei propri mezzi.

Clamorosa infatti è la striscia di 11 W appena terminata, che avvicina il club all’olimpo NBA e riporta ai fasti di Conley/Gasol/Randolph del 2014-15 e il 10/1 iniziale, con la sostanziale differenza che all’epoca c’erano dei rivali insormontabili che non avrebbero mai permesso di raggiungere la soglia dell’eccellenza. Oggi invece gli scalpi d’elite sono innumerevoli e ogni scontro diretto vinto è arrivato col lineup incompleto perché mozzato dagli infortuni.

I Grizzlies perciò e come da noi preventivato al termine della serie playoff persa lo scorso anno coi Jazz, non temono nessuno e possono vincere con chiunque, adesso e soprattutto in futuro.

Parlavamo di assenze, e forse è proprio questa la maggior preoccupazione per coach Jenkins, che oltre a rinunciare per 26 gare combinate ad importanti utility men quali Brandon Clarke e Ziarie Williams, non è mai riuscito praticamente sia in questo torneo che negli ultimi due anni a schierare in quintetto titolare, insieme a Desmond Bane e Steven Adams, il Big Three under 26 più forte del pianeta: Morant-Brooks-Jackson Jr.

Se il primo è il one man show della ditta, direttore atletico di gioco veloce, attaccante in uno contro uno e sfornatore di assist e scarichi da portatore in pick and roll, e Dillon il genio e sregolatezza – con qualche fallo tecnico di troppo – che inventa partendo dal perimetro, l’ultimo del terzetto dovrebbe essere la bomba ad orologeria, teoricamente in grado di competere fisicamente con l’MVP nonché suo mentore/clone greco.

Purtroppo però, a causa dei fastidiosi acciacchi del passato, notiamo proprio come Jackson Jr, oltre a difettare ancora in difesa sulla gestione falli, stenti invece a performare a ridosso del paint o in post, preferendo partire da troppo lontano “specializzandosi” in conclusioni dalla lunga tutt’altro che egregie (31.3%). Nessun problema, i 16 e passa punti che porta a casa servono eccome e arrivano grazie ai miglioramenti in lunetta e ad un gioco corale che lo libera in segnature facili dal campo.

Memphis è dunque finora un’orchestra meravigliosa e collettiva capace di sopperire persino alla mancanza di Morant per 12 partite (10-2 il parziale!), dove il Konchar di turno può diventare eroe di giornata, passando dall’essere il peggior rating difensivo al migliore durante questa striscia, e responsabile del dignitoso 108.3 generale, valevole per l’ottava piazza.

Corrono avanti e indietro i Grizzlies nei 99 e più possessi per 48 minuti e bypassano nel lato difensivo la stazza con un inarrivabile sesto senso per catturare rimbalzi (numeri 1 per quelli offensivi), rubate e stoppate, tre primizie nell’intero universo NBA, merito oltre che dei soliti noti anche dell’agile prestanza di Melton e Tillman!

Quel che rende gli Orsi inarrestabili è comunque un’offense al limite dell’ingestibile, terza di lega e ragione prevalente del net rtg a +4.3!

Memphis la possiamo definire uno small ball lineup sui generis, lontana difatti anni luce dalle peculiarità della baia di San Francisco, dato che da fuori si tira poco e male (33.4 volte per gara al 34%). In attacco si è bensì letali come pochi per il gioco in transizione, con 16.6 fast break pts per game e ben 21.6 possessi, dietro soltanto a Charlotte.

Quando si rallenta ci si affida invece al geniale playmaking di Morant in pick and roll, che da ball handler è secondo solamente a Doncic e Mitchell palla in mano, preferendo spesso sfruttare poi i tagli per muovere il pallone o scaricare in lob anziché andare in isolamento, non contando di un rollante di peso.

Dubbi sorgono sull’accordo per Adams, esperto mestierante ma avulso da un playbook pensato per i giovani. Con il suo contratto in scadenza fra un anno e quello al capolinea di Kyle Anderson si potrà cominciare a dare un’occhiata a veterani più utili al progetto nell’immediato, tipi alla Tucker o Crowder che come visto a Miami, Milwaukee e Phoenix fanno ancora la differenza in campo e nello spogliatoio.

A conferma della bontà manageriale di un’oasi felice non sorprende la breakout season di Desmond Bane, unico sempre presente ma soprattutto decisivo in ogni lato del parquet. L’ultima pick del primo round 2020 è il quarto miglior marcatore della sua classe, sensazionale a tabellino come il tris d’assi prima menzionato e sfavillante nella efg% a .572. E’ inoltre divenuto il sesto della storia a raggiungere 200+ segnature da tre al 40% negli iniziali 100 match di carriera.

Sistemati alcuni piccoli difetti di gioventù, Memphis potrebbe spiccare il volo definitivo e dominare il prossimo decennio: dopo Predators e Titans, lo stato del country & folk può continuare a sognare anche sulle note dei Grizzlies: buon ascolto!

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.