Se qualcuno dovesse approcciarsi solamente adesso al mondo NBA penserebbe che i Boston Celtics siano una squadra qualunque, vista la loro posizione in classifica e le loro performance inconsistenti.
Dovremmo quindi stare qui a spiegare loro cosa ha rappresentato e cosa rappresenti tuttora questa franchigia nella storia del basket nordamericano. Non basterebbe parlare dei 17 titoli in 75 anni di storia, non basterebbe soltanto citare grandi giocatori come Bill Russell, Bob Cousy, Larry Bird, Paul Pierce e chi più ne ha più ne metta, per realizzare l’importanza dei biancoverdi nelle dinamiche della più importante lega di pallacanestro al mondo.
Quindi l’argomento che andremo a trattare risulterà di più complessa comprensione per chi non è molto avvezzo, ma si rivelerà certamente più chiaro a chi, invece, bazzica per le strade della NBA da molto più tempo.
Partiamo, perciò, con una domanda abbastanza semplice: cosa sta succedendo ai Celtics? Perché non riescono più ad essere la franchigia vincente che erano fino a qualche decennio fa? E come mai l’ultimo titolo conquistato risale solamente al 2008 e l’ultima finale giocata al 2010?
Cerchiamo di restringere il campo al tempo presente, a ciò che sta avvenendo ora. E per semplificarlo ancora di più, dividiamo il tutto in punti cruciali che riassumono, senza molti fronzoli, quello che manca alla franchigia più titolata d’America.
1. MANCANZA DI LEADERSHIP
Abbiamo citato Paul Pierce, ma potremmo anche chiamare in causa Kevin Garnett. Infatti, da quando questi due sono partiti per altri lidi (esattamente Brooklyn, nel 2013), la squadra ha perso anima, cuore e cervello.
Non ci è riuscito Kyrie Irving che non ha per niente incarnato lo spirito Celtics, fatto di sacrificio e sudore della fronte. Tanto che l’ex general manager Danny Ainge ha preferito non rinnovargli il contratto, lasciandolo partire, guardate caso, verso Brooklyn. Perciò, decisi a ricominciare da ciò che avevano, Ainge e l’allora coach Brad Stevens (ora GM) hanno dato le chiavi della squadra in mano a Jaylen Brown e Jayson Tatum.
I due erano stati incapaci di dare l’apporto necessario per poter vincere subito quando in squadra c’erano, appunto, Irving oltre che Gordon Hayward e Al Horford, perciò era giunto il momento di vedere come se la sarebbero cavata da soli.
A livello di prestazioni individuali il talento è innegabile, anche se Tatum ha leggermente peggiorato cifre e percentuali rispetto alla scorsa stagione, a parte nei rimbalzi dove sta tenendo il suo massimo in carriera (8.6 a partita). Anche Brown non sta rendendo come nel 2020-21 e questo la dice lunga sul regresso dei Celtics, ma quello che manca ancora di più è la leadership, la mancanza di un vero condottiero che non si preoccupi solo delle statistiche o di prendersi più tiri rispetto agli altri.
Basterebbe guardare il loro linguaggio del corpo quando le cose vanno male durante la partita. Sembrano frustrati, incapaci di reagire. Non c’è nessuno che alza la voce, nessuno che prende l’iniziativa per raddrizzare le sorti e lo fa veramente.
Una questione spinosa che il nuovo coach Ime Udoka non è riuscito assolutamente a sistemare, anzi ha creato ancora più confusione. Vuoi ripartire dai giovani? Ok, ma devi avere leader in campo, veterani che prendano per mano (e per le orecchie) questi ragazzi e li rimettano in carreggiata. E se non sono i veterani, ci deve pensare il coach.
Ora, non sappiamo cosa accada negli spogliatoi, né negli allenamenti, ma Udoka non sembra essere l’uomo giusto nel posto giusto, anzi, tutto il contrario. Non è perché hai lavorato anni con Gregg Popovich che diventi Gregg Popovich. A questa squadra serviva disciplina, non un players’ coach non in grado di dire “Ok, ora mi ascoltate!”.
E tra i due capitani litiganti, ci dovrebbe essere il terzo che gode, ma in realtà si sentono solo i grilli. Horford è tornato, ma non sembra più avere quella verve che aveva qualche anno fa. Rimane un ottimo giocatore, un buon consigliere per i più giovani, ma nulla più. E Smart? Smart è anima e cuore, a volte, di questo team, ma gli manca la testa.
2. MANCANZA DI IDENTITÀ
È un po’ un difetto della NBA odierna avere squadre senza un identità propria e precisa. È tutto più uno scopiazzare ed incollare. Abbiamo parlato dei Cavaliers di quest’anno che, invece, sembrano stiano cercando di invertire tale tendenza.
I Celtics ci hanno provato con Irving, Hayward e Horford, ma ogni intenzione di successo immediato è finita male. E ora? E ora sembra una squadra svuotata, priva, per l’appunto, di identità. Boston negli ultimi anni ha potuto vantare, quantomeno, una difesa solida, tenace, arcigna. Insomma, era difficile affrontare i Celtics, anche nella loro serata peggiore.
La difesa, ora, manca di consistenza, di continuità e a volte risulta poco tenace. Ed è proprio questo aspetto del gioco che sta palesando tutte le difficoltà dei Celtics quest’anno. E con un attacco che gira spesso poco o male, ecco che se ti manca la difesa vai in tilt.
Ok, Bickerstaff ci ha messo una stagione prima di inculcare la sua filosofia nella testa dei suoi giocatori e ora Cleveland ne sta raccogliendo i frutti, anche grazie ad alcuni arrivi eccellenti. Magari Udoka avrà bisogno dello stesso tempo, anche perché lui non faceva parte di questa organizzazione prima d’ora e deve sicuramente ancora ambientarsi, ma appunto per questo ribadisco che non doveva essere lui l’uomo giusto per questi Celtics.
Udoka è un allenatore senza esperienza da head coach e poteva andare bene in caso di ricostruzione, ma non in una franchigia che vorrebbe tornare a puntare in alto sin da subito, a meno che le intenzioni di Stevens non siano già altre nella sua prima stagione a capo del front office bostoniano.
Fatto sta che ai biancoverdi manca una precisa identità di gioco, troppo incentrata sulle giocate dei singoli, senza curare l’aspetto più corale che gli anni trascorsi in quel di San Antonio avrebbero dovuto insegnare al quarantaquattrenne coach.
3. MANCANZA DI MENTALITÀ VINCENTE
E siamo arrivati all’ultimo punto, quello più importante. Quello che ti permette di fare il salto di qualità definitivo. L’aspetto psicologico che nello sport, come in qualsiasi cosa della vita, è fondamentale.
Boston avrebbe meritato di vincere molte più partite quest’anno, ma le defaillance, specialmente nell’ultimo quarto, hanno reso tutto impossibile. Nel baseball esiste il ruolo del closer che permette di, appunto, chiudere le partite nell’ultimo cruciale inning. Ai Celtics manca questa figura trasportata al basket.
Manca un uomo, o anche due, che si incarichino di portare alla vittoria la squadra e questo è dovuto alla mancanza di leadeship, alla mancanza di un identità e a quella di una mentalità vincente. Risultato? Confusione mentale e sconfitta.
Per riassumere, è un po’ ciò che è successo nella partita di Natale contro i Bucks. Gara dominata per tre quarti e mezzo, per poi crollare completamente dal punto di vista emotivo non appena i campioni in carica si sono riavvicinati pericolosamente. Sapete quando gli psicoterapeuti dicono che il vero nemico di noi stessi siamo proprio noi stessi? Ecco, i Celtics sono il nemico di loro stessi.
La cosiddetta paura di vincere, mischiata all’incapacità di uscire fuori dai momenti di difficoltà da vera squadra, portano ad un inevitabile risultato.
Gennaio sarà sicuramente un mese decisivo, ma non è con qualche mossa di mercato che si risolvono le cose. C’è proprio bisogno di un cambiamento di rotta, di formattare tutto, di ritrovare l’identità vincente che ha sempre contraddistinto questa storica franchigia.
Personal trainer e grande appassionato di sport americani. Talmente tanto che ho deciso di scrivere a riguardo.
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10 anni nel WC e non sono ancora finiti
Mi pare un’analisi molto lucida e condividibile.
Purtroppo l’accumulare scelte al draft non porta automaticamente alla costruzione di una squadra forte come Phila ha ampiamente dimostrato. Certo si passa da lì, ma ci vogliono altri fattori: trovare un vero campione(io pensavo – ma lo penso anche adesso in parte – che Tatum lo fosse), aggiungerci talento e i giocatori giusti che non arrivano col draft, lo staff tecnico che funziona, ecc.Boston pareva andare nella direzione giusta, ma il processo si è bloccato e la squadra non è maturata, il problema è che adesso i Celtics si trovano al guado: buttare tutto a mare e riniziare oppure tenere il nucleo del gruppo attuale e continuare? Scelta complicata perchè Boston a differenza di altre non può stare troppo a galleggiare nella mediocrità come sta facendo adesso.
Negli scorsi 2-3 anni sotto la guida di Stevens è mancato solo un reparto lunghi adeguato per vincere l’anello. Il resto c’era tutto e i risultati in fondo lo dimostrano. C’era attacco, difesa e mentalità vincente, ma difettava la qualità e la quantità sotto le plance. Adesso la squadra proprio non gira e il coach non è quello giusto, nè per carisma, nè per lucidità a mio parere. Di sicuro qualcosa si è rotto nello spogliatoio. Forse manca anche solo l’entusiasmo degli anni passati oppure si è consci di essere arrivati in passato ad un mm dall’essere davvero prossimi a vincere l’anello. E adesso c’è stanchezza dello status quo. Adesso vedo proprio tutto da rifare. Tengo Tatum tutta la vita e riparto a costruire intorno a lui. La vedo come unica strada per tornare ai piani altri NBA in 2-3 anni.
A parte che l’NBA di adesso è di una mediocrità sconcertante, il problema è rimasto proprio quello del reparto lunghi deficitario. Serve un altro cagnaccio tipo Smart (il vero MVP della squadra) perchè sono i giocatori come lui o Butler a dare carburante quando mancano vere superstar.
L’allenatore, come Stevens ha dimostrato ampiamente e sta dimostrando adesso Kidd, conta pochissimo se i giocatori sono forti e ben assortiti (Dinwiddie è stato lo scippo del decennio al mercato).