Gli Dei del Basket hanno già reso pubblico il loro primo verdetto della stagione: a contendersi un posto nell’Olimpo della NBA ci saranno i Phoenix Suns. Decisiva la vittoria, nelle Western Conference Finals contro degli eroici Clippers per 4-2.
Ora, non credo sia il caso di addentrarsi troppo in numerini, statistiche perché questo è il momento in cui una delle due prescelte ha messo piede all’uscio delle Finali. In questo caso, però, la prescelta possiamo definirla, senza esitare, sui generis.
I Suns hanno iniziato la stagione con un sonoro 1:4000 di probabilità di vincere il titolo, e con un over-under di 38.5 vittorie. Il risultato sono, appunto, le Finals e un record nella stagione regolare di 51-21. Una stagione che possiamo letteralmente definire ben sopra le aspettative.
Ma anche solo guardando i giocatori che compongono la vertebra della squadra di Monty Williams ci si può facilmente accorgere di come tutto questo non sia nient’altro che un risultato che tutti si sarebbero dovuti aspettare, ma che nessuno ha avuto il coraggio, fino alla scorsa notte, di vedere.
Partiamo dalla stella indiscussa, Chris Paul. 16 anni nella Lega, posto nella Hall Of Fame praticamente assicurato pur mancandogli quell’anello al dito che tanto meriterebbe.
Negli ultimi anni, dopo la avventura novennale a Los Angeles, sponda ironicamente Clippers, è stato bistrattato, usato come semplice pedina di scambio da scaricare a squadre che potevano permettersi il suo contratto. Un giocatore che troppo spesso, e senza basi solide che lo provassero, è stato dato per finito.
L’anno scorso ha preso degli OKC Thunder malmessi e li ha portati, contro ogni pronostico, ai Playoff. Poi ha preso, ha salutato in quanto parte pregiata di un ennesimo pacchetto di scelte ricevute dal solito vampiro Sam Presti, ed ha accolto la sfida che gli è stata offerta in Arizona.
E, come ogni singola volta nella sua carriera, ha preso una franchigia allo sbando, e l’ha rimessa al posto con la sua professionalità, con la sua leadership, con la sua conoscenza immensa del gioco e con quelle pennellate di basket così perfette da poter essere dipinte solo da talenti più che generazionali, da giocatori come CP3.
Negli ultimi 5 anni i Suns avevano avuto una percentuale di vittorie del 30% e mai avevano raggiunto i playoff.
Arriva Chris Paul, sono 51-21 e NBA Finals, con una gara-6 contro i Clippers da 41 punti, 8 assist e 0 palle perse dopo aver avuto a che fare con il Covid e le fatiche post-convalescenza durante tutto il resto della serie. Alla faccia del giocatore finito…
Poi il suo gregario, Devin Booker, la vera ragione per cui Paul ha deciso di imbarcarsi nella avventura in quel di Phoenix.
Ecco, ho appena commesso l’errore che troppo spesso e troppe persone ancora compiono, cioè chiamare Booker un gregario, perché dopo la tripla doppia da 40 punti in gara 1 delle Finali di Conference credo sia abbastanza lampante che questo ragazzo sia una semplice super-star.
Eppure, ESPN lo mette come prospetto dietro a Fox, Simmons, addirittura LaMelo Ball. Booker credo sia l’esempio di quante giovani stelle (si guardi anche Trae Young prima di questi Playoff) siano semplicemente trascurati per motivi non molto precisati.
Il prodotto di Kentucky è reduce da una corsa nella post-season da 27 punti, 6.4 rimbalzi e 5 assist di media. Numeri spaventosi che denotano una continuità non comune per un giocatore che ha solamente 24 anni.
Se invece si pensasse a Mikal Bridges e DeAndre Ayton, subito ci sarebbe metà America ad indignarsi per il fatto che i Suns abbiano addirittura fatto una operazione di trade-up per il primo e abbiano soprattutto scelto il secondo con la prima scelta assoluta nel Draft di Trae Young e Luka Doncic.
Pochi anni dopo, sono parti cruciali di una squadra che ha i piedi nelle Finali della NBA, e Ayton ha appena concluso una serie assolutamente dominata in lungo e in largo e che credo abbia definitivamente consacrato la sua esplosione a giocatore decisivo per la franchigia del deserto, viaggiando alla media straordinaria di 18 punti, 14 rimbalzi, 1 assist e quasi 2 stoppate a partita.
Bridges, dalla sua, ha faticato decisamente più del compagno di squadra nelle fasi finali della stagione, ma è stato chiave nel percorso della stagione regolare e ha un impatto molto positivo nella metà campo difensiva.
L’ultimo giocatore, quello che chiude il quintetto, è Jae Crowder. criticato per la sua scelta di andare via da Miami per prendere un triennale da 30 milioni a Phoenix, ha risposto dimostrando che è capace di essere un punto fermo di una squadra da titolo.
Lo era stato l’anno scorso a Miami da protagonista insieme a Butler, lo è stato quest’anno in una posizione sicuramente più defilata ma non meno importante (non dimentichiamoci che il compito di marcare LeBron era suo).
Si potrebbe poi parlare di Cameron Payne, che l’anno scorso non aveva neanche un contratto nella NBA e giocava, poco, in Cina. O ancora di Torrey Craig, che è stato venduto alla trade deadline per 100.000 dollari dai Milwaukee Bucks alla squadra dell’Arizona.
Per non parlare di coach Williams, che ha preso due anni fa una squadra disastrata, l’ha portata in un crescendo continuo di prestazioni ad un 8-0 nella bolla di Orlando e poi al successo di quest’anno.
Non c’è niente da dire a questi Suns se non che sembra tutto una favola, ma lo è ancora di più perché sono riusciti a smentire l’antico detto “è troppo bello per essere vero”, perché loro nelle Finali di NBA ci sono già, e sono anzi a 4 vittorie da un insperato anello.
In casa Clippers non mi sento di rimproverare niente a nessuno (se non al solito Patrick Beverley). Credo che per la sponda rossa-blu di Los Angeles questi siano stati playoff tutt’altro che fallimentari, perché hanno permesso di trovare una identità di squadra guerriera che sinceramente non si vedeva da tempo, hanno permesso ai giocatori di stringersi ancora di più al loro allenatore Ty Lue e trovare energie che non avrebbero potuto umanamente avere.
Due serie ribaltate da sotto 2-0, di cui una contro gli Utah Jazz (miglior record NBA), delle Finali di Conference perse 4-2 senza aver avuto neanche per un minuto la loro stella indiscussa Kawhi Leonard. Non si sono mai arresi, e questo è ciò che si richiede ad una squadra di agonisti e sportivi.
Un applauso a Steve Ballmer, proprietario, che ha avuto il coraggio di investire il proprio futuro su Ty Lue e soprattutto ha dato un mega-contratto a Paul George nel momento in cui sembrava il giocatore peggiore della NBA. Il risultato è che quello stesso Pandemic P, tanto deriso dopo le difficoltà passate, contro i Suns ha registrato 28 punti, 10.5 rimbalzi, 5.5 assist e 1.2 rubate a partita.
Un applauso a Ty Lue, che è arrivato allo Staples Center con una spada di Damocle già sulla testa e con le bocche storte di una impietosa critica che lo dipingeva come allenatore di successo solo grazie a LeBron. Il risultato è stato che è merito suo se i Clippers sono arrivati fino a qui.
Non ha avuto paura di cambiare in corsa, stravolgere strategie, passare da quintetti lunghi a quintetti senza un 5 di ruolo, mettere la palla più pesante in mano a Terence Mann, del quale prima di quest’anno nessuno conosceva l’esistenza. ha avuto il coraggio, forse anche forzato dalle circostanze, di prendere Paul George da parte e dirgli semplicemente che tutto dipendeva da lui, risvegliando il PG13 che ai tempi dei Pacers poteva perdere solo contro Il Prescelto.
Tanti applausi, perché si è dimostrato uno degli allenatori più in gamba in assoluto, capace anche di gestire uno spogliatoio che tra Beverley, Cousins e Morris non si può certo definire tranquillo.
Un applauso anche ai giocatori, primo tra tutti PG (di cui già abbiamo detto abbastanza), ma soprattutto a Reggie Jackson e Nicolas Batum che hanno preso al volo questa opportunità e hanno trasformato la loro stagione, soprattutto il primo dei due, in un ottimo biglietto da visita.
Una nota dolente, però, anche in queste situazioni, ci deve essere. E quella nota dolente, in un modo o nell’altro, è sempre Patrick Beverley.
Non mi va di addentrarmi in descrizioni né grandi Catilinarie perché darei troppa visibilità ad una serie di gesti orrendi e pericolosi che uno sportivo, guardato da milioni di persone e bambini, non può minimamente sognarsi di fare.
La NBA, come normale, prenderà provvedimenti e lui, come sempre, si sentirà attaccato, si sentirà vittima e tornerà più cattivo e scorretto di prima. C’è solo da augurarsi che questo ormai più che decennale circolo vizioso finisca con una vittoria della Lega, che non fa solo le veci di Associazione sportiva ma anche di rappresentante di tutti coloro che amano uno sport e che su un parquet vogliono sentire il fruscio della retina, non sentire le grida e vedere il sangue delle persone colpite (intenzionalmente, e su questo non ci sono molti dubbi) da un personaggio che non ha ancora capito, a trent’anni e passa, cosa sia lo sport.
Tirando le somme, credo che i Suns siano nel palcoscenico che si meritano. E, per una chiosa commuovente, si potrebbe davvero pensare che tutto questo fa parte di un qualche disegno comandato da un qualcosa più grande del basket, più grande di qualunque palazzetto dello sport.
Chris Paul, anche se per un solo anno, già aveva giocato al servizio di Monty Williams, nel lontano 2010 con la canotta degli allora New Orleans Hornets. In un solo anno si era formato un legame umano, di amicizia, più forte di qualunque altro.
Nel 2016, poi, seppur lontani l’uno dall’altro perché in un business come la NBA le strade è naturale si separino, Paul fu il più vicino a coach Williams quando venne a mancare sua moglie. L’allenatore stesso ha confessato apertamente come se non fosse stato per CP3, lui probabilmente non avrebbe mai avuto la forza di tornare a lottare, a tornare sul suo parquet.
Ed ecco che allora il cerchio si chiude: Monty non ha mai smesso di lottare, Paul non ha mai smesso di voler dimostrare come tutti si sbagliassero sul suo conto, e ora si trovano entrambi con lo sguardo fisso su quel Larry O’Brien Championship Trophy che solo un crudelissimo scherzo del destino potrebbe togliere loro sul più bello.
23 anni, folgorato fin da bambino dal mondo americano dei giganti NBA e dei mostri NFL, tifoso scatenato dei Miami Heat e – vien male a dirlo – dei Cincinnati Bengals. Molto desideroso di assomigliare a un Giannis, basterebbe anche un Herro, ma condannato da madre natura ad essere un Muggsy Bogues, per di più scarso.