Utah conferma i pronostici e si impone 4-1 nella serie con Memphis, progredendo partita dopo partita fino a ritrovare la spaventosa forma che le ha permesso di dominare la stagione regolare.

Mai primo turno playoff è stato tanto sottovalutato come questo, visto lo scarso appeal del seeding numero 1 più underrated di sempre e dell’ottavo sopravvissuto ai meandri di un doppio play-in e spesso a galleggiare borderline fra l’elite dell’ovest e le cenerentole a caccia di gloria.

Errore grave, dato che i Jazz non solo hanno dimostrato sul campo di essere la miglior squadra NBA da regular season, ma anche l’unica a non steccare mai i propri game plan in entrambe le fasi, e ad unire l’organizzazione schematica e quasi ortodossa dei diktat di coach Snyder all’anarchia nichilista di giocolieri poliedrici quali Jordan Clarkson, Donovan Mitchell e Mike Conley.

Da qui una spaventosa costanza di risultati, iniziata da una doppia striscia di vittorie a inizio gennaio e febbraio e conclusa in primavera, sopravvivendo pure al pericoloso infortunio dello strepitoso leader con la casacca numero 45.

E’ lui, Mitchell, l’MVP della casata, giovane condottiero coadiuvato da secondary scorer del calibro di Bogdanovic, Gobert e Ingles, giunti alla maturità e completi per supportarlo fino alle vette estreme, aggiungendo poi in corsa persino l’inaspettato Georges Niang  componendo con O’Neale un’ottima combo 3 & D alternata. Gli stessi Clarkson ed Ingles hanno addirittura chiuso uno davanti all’altro la classifica di miglior sesto uomo della lega, primato mai raggiunto da nessuna squadra finora.

Simile, sebbene le primavere siano solo 21, il discorso su Ja Morant, vero crack 2019, dietro Zion in quello storico Draft (?) ma una spanna superiore per carattere, leadership e clutchness, manifesto di un team sì più giovane fra tutte le protagoniste dei playoff ma indottrinato eccome nelle incombenze difensive di Taylor Jenkins, enfant prodige della panca, in competizione anch’egli col collega rivale per l’ennesima sfida fra sminuiti e ignorati dal mainstream NBA, ma sensazionale nel ricostruire immediatamente l’epoca post Conley/Gasol, e generare un core compiuto in ogni reparto e pronto a dettare legge nel decennio, grazie fra l’altro ad un sensazionale Big Three futuristico completato dal recuperato e centellinato Jaren Jackson e Dillon Brooks.

Se Bane e Melton bombardano senza pietà la retina da fuori, Allen contribuisce in dinamismo, mentre la palma di chioccia (benchè under 29) iper qualitativa ed intelligente va al tandem Valanciunas-Kyle Anderson, ambedue scartati da vecchi progetti ma oggi alla consacrazione definitiva, sfruttando per di più i capi saldi difensivi assimilati nell’Alamo e in Ontario. Chiedere conferme a Spurs e soprattutto Warriors, sostanzialmente controllate in ogni quarto di gioco, nonostante le odds di sopraffini analisti star & stripes prevedessero il contrario.

Intriganti poi i molteplici matchup fra due team simili nell’elettricità ed intensità a proteggere la propria metà campo ma differenti in attacco, con Utah prima sia nelle percentuali dall’arco che nei tentativi, e i Grizzlies altresì 24° e 23°, loro però al vertice coi 55.8 punti nel pitturato a fronte dei 44.2 (24°) dei rivali.

Gara 1 parte subito con l’upset, fra l’altro nemmeno troppo imprevisto, visto che nello starting lineup dei Jazz non si legge il nome di Mitchell, tenuto a sorpresa a riposo malgrado le rassicuranti parole della vigilia. La partita è terminata con un bugiardo 109-112 per gli ospiti da Tennessee, dato che il vantaggio costante – 77/94 nel quarto periodo dopo un jumper di Tyus Jones – è stato messo in dubbio soltanto nel finale, quando Bojan Bogdanovic ha realizzato 20 dei suoi 29 punti totali, lui scorer principe dei suoi dinanzi Conley (22 più 11 assist e 6 rimbalzi), Gobert (11 e 15 ma out per falli a 4:25 dal termine) e Derrick Favors (12 e 11 col season-high di 4 stoppate).

E’ stata proprio l’assenza di ritmo dal perimetro la causa primaria del fallimento di giornata, con un 12 su 47 deprimente nel quale risalta lo 0/8 di Clarkson, unitamente a troppi turnover, pochi possessi rispetto agli avversari (FG 45/100 contro 34/81) e alla spaziale performance di Dillon Brooks, incontrastabile nei 31 pts e 7 rimbalzi che lo hanno innalzato leader di franchigia al debutto playoff, sopravanzando il Marc Gasol del 2011. Morant, Anderson – per lui anche 6 recuperate, record di carriera – e Valanciunas (12 rimbalzi) si sono confermati coi 55 combinati.

La seconda sfida, vinta da Utah, verrà ricordata per il rientro in pompa magna di Mitchell e per la serata speciale di Ja Morant, distruttore di record su record, grazie al quale una rimonta che pareva impossibile da parte di Memphis – sotto pure di 22 ma poi vicini al sorpasso con Melton sul 91-93 nel terzo periodo – visto il ritmo e la precisione superiore dei Jazz dall’inizio alla fine, per poco non andava in porto!

I numeri che giustificano il 141-129 per i locali vanno ricercati nel dominio dall’arco, con uno stratosferico 19/39 al 48.7% e motivo di uno score da all star game piuttosto che gara della vita, e di un meraviglioso ball movement responsabile di ben 28 assist! Il seppur discreto 35% dall’arco degli ospiti è passato perciò in secondo piano, anche perché i Jazz si sono difesi nel pitturato, di solito specialità rivale (62 a 58 Memphis), e dominando la lotta a rimbalzo (42-33).

Morant esce sconfitto ma come detto entra nella storia per i primati da posteason; è difatti ora il primo under 22 a siglare 47 punti in un match, leader di franchigia scavalcando Conley (40) per segnature totali e di gruppo per singolo quarto (43 nel terzo).

La sola presenza di Mitchell nel parquet, sebbene intorpidito all’inizio e limitato a 26 minuti ma infine ottimo a 25 pt, è bastata a generare brio fra compagni e tifosi sugli spalti, con Rudy Gobert (21 più 13 rimbalzi e 3 stoppate) e una panchina prodigiosa rispetto all’altra (43 a 13) a fare la differenza, dato che il lineup Grizzlies non ha sfigurato affatto, con l’ormai certezza Brooks – unico neo i soliti problemi di falli – a rifinire 23 punti, e dove il sesto uomo dell’anno Jordan Clarkson si è finalmente confermato tale, dopo l’epic fail di game 1!

La terza partita a Memphis vedrà Utah in cattedra e sicura ormai dei suoi mezzi, quelli che l’hanno spinta al vertice fin dalla prima striscia di gennaio, e costituiti da un’abilità tout court di ogni esponente sul parquet a girare palla, concludere da fuori o penetrare nella restricted area, forti poi dell’incontrastato regno di Gobert – 14 rimbalzi complessivi – in tali mattonelle colorate.

Anche in questo match, il 121-111 democratico di fine tabellone rende onore ai Grizzlies e al suo giovane MVP, che con 28 punti ha stravolto l’ennesimo primato della sua primordiale postseason: Morant è difatti adesso il quarto di sempre ad aver superato quota 100 nelle iniziali tre gare da playoff, raggiungendo Kareem coi Bucks nel ‘70, Mikan (Lakers, 1949) e il Wilt Chamberlain del 1960 (116 pt).

Sovente in doppia cifra di svantaggio, i ragazzi di Jenkins pure in gara 3 non si sono disuniti, guidati dall’assodata garanzia Dillon Brooks (27 pt), difendendo a dovere gli immarcabili avversari nei momenti chiave e arrivando on the hunt nel quarto finale, dopo un parziale a favore di 13/2. Il rientro di Mitchell però serve proprio a queste cose per coach Snyder, e la contro replica da 2/14 guidata dal leader numero 45 (10 dei 29 punti in questo periodo) provocherà la crepa conclusiva sponda Jazz!

Conley sarà decisivo col record di 7 triple a bersaglio, mentre la qualità e affidabilità di un roster fra i più profondi NBA si vedrà dai 45 punti combinati del terzetto Clarkson, Bogdanovic e Gobert.

Utah espugnerà Memphis anche nella successiva sfida numero 4, spartiacque che le aprirà le porte della qualificazione, grazie al 120-113 a marchio Donovan Mitchell, 30 punti la sua magica serata. Determinanti però, per far fronte agli ennesimi tentativi rivali di restare aggrappati alla contesa, le performance di Rudy Gobert nel terzo periodo da 13 dei 17 pt totali, e di Jordan Clarkson, perentorio con 24, mentre 25 sono stati quelli in combo per Bogdanovic e Conley.

Sotto tono, se così si può definire, il bottino di Morant, sceso dai 33.7 di media delle iniziali 3 partite ai 23 più 12 assist di oggi. Ai soliti ottimi titolari di Memphis Brooks, Valanciunas (21 il primo, 14 con 12 rimbalzi l’altro) e il sempre più recuperato Jaren Jackson (21), sopra i 20 dall’8 maggio coi Raptors e mesi di grane fisiche, si è aggiunto il magnifico Melton da 15 punti nel solo quarto frame, aiutando i suoi nel 12-2 di parziale per il 106-104, prima che Utah bypassasse il 3 su 16 al tiro col decisivo 11/12 in lunetta. I Grizzlies sono ora 4-11 all time per quel che riguarda una gara 4 di postseason.

Utah, ormai rodata e sicura di sé, lascerà le briciole ai giovani rivali nella quinta sfida, unica fra le 5 dominata in largo e in lungo dall’inizio alla fine: un 126-110 che non ammette scusanti, avvenuto tra l’altro quasi tutto senza i servigi di una pedina fondamentale quale Conley, fermatasi dopo 12 minuti per un risentimento alla coscia che lascia ora col fiato sospeso coach Snyder per il futuro prossimo.

Ball rotation, spaziature, intelligenza tecnica di ogni interprete e precisione dall’arco sono le armi che annienteranno Memphis in un primo quarto da 47 punti e 9 triple: a questi ritmi i Jazz tornano a fare paura e affronteranno da favoriti il one man team di Dallas o gli indecifrabili Clippers, tuttora indecisi se diventare grandi o meno. Mitchell da 30 punti e 10 assist, Gobert con 23, 15 rimbalzi e 3 stoppate, Clarkson (24) e Bogdanovic (17-8-4) sono i consueti commensali al banchetto, ai quali si aggrega il sempre utile O’Neale (17 pt, 6 reb e 2 recuperate).

Memphis esce sì di scena, ma col Dillon Brooks di questi playoff ha trovato un secondo violino d’elite da affiancare alla stella Morant, ambedue vicini al trentello pure stavolta (27); se Jaren Jackson poi ritrovasse una continuità fisica tale da riproporlo clone di Giannis, il vertice NBA non dovrebbe assolutamente discostarsi dal Tennessee nei tempi a venire, e scelte societarie azzeccate per annettere profili old style pronti a grandi palcoscenici permetterebbero addirittura sogni di gloria!

One thought on “Jazz avanti tutta, ma il futuro è a Memphis

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