Un anno e mezzo fa, il 13 giugno 2019, si scriveva un pezzo di storia della NBA: per la prima volta l’anello veniva assegnato fuori dai confini degli USA con la vittoria dei canadesi Toronto Raptors ai danni dei pluricampioni e dominatori della lega Golden State Warriors.
Un evento già di per sè memorabile, impreziosito e valorizzato ancora di più da una squadra in grado di conquistare il rispetto e l’amore degli appassionati della spicchia partendo senza i favori del pronostico, nè per il titolo assoluto nè per quello della Eastern Conference, ma che si è resa protagonista di una marcia inarrestabile con momenti entrati negli annali come il formidabile canestro dell’ex Spurs per la vittoria nella serie contro i Philadelphia 76ers del Process.
Diciotto mesi dopo, tutto è cambiato.
I Raptors hanno vinto due delle prime dieci gare prima della doppia vittoria contro una squadra in divenire come gli Hornets, che ha visto per la prima volta la squadra di Nick Nurse portare a casa due W di fila dopo quasi un mese di campionato. Attualmente il loro record è un 4-8 che non vale più del dodicesimo posto a Est a pari merito con i Chicago Bulls, e sulle dodici gare l’unica squadra peggiore dei Raptors sono i Detroit Pistons fanalino di coda della Eastern Conference con 3-9.
Certo, l’inizio della regular season raramente è esplicativo del reale valore di un roster, ma con la serrata e durissima competizione dell’Est di quest’anno una partenza a handicap può essere già una grana bella grossa per la lotta ai playoff, soprattutto per una squadra che l’anno scorso ha chiuso seconda nella Conference.
Il doppio successo contro Hayward, LaMelo e soci può essere un punto di partenza per la formazione canadese, ma i Raptors di oggi presentano sicuramente molti più interrogativi che certezze.
Eppure i leader designati del roster a disposizione di Nick Nurse hanno sostanzialmente fatto finora il loro dovere: Fred VanVleet prosegue la sua crescita personale rappresentando ad oggi il leader offensivo dei suoi con 20.1 punti di media, così come OG Anunoby, diventato ormai di assoluta affidabilità come complemento di Pascal Siakam, quest’ultimo già in tripla doppia contro Portland e con 17 punti, 12 assist e 9 rimbalzi nella vittoria contro i Kings. Kyle Lowry infine è sempre una PG tra i top nel ruolo in NBA e il metronomo del frontcourt canadese.
Dunque non è tanto dal punto di vista tecnico che si deve analizzare l’inizio deludente di Toronto, che peraltro mantiene un’identità di gioco definita, la stessa che l’aveva portata al titolo del 2019. Se però guardiamo al roster vincitore dell’anello ci accorgiamo che molte cose sono cambiate, non solo limitatamente alla perdita di Kawhi Leonard, approdato in maglia Clippers per ottenere un risultato non troppo diverso da quello dei Raptors alla fine della stagione 2019-20.
Nella offseason 2018 il presidente delle Basketball Operations Masai Ujiri, che ricopre questo ruolo dal 2016, è riuscito a coronare un paziente lavoro di ricostruzione dei Raptors post-Chris Bosh durato anni e portato a termine con una trade che mandava a San Antonio il leader designato dell’epoca, DeMar DeRozan, per ottenere Leonard e Danny Green.
Questa trade è stata un capolavoro di management per molti aspetti: Ujiri approfittò infatti del malumore di Kawhi alla corte di Gregg Popovich per portare in maglia Raptors quello che già all’epoca era un giocatore vincente e considerato (ad assoluta ragione) tra i top assoluti della NBA sacrificando un DeRozan scorer di razza, ma a conti fatti poco efficace per puntare davvero in alto (infatti DeRozan continua a mantenere medie punti stellari, ma in un contesto declinante come gli attuali San Antonio Spurs)
Ma non fu solo l’acquisto di Leonard a far schizzare alle stelle le quotazioni di Toronto fino ad arrivare all’obiettivo massimo. I Raptors aggiunsero infatti anche un Danny Green al suo top in carriera, che già a San Antonio nei playoff prendeva e metteva i tiri pesanti, dote comune a pochi giocatori anche tra i tiratori di prima scelta.
In più a febbraio arrivò l’uomo giusto anche nel backcourt; Ujiri decise di privarsi del suo centro titolare, Jonas Valanciunas, per arrivare a mettere sotto i tabelloni dell’Air Canada Center Marc Gasol, affiancandolo a un Serge Ibaka che lentamente dimostrava di non aver concluso la sua parabola con l’esperienza degli Oklahoma City Thunder. Il tutto fu affidato al nuovo head coach Nick Nurse, che sostituì Dwayne Casey dopo una gavetta di cinque anni da vice allenatore sulla scia di molti colleghi come Erik Spoelstra e Brett Brown.
Oggi tutti i nomi che abbiamo citato in precedenza sono finiti altrove: Gasol ha deciso di seguire le orme del fratello Marc ai Lakers evidentemente convinto di avere più possibilità per un altro anello con LeBron e Davis piuttosto che con Siakam e Lowry, Green si è accasato anche lui a LA sponda gialloviola lo scorso anno, Ibaka ha scelto invece i Clippers unendosi a Leonard.
Si tratta di perdite pesanti quanto quella dell’ex San Antonio Spurs, perchè in due anni è venuto meno un importante nucleo di uomini di esperienza che aveva contribuito anche alla crescita di coloro che oggi sono le stelle dei Raptors (Siakam su tutti) e questi elementi non sono stati sostituiti con giocatori altrettanto efficaci, come testimoniato ad esempio dalle difficoltà di Aron Baynes nel ruolo di 5 titolare (finora solo 4.3 punti e 4.9 rimbalzi per il 34enne australiano)
La crescita di Anunoby e Chris Boucher, seppur notevole (detto di Anunoby, sottolineiamo anche i 15.7 ppg per il nativo di Santa Lucia) non si è rivelata ancora sufficiente a colmare questo vuoto e così Toronto si trova ad arrancare nelle posizioni di coda, sperando che i due successi contro Charlotte rappresentino il vero punto di partenza della stagione dopo un mese di ritardo.
Probabilmente, anzi quasi sicuramente, Toronto non vale la sua classifica attuale e tra febbraio e marzo riprenderà la lotta alla postseason, ma ad oggi nulla fa pensare a un vero cambiamento di rotta in grado di rendere i Raptors una vera candidata a una deep run perchè a fronte di una squadra che gioca come nelle due passate stagioni, sono cambiati i risultati, ovviamente in negativo.
Per una franchigia che non rappresenta obiettivamente un big market confermarsi è difficilissimo, come abbiamo visto in passato con i Dallas Mavericks, che dopo il titolo del 2011 sono velocemente sprofondati nell’abisso della mediocrità da cui cercano di uscire in questi anni partendo dall’aver draftato Luka Doncic nel 2018.
Anche dopo l’anello, Toronto non ha rappresentato un’attrattiva per i top players e viene vista ancora come un punto di partenza piuttosto che di arrivo per i giocatori, rendendo difficile trattenere i pezzi pregiati e anche muoversi sul mercato dei free agents. Sicuramente è prematuro parlare di un ciclo già concluso, ma qualora i risultati di fine stagione si riveleranno deludenti bisognerà prenderne atto e lavorare a un’immediata ricostruzione; da questo punto di vista essenziale sarà la conferma di Masai Ujiri.
L’ex gm dei Nuggets è quest’anno all’ultima stagione a Toronto, da contratto e la franchigia sta proseguendo in questi mesi le trattative per il suo rinnovo. Il suo approdo in Canada nel 2013 ha trasformato una franchigia in cerca d’autore dopo la partenza di Bosh in una squadra da titolo; se quest’anno dirà che questi Raptors non sono più in grado di puntare in alto, potrebbe essere proprio Ujiri l’uomo della ripartenza. Sarà bene per Toronto che faccia il possibile per tenerselo stretto.
Sotto la copertura di un tranquillo (si fa per dire) insegnante di matematica si cela un pazzo fanatico di tutto ciò che gira intorno alla spicchia, NBA in testa. Supporter della nazionale di Taiwan prima di scoprire che il videogioco Street Hoop mentiva malamente, in seguito adepto della setta Mavericks Fan For Life.