TTP: Trust The Process. Questo è l’acronimo che si intravede proprio al centro della fantasia della nuovissima city edition. Espressione coniata nel lontano 2013 dall’allora GM dei Sixers Sam Hinkie, è sembrata per molto tempo una semplice giustificazione per un poco onorevole tanking e per folli scambi che hanno visto lasciare la Pennsylvania giocatori del calibro di Jimmy Butler, Jrue Holiday, Markelle Fultz e Nikola Vucevic in cambio di giocatori decisamente di livello inferiore.
Fino all’anno scorso vi era una totale confusione a livello societario e un coaching staff, guidato da Brett Brown, che non ha prodotto i risultati sperati. Anzi, in molte situazioni non ha fatto altro che spaccare lo spogliatoio e causare partenze di giocatori cruciali, come è successo due offseason fa con Redick e Butler. Ci sono state sicuramente note positive, Embiid e Simmons su tutti, ma la squadra pur con tanti talenti non sembrava riuscire a fare l’ultimo balzo e iscriversi definitivamente alla lista delle contenders.
Quest’anno, sempre tenendo alta la bandiera del Trust The Process, in Pennsylvania è stata attuata una decisa rivoluzione per cambiare la rotta di una squadra che sembrava destinata a far parlare di sé solo riguardo a occasioni e stelle gettate al vento.
C’era un evidente bisogno di cambiare filosofia, sia nel gioco sia nella dirigenza. Ecco allora pronti gli arrivi dei veterani e affermatissimi Doc Rivers come Head Coach e Daryl Morey come President of Basketball Operations. Il risultato è un notevole 8-4 iniziale, pur avendo una squadra falcidiata dal Covid-19.
Doc è un coach di lunghissima data con storie di successi tra Orlando e soprattutto Boston, un po’ meno a Los Angeles sponda Clippers dove invece ha faticato a trovare successo costante pur avendo favorito la crescita di giocatori come Blake Griffin, Tobias Harris e rivitalizzato Montrezl Harrell e Chris Paul.
Morey, dalla sua, è uno dei più celebri e discussi executives della NBA, la cui abilità di intavolare scambi può essere ricordata accennando la sua trade del 2012 attraverso cui acquisì James Harden da OKC per Kevin Martin, Jeremy Lamb e due prime scelte (una delle quali divenne Steven Adams).
Neanche il tempo di sedersi comodo nella sua poltrona, Morey è già attaccato alla cornetta. I risultati non si fanno attendere: Al Horford (34 anni e 28 milioni di stipendio annui) è scambiato insieme alla scelte 32 di quest’anno (Theo Maledon) e una prima scelta 2025 con OKC per Danny Green e Terrance Ferguson.
Subito dopo, fa le valigie direzione Dallas Josh Richardson, accompagnato da Mey (scelta 36 di questo draft). A fare il percorso inverso è Seth Curry (per chi amasse i pettegolezzi, genero del neo-allenatore Rivers).
Queste due mosse sono servite ad andare a coprire una grande falla nel gioco dei Sixers, dato che Simmons e Embiid non potevano certo dare garanzie sul tiro dalla lunga distanza. Inoltre, sono mosse sicuramente comandate direttamente da Doc in persona che ha sempre costruito le sue squadre su tiratori di livello, basti pensare al Ray Allen di Boston, o a Lou Williams e JJ Redick a Los Angeles.
In aggiunta a queste operazioni, sono acquisiti Tony Bradley e Howard dalla free agency, per dare profondità nel reparto dei lunghi. Dal draft invece arrivano Tyrese Maxey, guardia tiratrice, Isaiah Joe, guardia, e Paul Reed, ala grande.
Il gioco di Rivers rimane quello che ormai da tanti anni Doc fa dipingere alle sue squadre in tutti i parquet americani: non sovraccarica mai le sue star (30-32 minuti di media a partita), usa le numerosissime armi a sua disposizione sfruttando una panchina più profonda e di qualità, punta molto sui tiratori e, al contempo, a una forte fisicità nel pitturato. E sembra effettivamente che in Philadelphia, finalmente, la sua idea di basket abbia trovato legna da bruciare.
Partendo dalle star, è abbastanza ovvio che queste siano Embiid e Simmons. Il centro camerunense, dopo 9 partite giocate, sta registrando 26,1 punti e 12 rimbalzi a partita, dimostrandosi – se ancora ce ne fosse stato bisogno – uno dei migliori lunghi della lega in assoluto e un candidato MVP per quest’anno.
Per quanto riguarda Simmons lo scoreboard dice 13 punti, 9 rimbalzi e 7 assist a partita. Certo non numeri da capogiro, ma di un ottimo livello se si considera l’assenza totale del tiro dalla distanza nel repertorio dell’australiano (1/2 in nove partite). il giocatore che, però, ha beneficiato sicuramente di più dell’arrivo di Doc è Tobias Harris, che sembra star tornando quello che ormai anni fa avevamo ammirato con la canotta dei Clippers sotto la guida dello stesso Rivers. I numeri dell’ala all’inizio della stagione si aggirano attorno a 19 punti, 7 rimbalzi e 3 assist di media. Dire che sia stato preso Doc solo per lui fa sicuramente sorgere un sorriso, che però è condannato a svanire quando si pensa ai 180 milioni in cinque anni dovuti a Harris. Forse allora Doc è lì anche per quel motivo…
Dietro alle tre colonne della franchigia si nascondono forse i veri protagonisti del successo iniziale di Philly: i tiratori. La menzione d’onore va a Seth Curry, condannato, per sua enorme sfortuna, a vivere all’ombra del fratello nonché miglior tiratore della lega e forse di sempre.
Seth, prima dell’attuale pausa forzata a causa del Covid, stava giocando il miglior basket della sua carriera, aiutando la squadra con 17 punti a partita e il 60% da tre (miglior dato della lega). Insieme a Curry, si sta dimostrando consistente anche l’apporto di Shake Milton, che con 14 punti a partita sta riuscendo a confermare il crescendo del termine della scorsa stagione.
Solidi invece, soprattutto nelle partite macchiate da numerose assenze, sono stati gli apporti del veterano Mike Scott e del giovane Tony Bradley, pur avendo questo giocato pochi minuti come sostituto di Embiid. La sorpresa più grande, però, rimane il positivo impatto del rookie Tyrese Maxey, che ha stupito così tanto la dirigenza da far escludere completamente il suo nome da una possibile trade per Harden.
Il prodotto di Kentucky sta raccogliendo sempre più minuti, e ha già registrato una serata da 36 punti contro Denver – cavalcando le assenze di Simmons, Embiid e Curry.
Le note dolenti di questo inizio stagione sono invece gli apporti alquanto mediocri e altalenanti di Howard e Green, che evidentemente Doc sperava di far rifiorire inserendoli in un contesto che effettivamente mancava di leadership. Green, che si era costruito a San Antonio e Toronto la fama di tiratore micidiale, nella nuova stagione sta segnando con appena il 35% dall’arco.
Howard sembra essere in completa involuzione, tanto che pur giocando solo 15 minuti a partita concede di media 4 falli, di cui 2 offensivi. Carente è anche l’apporto di due giocatori come Thybulle e Korkmaz, motivato però dai nuovi arrivi che hanno permesso ai Sixers il definitivo salto di livello.
La partenza dei Sixers è stata quindi molto convincente (8-4), aiutata da una difesa che concede solo il 43% di field goal percentage (prima nella lega) e da un calendario abbastanza clemente che ha posto contro Philly avversari in piena ricostruzione o in piena crisi, come Washington, Knicks e Raptors.
Pregevoli, invece, le due vittorie in back-to-back con gli Hornets, entrambe vinte con ampio margine 127-111 e 118-101, e la vittoria contro la sorpresa Orlando. Un po’ in sordina, per quanto divertente, va presa la faticosa vittoria 137-134 contro gli Heat, che avevano a disposizione il minimo indispensabili di giocatori – 8.
Per quanto riguarda la parte negativa del record, a seguire una iniziale sconfitta con i Cavs, nell’ultima settimana a causa di molte defezioni per motivi legati al virus sono arrivate tre sconfitte contro Nets, Nuggets e Hawks, che però hanno permesso a giovani come Maxey di mettere in mostra tutte le loro capacità se premiati con le chiavi dell’attacco.
Doc ha sicuramente tra le mani tanto talento e tanta sostanza, sia che venga da veterani sia che venga da rookies o giovani. Manca solo il passo più complesso: la conferma che, nonostante i superteams che ormai si stanno costituendo, Philadephia c’è e punta in alto. La strada sembra quella giusta.
23 anni, folgorato fin da bambino dal mondo americano dei giganti NBA e dei mostri NFL, tifoso scatenato dei Miami Heat e – vien male a dirlo – dei Cincinnati Bengals. Molto desideroso di assomigliare a un Giannis, basterebbe anche un Herro, ma condannato da madre natura ad essere un Muggsy Bogues, per di più scarso.