Per la Northwest Division la scorsa annata è stata ricca di successi: Denver ha rispettato le attese vincendo il raggruppamento e le ha addirittura superate raggiungendo la prima finale di Conference dell’ultima decade abbondante, affrontando un cammino assolutamente entusiasmante che ha sottolineato la mancanza di resa da parte della squadra, rientrata da un doppio svantaggio di 1-3 nei primi due turni. Il primo di questi ha messo in luce il grande scontro tra Jamal Murray e Donovan Mitchell, evidenziando nel contempo l’indubbia caratura post-stagionale della compagine guidata da Quinn Snyder, ancora una volta solida ma penalizzata dalla seconda uscita di scena consecutiva al primo round, una macchia che i Jazz intendono eliminare già a partire dall’imminente stagione.
Ha sorpreso, e non poco, una Oklahoma City che ha forzato la settima gara agli apparentemente molto più forti Rockets, evento seguito ad una qualificazione alla postseason del tutto inaspettata dopo che la franchigia aveva optato per il parziale disfacimento del vecchio organico, dando spazio ai giovani voltando pagina con lo scambio Westbrook-Paul, dando vita a quello che tutti ritenevano essere un anno di transizione e pazienza.
I Thunder hanno invece vinto lo stesso numero di partite di Houston e Utah, 44, dimostrando di non essere ancora pronti ad una ricostruzione totale che avrà invece luogo quest’anno, data la cessione degli ultimi veterani significativi del roster e l’assunzione di un nuovo e giovanissimo capo allenatore, incaricato di far fiorire tutto il l’acerbo talento accumulato tramite i numerosi affari dell’abile general manager Sam Presti.
Hanno deluso invece i Blazers per quanto riguarda la stagione regolare, nella quale è arrivato un record perdente che ha smorzato il naturale progresso di una franchigia alla quale pare sempre mancare l’ultimo pezzo-chiave prima di poter ambire a qualcosa di simile ad un titolo, perché il pur fortissimo backcourt e le irreali prestazioni di Damian Lillard spesso non sono state sufficienti per ridurre le distanze con le grandi. I playoff sono stati raggiunti per il rotto della cuffia, e la stagione ha vissuto un finale identico a quello di tre delle ultime quattro stagioni, ovvero il ritorno a casa al primo turno contro una squadra nettamente più forte.
Minnesota resta il fanalino di coda, il brutto anatroccolo rimasto fuori dai giochi per l’ennesima stagione consecutiva, presa da un nuovo assetto societario che ha visto importanti avvicendamenti sia nella posizione di head coach che di general manager. Lo scorso torneo è stato avaro nel fornire i primi frutti di questa nuove epoca, i Wolves hanno accumulato sconfitte in serie sia per mancanza di competitività che per la prolungata assenza della loro punta di diamante, Karl-Anthony Towns, ritrovandosi con la prima scelta assoluta per le mani ed una serie di giovani che dovranno dimostrare di appartenere al futuro della franchigia, sperando di riuscire prima o poi a indirizzare la nave verso il porto dei playoff, nel quale si è approdati una sola volta negli ultimi sedici anni.
DENVER NUGGETS
Starting five: Jamal Murray, Gary Harris, Michael Porter Jr., Paul Millsap, Nikola Jokic.
Rotazioni: Monte Morris, P.J. Dozier, Will Barton, JaMychal Green, Zeke Nnaji.
Coach: Michael Malone
Novità: R.J. Hampton (draft trade, pick n. 24), Facundo Campazzo (FA), JaMychal Green (FA), Zeke Nnaji (draft pick n. 22), Isaiah Hartenstein (FA).
Partenze: Torrey Craig (FA), Jerami Grant (FA), Troy Daniels (FA), Mason Plumlee (FA), Noah Vonleh (FA), Keita Bates-Diop (FA).
Punti di forza: lo stesso nucleo che ha trascinato la franchigia alle finali di Conference ritorna intatto, potendo contare sulla presenza a tempo pieno di Harris e Barton e sugli intriganti segnali di recupero fisico mostrati da Michael Porter Jr., che ha notevolmente alzato il livello del suo gioco una volta fatto ingresso nella bolla.
L’asse portante costituito da Jamal Murray e Nikola Jokic è più che sufficiente a fare dei Nuggets una squadra da playoff profondi, con il primo abile nell’estrarre ogni arma offensiva a disposizione giocando in maniera quasi eroica in postseason, ed il secondo capace di capire il gioco e dominarlo anche nell’apparente tepore della sua presenza fisica.
Porter è l’esemplificazione dell’acume dirigenziale di Denver, che ha rischiato scommettendo sulle sue condizioni fisiche conoscendone però il talento, vedendosi ripagare con un balzo dai 9.3 punti della regular season ai 22 con 8.6 rimbalzi registrati in quel di Orlando, accendendo la discussione sulla sua potenziale emersione quale terza star di squadra. Per un roster che ha indubbiamente perso consistenza difensiva, aggiungere un’ulteriore opzione offensiva di tale pericolosità senza dover scambiare risorse per ricercarla altrimenti sul mercato si è rivelato un affare a mani basse.
Punti di debolezza: la rinuncia a tenere Torrey Craig e Jerami Grant ha certamente evitato di intasare il cap con contratti troppo alti rispetto all’effettivo valore dei giocatori, ed ha tolto nel contempo due importanti risorse per la difesa. Il roster ha difatti perso due ali adeguatamente strutturate per marcare avversari fisicamente più tosti – basti pensare ad ipotetici nuovi incroci con James o Leonard – un compito che andrà ora svolto dal rientrante Will Barton, sempre volenteroso ma pur sempre leggero e atteso a dimostrare che le ginocchia non sono più un problema che ne hanno l’uscita di scena in occasione dello scorso marzo.
La squadra è costruita per vincere segnando di più dell’avversario, ma nonostante la lunga strada percorsa in postseason Denver ha subìto più punti di quanti ne abbia segnati in tutte e tre le serie giocate, trovandosi a dover recuperare due serie partendo dal 1-3. La posizione di power forward potrebbe inoltre costituire l’anello debole della catena, dato che l’appena rinnovato Paul Millsap ha mostrato evidenti segni di declino nei playoff.
Analisi: i Nuggets sono una compagine ben oliata, completa, che negli anni ha dimostrato di poter ottenere ottimi risultati valorizzando lo sviluppo interno dei suoi giovani, un trend completamente opposto rispetto all’assembramento di superstar che ha caratterizzato questi anni più recenti di Nba. Da due anni la franchigia si qualifica tra le migliori tre della sua Conference e sulla carta non c’è nulla che possa far presumere un peggioramento di tale risultato, un pensiero legittimo se si pensa alla possibilità di poter schierare un elemento unico come Jokic, un accumulatore seriale di triple doppie che facilita la circolazione di palla con soluzioni che gli altri non vedono, ed in secondo luogo se si proiettano i playoff giocati da Jamal Murray su un’intera stagione, con cifre nettamente differenti rispetto alla sua regular season ed un gioco che ne ha affermato le molteplici potenzialità offensive, oltre a mostrare un interessante ampliamento nella capacità di fornire assist.
La postseason ha confermato anche il carattere di questi Nuggets, mai propensi a sciogliersi dinanzi alle situazioni psicologicamente complesse nemmeno davanti alla pressione tipica dei playoff, seppure un minimo di credito possa essere dato da un ambiente di gioco che ha di fatto annullato il fattore campo per tutti. L’infuocato duello tra Murray e Donovan Mitchell ha catalizzato l’attenzione in occasione del primo turno, mentre l’upset confezionato ai danni dei Clippers è stato il risultato più eclatante della Western dal momento che chiunque aveva già previsto con largo anticipo una finale di Conference tutta californiana.
La questione gira attorno al riuscire a fare ritorno ad un turno che Denver non raggiungeva da undici stagioni e che diventa ora il risultato minimo da catturare per vivere quella sensazione naturale di progresso, un traguardo che sulla carta appare ancora raggiungibile a patto che ogni tassello si collochi nel luogo esatto. Questo significa rivedere Murray con il fuoco negli occhi, trovare Porter pronto ad accrescere ulteriormente quel potenziale immenso, e poter quindi attaccare in maniere differenti attraverso il pick’n’roll, i contropiedi e le entrate a canestro, oltre a poter fare affidamento alla precisione dei vari tiratori a disposizione del roster sopperendo alle probabili difficoltà offensive.
I Nuggets tornano in pista quali favoriti per la vittoria divisionale e possiedono tutte le carte in regola per terminare la stagione regolare presenziando nuovamente nelle primissime posizioni di Conference, dato che oltre a quanto già descritto poc’anzi c’è una panchina come di consueto costruita molto bene, che garantisce solidità alle seconde linee e versatilità negli schieramenti, senza far pesare troppo le assenze di chi ha deciso di intraprendere la strada della free agency. C’è difatti un settore guardie molto profondo grazie al rinnovo di Monte Morris e alla firma dell’energico Facundo Campazzo, che potrebbe ritagliarsi un ruolo grazie all’entusiasmo portato dalla prime uscite pre-stagionali, esiste inoltre la possibilità che Barton parta dalla panchina fornendo al roster un possibile sesto uomo di lusso, e JaMychal Green può coprire gli spot di ala grande e centro, avendo sia stazza che tiro.
Aspettiamoci dei Nuggets protagonisti della regular season per poi misurarli nuovamente nello stesso clima che li ha visti definitivamente emergere nel campionato scorso: raggiungere di nuovo la finale della Western sarà tutt’altro che impresa agevole, ma con la pioggia di canestri che attende ogni avversario che affronteranno dovrà prepararsi per ogni evenienza.
Record 2019/2020: 46-27
Previsione record 2020/2021: 48-24
MINNESOTA TIMBERWOLVES
Starting five: D’Angelo Russell, Malik Beasley, Anthony Edwards, Juancho Hernangomez, Karl-Anthony Towns.
Rotazioni: Ricky Rubio, Josh Okogie, Jarrett Culver, Rondae Hollis-Jefferson, Ed Davis.
Coach: Ryan Saunders
Novità: Ricky Rubio (Thunder), Ed Davis (Knicks), Rondae Hollis-Jefferson (FA), Anthony Edwards (draft pick n. 1), Jaden McDaniels (draft pick n. 28), Leandro Bolmaro (draft trade, pick n. 23).
Partenze: Jacob Evans (Knicks), Omari Spellman (Knicks), James Johnson (Thunder).
Punti di forza: Karl Anthony Towns è un’autentica forza offensiva, ed attorno a lui girerà tutto il sistema d’attacco: può dominare a rimbalzo, segnare da tre punti come nessun altro lungo in circolazione, far valere il suo gioco nel pitturato, risultare devastante in qualsiasi situazione di gioco. La possibilità di giocare un campionato intero con D’Angelo Russell può finalmente mostrare le potenzialità offensive dei due, con particolare riferimento a tutte quelle situazioni di pick’n’roll che potrebbero risultare assai complicate da difendere, formando un trio di scorer completato da Malik Beasley, rinnovato a cifre forse un po’ troppo alte ma elemento dinamico ed energetico, ideale per far esplodere i Wolves in transizione e fornire affidabilità da oltre l’arco.
Punti di debolezza: la difesa è uno dei più grandi punti interrogativi della squadra, che non ha un centro in grado di proteggere il canestro con efficacia e propone difensori perimetrali in quantità limitata, che vanno però a diminuire il ventaglio di soluzioni offensive.
Towns non ha una solida reputazione difensiva, un tratto distintivo che lo accomuna in maniera quasi sinistra a Russell, da questo punto di vista le principali risorse, e parliamo di giocatori ancora in via di maturazione, sono Okogie e Culver: il primo può difendere più posizioni, accettare i cambi, opporsi in situazione di post ed agire sul perimetro, mentre il secondo ha dato dimostrazioni incisive pur essendo solo al primo anno, come solo pochi altri giocatori sanno fare con così poca esperienza. Il problema? Bisogna poi digerire l’inaffidabilità di entrambi da oltre l’arco, dove non si arriva nemmeno al 30% di conclusioni a buon fine, limitando non poco le soluzioni offensive.
Analisi: quella che doveva rivelarsi una stagione di crescita si è presto trasformata nell’ennesima campagna deludente per una franchigia perennemente priva di speranza per un futuro migliore, capace di inanellare strisce di sconfitte consecutive giunte a quota 11 e 13. I Wolves sono partiti bene vincendo dieci delle prime diciotto partite prima di capitolare sotto il peso dell’inefficienza e degli infortuni, vincendo una sola delle ultime diciannove gare giocate da Towns. Senza più obiettivi da raggiungere la dirigenza ha saggiamente deciso di scaricare l’oneroso contratto di Andrew Wiggins, eternamente sopravvalutato e mai realmente esploso, acquisendo D’Angelo Russell, Juancho Hernangomez e Malik Beasley a stagione in corso, premiando gli ultimi due con contratti pluriennali.
Questo campionato metterà a disposizione per un tempo prolungato il nuovo asse offensivo della squadra, Towns e Russell sono giovani e futuribili e possono far raggiungere all’attacco delle vette molto interessanti dopo aver giocato assieme una sola partita della scorsa stagione. Resta molto da lavorare dal punto di vista del completamento degli altri ruoli, di certo il ritorno di Rubio porta un valore aggiunto dalla panchina a livello decisionale e di movimento ragionato del possesso, così come resta una lacuna tutta quella fase difensiva nella quale le due star della compagine sono ancora lontani anni-luce dal poter ambire ad una buona reputazione.
Sarà una stagione importante per capire lo sviluppo di Jarrett Culver, che ha vissuto un’annata da matricola mediocre nelle percentuali di tiro compilando un autentico disastro dalla linea dei liberi, è tuttavia difficile che la lottery pick del 2019 trovi posto in quintetto data la miglior attitudine difensiva di Josh Okogie e l’arrivo della prima scelta assoluta di quest’anno, Anthony Edwards, guardia dotata di ottimo fisico ma tutta da costruire a livello di tiro perimetrale e difesa. Nel migliore dei casi i Wolves possono tentare di restare a ridosso dell’ultimo posto disponibile per i playoff, potendo contare su un potenziale trio di giocatori in grado di stabilirsi sui 20 punti di media – a Towns e Russell va aggiunto Malik Beasley, a patto che mantenga la consistenza mostrata dopo il suo arrivo a Minneapolis e non venga troppo penalizzato dai guai occorsi in offseason – che dovrà fare gli straordinari per porre in secondo piano le evidenti lacune difensive.
Considerando il solo talento offensivo potrebbe anche bastare per ottenere quantomeno la qualificazione al mini- torneo dedicato al settimo ed ottavo posto, sarebbe difatti sufficiente passare entro le prime dieci posizioni, ma è credibile che sia semplicemente l’obiettivo massimo raggiungibile da una franchigia che ha molti nodi da sciogliere, ed una cultura vincente ancora tutta da costruire.
Record 2019/2020: 19-45
Previsione record 2020/2021: 30-42
OKLAHOMA CITY THUNDER
Starting five: George Hill, Shai Gilgeous-Alexander, Luguentz Dort, Darius Bazley, Al Horford.
Rotazioni: Théo Maledon, Hamidou Diallo, Admiral Schofield, Aleksej Pokusevski, Mike Muscala.
Coach: Mark Daigneault
Novità: Al Horford (76ers), George Hill (Bucks), Ty Jerome (Suns), Justin Jackson (Mavericks), Frank Jackson (FA), Admiral Schofield (Wizards), T.J. Leaf (Pacers), Darius Miller (Pelicans), Aleksej Pokusevski (draft pick n. 17), Théo Maldeon (draft pick n. 34).
Partenze: Chris Paul (Suns), Dennis Schroder (Lakers), Terrance Ferguson (76ers), Steven Adams (Pelicans), Danilo Gallinari (FA), Nerlens Noel (FA).
Punti di forza: l’occasione è ghiotta per sedersi comodamente ed osservare il talento di Shai Gilgeous-Alexander esplodere in maniera fragorosa. La giovane guardia ha raggiunto i 19 punti di media ed ha trascorso un’importantissima stagione sotto la preziosa leadership di Chris Paul, imparando molto trucchi del mestiere da uno dei massimi generali del parquet di questa generazione cestistica.
La squadra conta moltissimo sulla sua capacità di sobbarcarsi responsabilità con atteggiamento maturo, e non esiste una migliore opportunità di questa per dimostrare di essere effettivamente il miglior giocatore rimasto a disposizione dopo tutti i movimenti di mercato, meglio se aumentando ancora le già ottime cifre messe assieme l’anno passato.
Punti di debolezza: il nucleo di veterani che ha contribuito a portare la squadra ai playoff è stato completamente smantellato, mancherà la capacità gestionale dei possessi e la capacità risolutiva di Chris Paul così come la presenza in area dell’icona Steven Adams (466 partenze in quintetto), giocatori che saranno sostituiti da George Hill e Al Horford, soluzioni nulla più che transitorie per evidenti questioni anagrafiche e non certo destinate a migliorare le sorti di squadra rispetto al precedente assetto.
Nonostante qualche giovane abbia potuto accumulare interessanti dosi di minutaggio per fare esperienza anche da titolare – in particolare Darius Bazley – il roster resta molto inesperto e l’occhio è chiaramente più volto al futuro che non al presente, molti giocatori saranno difatti chiamati a battere una folta concorrenza interna dalla quale nasceranno i presupposti per plasmare le fondamenta dei prossimi anni. Oltre a Gilgeous-Alexander non ci sono difatti molti altri punti di riferimento se non la sorpresa Luguentz Dort, che ha scelto il palcoscenico dei playoff per mostrare tutte le sue capacità difensive e toccare vette significative come i 30 punti segnati ai Rockets in gara-7.
Analisi: prosegue senza sosta alcuna il progetto di rifondazione dei Thunder operato dal general manager Sam Presti, anche se il termine potrebbe non essere propriamente adatto per una franchigia giovane, acerba, che aveva appena ceduto superstar come Westbrook e George giocando poi inaspettatamente i playoff costringendo Houston a disputare sette gare prima di arrendersi. La presente offseason ha portato in città altre undici trade, atte a svecchiare ulteriormente un roster che oggi conta tredici giocatori dai 23 anni in giù e che ha salutato l’esperienza di Paul, Adams, Schroder e Gallinari per completare quel processo cominciato nel 2019, nonché all’ulteriore accumulo di munizioni da sparare nei prossimi draft attraverso le ulteriori nove selezioni acquisite, che portano il totale a disposizione dei prossimi sette draft a quota diciotto primi giri (!).
Non per questo l’obiettivo è quello di stabilirsi presso i bassifondi della Western Conference come si presumeva potesse accadere in coincidenza dello scorso campionato, quando il nucleo ristrutturato da Presti ha ottenuto addirittura 44 vittorie contro la più rosea delle previsioni, pertanto la crescita dei numerosi giovani che vivranno una stagione di audizione per dimostrare di appartenere al futuro della franchigia sarà adeguatamente pattugliata da veterani come George Hill e Al Horford, in ogni caso al tramonto delle loro esperienze Nba. Da questo punto di vista è necessario tuttavia comprendere il come l’aumento degli spazi a favore della gioventù potrebbe condurre ad un percorso più tortuoso rispetto a quello dello scorso torneo, se non altro perché il tempo trascorso in campo, per molti giocatori, servirà più ad imparare che non a far vincere da subito.
Il concetto appena espresso permette di leggere meglio la comune decisione di non continuare con Billy Donovan promuovendo al suo posto Mark Daigneault, ex-assistente a Florida e capo allenatore degli Oklahoma City Blue per cinque stagioni, che proprio in G League ha messo in luce delle comprovate capacità di sviluppare il talento grezzo e pertanto ritenuto idoneo per affrontare questa esperienza di crescita. Per quanto sorprendenti possano essere stati nel campionato scorso i Thunder hanno completato il loro processo di ristrutturazione rinunciando ad esperienza, punti, difesa e leadership a favore delle numerose nuove leve che scalpitano per giocare, rendendo difficile pronosticare un’altra presenza ai playoff.
Record 2019/2020: 44-28
Previsione record 2020/2021: 30-42
PORTLAND TRAILBLAZERS
Starting five: Damian Lillard, C.J. McCollum, Robert Covington, Derrick Jones Jr., Jusuf Nurkic.
Rotazioni: Anfernee Simmons, Rodney Hood, Carmelo Anthony, Zach Collins, Enes Kanter.
Coach: Terry Stotts
Novità: Robert Covington (Rockets), Derrick Jones Jr. (FA), Enes Kanter (Celtics), Harry Giles (FA), CJ Elleby (draft pick n. 46).
Partenze: Hassan Whiteside (FA), Caleb Swanigan (FA), Wenyen Gabriel (FA), Mario Hezonja (Grizzlies).
Punti di forza: le intere sorti della franchigia dell’Oregon sono sorrette dalle larghe spalle di Damian Lillard, l’indiscussa superstar dal talento offensivo illimitato, dimostrando che i Blazers possono arrivare solamente fino a dove li trascina lui a suon di canestri impossibili ed incontenibili eruzioni che lasciano le retine letteralmente in fiamme.
Dame ha scritto le pagine più importanti della scorsa stagione varcando in ben sei occasioni la soglia dei 50 punti, ivi comprese le tre escursioni sopra i 60, e la statistica maggiormente significativa nell’individuare la dipendenza tra le prestazioni del giocatore e le sorti di squadra è senza dubbio il bilancio di 8-3 in quelle occasioni in cui Lillard ha segnato almeno 40 punti.
Il numero zero ha nuovamente affermato il suo status alla ripresa del campionato fornendo 37.8 punti medi per ciascun match disputato nella bolla, risultando inevitabilmente decisivo per la tumultuosa rincorsa verso l’ultimo posto disponibile per i playoff, alla quale è conseguita però solo un’uscita di scena veloce contro i futuri campioni Nba in giallo-viola. I Blazers possono offrire il terzo miglior attacco di lega per efficienza grazie anche alla solidità del secondo violino del backcourt, C.J. McCollum, altro elemento più che affidabile quando si tratta di crearsi un tiro affidabile dal nulla e generare soluzioni offensive a profusione, reduce dalla seconda miglior regular season di carriera con 22.2 punti e 4.4 assist.
Salta sicuramente all’occhio il fatto che Portland abbia ottenuto tali traguardi pur dovendo attendere il recupero di Jusuf Nurkic dal grave infortunio patito più di un anno fa, fattore che aveva sottratto il terzo pilastro del roster ed un contributo offensivo costantemente in doppia cifra, ragione per la quale la concretezza offensiva generale non dovrebbe affrontare particolari problemi nel confermarsi al top della Nba. Da questo punto di vista si conta molto sul rientro di Rodney Hood e sul nuovo annuale firmato da Carmelo Anthony, importante risorsa proveniente dalla panchina a patto che accetti mentalmente il ruolo sempre più ristretto che potrà ricoprire nella stessa stagione che lo vede alla rincorsa di un posto nella top ten di tutti i tempi per punti segnati.
Le operazioni di offseason hanno aggiunto pericolosità al tiro da tre punti grazie all’arrivo di Robert Convington, che fornirà una necessaria presenza difensiva ad una fase del gioco che la squadra ha interpretato in maniera del tutto insufficiente, nella quale tornerà sicuramente utile la presenza nel pitturato fornita da Enes Kanter, al suo secondo viaggio di carriera in Oregon. Da seguire con interesse sarà la crescita di Gary Trent Jr., emerso quale affidabile terminale offensivo da oltre l’arco in possesso di ulteriori margini di miglioramento.
Punti di debolezza: l’efficienza difensiva se n’è andata a sud rispetto alla stagione 2018/2019, anche se molta della responsabilità può essere ricondotta agli infortuni che hanno tolto di scena alcuni degli elementi più incisivi del settore. I Blazers hanno già dimostrato nel recente passato di potersela cavare vivacchiando nel mezzo delle classifiche difensive di lega grazie all’eccellente resa della fase offensiva, ma la caduta dal sedicesimo al ventisettesimo posto ne ha alla fine determinato la caratura di squadra in grado di acciuffare il playoff solo con l’ultimo traghetto disponibile.
Portland non dispone di difensori di grande talento ma può tentare di tornare ai livelli di due stagioni fa, quando i principali protagonisti erano più o meno gli stessi di adesso. Da questo punto d’osservazione sono determinanti i rientri degli infortunati Nurkic, Hood e Collins, come pure le aggiunte di Kanter, che nella precedente esperienza oregoniana aveva giocato molto bene da ambo i lati del campo, di Covington, eccellente difensore in aiuto, e di Derrick Jones Jr., atleta particolarmente efficiente negli schieramenti a zona e candidato a prendersi un posto nel quintetto base.
La presenza di un frontcourt finalmente più folto non potrà in ogni caso mascherare le lacune difensive del settore guardie, nel quale non si possono certo chiedere ulteriori miracoli ad un Lillard che spende l’anima in attacco e ad un McCollum spesso battibile a causa dei mismatch fisici. Il ruolo di point guard non è molto profondo e ciò rappresenta un potenziale problema qualora dovesse equivalere ad altri straordinari in termini di minutaggio per Dame, il quale non va certo gestito ma quantomeno preservato. Anfernee Simons viene difatti da un’annata tutta in salita, nella quale non ha utilizzato al meglio gli spazi lasciati liberi dagli infortuni soffrendo parecchio in difesa e non riuscendo a mostrare del tutto le sue doti atletiche accontentandosi di prendere ciò che gli avversari lasciavano, sopprimendo le potenzialità di penetratore in grado di arrivare al ferro.
Analisi: le mosse di mercato effettuate dal general manager Neil Olshey vanno chiaramente interpretate leggendo la finestra di opportunità che si affaccia davanti alla franchigia nei prossimi due anni, tale periodo sarà difatti essenziale per comprendere se si possa essere o meno da corsa, dopo di che molti dei contratti-chiave andranno in scadenza e Lillard avrà 32 anni. L’obiettivo primario è il tornare ad essere quella squadra in grado di misurarsi contro chiunque in singola partita nei playoff potendo sfoggiare la superstar in grado di decidere la serie, a patto che il supporting cast resti in salute e svolga il proprio lavoro al massimo delle proprie possibilità.
I Blazers sono una squadra di nuovo completa ma limitata nei futuri movimenti di mercato vista la fetta di salary cap occupata dagli accordi del backcourt più forte di tutta la Nba. Il pensiero è che ai Blazers manchi quel tanto discusso terzo pezzo per assottigliare la differenza che li vede fluttuare nel limbo tra ottima squadra e seria contender al titolo, ma le considerazioni che emergono sono esattamente le stesse degli ultimi tre anni e diviene così difficile ipotizzare trade sostanziose senza includere McCollum quale contropartita, situazione che non andrebbe a migliorare così drasticamente le prospettive di squadra.
Le problematiche della scorsa stagione sembrano abbondantemente superate, ma la questione rimane: Portland resta una compagine composta da ottimi giocatori ma la vera superstar è pur sempre una sola. Resta da decidere se giudicarla come una realtà in grado di giungere solo fino ad un certo punto della strada che conduce al titolo e nulla più, rischiando di scommettere contro la totale rinuncia alla resa del loro fiero condottiero, che quando si tratta di tirare fuori tutto con le spalle al muro non è secondo a nessuno.
I miglioramenti difensivi ed il più ampio ventaglio di soluzioni nel ruolo di ala e centro giocheranno un ruolo determinante nel rendere i Blazers capaci di raggiungere comodamente la qualificazione ai playoff, per il resto le prospettive non sono differenti dal solito, la palla va inesorabilmente a Dame e si prega che ciò sia sufficiente per scontrarsi con le corazzate della Western Conference.
Record 2019/2020: 35-39
Previsione record 2020/2021: 42-30
UTAH JAZZ
Starting five: Mike Conley, Donovan Mitchell, Joe Ingles, Bojan Bogdanovic, Rudy Gobert.
Rotazioni: Jordan Clarkson, Shaquille Harrison, Royce O’Neale, Georges Niang, Derrick Favors.
Coach: Quin Snyder
Novità: Derrick Favors (FA), Udoka Azubuike (draft pick n. 27), Elijah Hughes (draft trade, pick n. 39).
Partenze: Tony Bradley (Pistons), Ed Davis (Knicks).
Punti di forza: Donovan Mitchell ha proseguito la sua costante crescita ed è diventato un All-Star, giocando un basket di livello stellare nell’ultima edizione dei playoff nonostante la delusione per l’aver sprecato il vantaggio per 3-1 nella serie contro Utah. La punta di diamante dei Jazz ha ritoccato in meglio alcune delle sue personali statistiche in occasione della regular season, superando i 24 punti di media e migliorando le percentuali di tiro sia complessive che da tre punti.
Spida è poi esploso nei playoff dimostrando di potersi sobbarcare le responsabilità offensive richieste progredendo nella soluzione delle conclusioni, raggiungendo quota 36.3 punti con due scampagnate oltre i 50 all’interno dell’infuocata sfida contro Jamal Murray, segnando da oltre l’arco con un irreale 51.6% e fornendo pure nel contempo una miglior distribuzione del pallone.
L’accoppiata con Rudy Gobert è stata messa a dura prova dal noto episodio di immaturità offerto dal francese nei primi tempi di diffusione del Covid, ma alla fine ogni possibile frattura pare essersi risanata. Forza difensiva tra le più sicure in circolazione, Gobert fornisce come sempre intimidazione a centro area dominando a rimbalzo vestendo i panni di fulcro dell’intero sistema dei Jazz facendo sentire la sua presenza anche in attacco, settore nel quale ha prodotto 15 punti a gara ed applicato ogni concetto di screen come da manuale, andando poi ad alzare il livello di efficacia nei playoff misurandosi alla pari contro Jokic. Al di là dei numeri, che ne hanno conseguito la prima chiamata All-Star di carriera, la sua presenza altera lo svolgimento dell’attacco avversario in molti modi che non sempre sono visibili ad occhio nudo, un fattore raro e determinante, che costringerà la franchigia a soppesare per bene il suo futuro in vista della scadenza del suo contratto a fine stagione, viste le pesanti cifre che potrebbero essere necessarie per tenerlo a libro paga.
Se Mitchell e Gobert costituiscono indiscutibilmente l’asse portante dei Jazz odierni, Bojan Bogdanovic è l’outsider che può costituire tutta la differenza del mondo. L’assenza del tiratore croato ha difatti pesato enormemente nei playoff, dopo una stagione regolare trascorsa a regalare alla squadra la prima coppia di giocatori oltre i 20 punti di media dopo una letterale vita (20.2 il fatturato, con il 41.4% da tre punti) sottolineandone l’importanza quale opzione offensiva in grado di non far scendere la continuità in quei momenti dove Mitchell doveva comprensibilmente prendersi necessari attimi di pausa, segnando a ripetizione per quarti interi o infilando il tiro decisivo con grande puntualità, mostrando una grande capacità di assumersi le responsabilità più delicate.
Punti di debolezza: la rotazione resta corta, con soli otto uomini affidabili, un problema che la franchigia si trascina oramai da anni e che è prepotentemente emerso in ciascuna delle ultime tre edizioni dei playoff, dove la cosiddetta second unit ha faticato ad arginare i parziali subiti in occasione delle serie perse. Il mercato dello scorso anno si è rivelato inefficace, Jeff Green ha terminato l’anno altrove, Ed Davis non è stato un fattore arrivando a perdere il suo posto in rotazione, e l’infortunio di Bogdanovic ha mostrato la poca lunghezza della coperta a disposizione, a maggior ragione in coincidenza del fatto che giocatori come Joe Ingles e Royce O’Neale hanno visto calare drasticamente il loro rendimento nella serie contro Denver.
La difesa sul perimetro è stata la principale causa della rimonta subita nei playoff data l’incapacità di contenere Murray, il fattore che più di ogni altro ha fatto la differenza nelle tre gare consecutive vinte da Denver, l’unico arrivo di rilievo da questo è punto di vista risulta essere Shaq Harrison, che può in ogni caso fornire alcuni minuti di qualità e poco altro. Resta da valutare l’efficacia di Mike Conley, reduce da una prima stagione mormone partita in maniera assai lenta con il sempre allertante pericolo degli infortuni, un problema di non poca rilevanza per un giocatore di età non più verde e che pesa in maniera così evidente sul salary cap complessivo di squadra.
Utah non è più la forza difensiva di un paio di stagioni fa, il rating in tale settore è infatti sceso al tredicesimo posto assoluto della Nba dopo anni trascorsi all’interno della top ten. I Jazz hanno pagato i riposi di Gobert con 8 punti subìti in più di media su 100 possessi, un dato che ha scoperto l’assenza di alternative valide tra le seconde linee del frontcourt portando alla decisione di riportare nello Utah un Derrick Favors descritto come mai così in forma, che sarà sicuramente utile a coprire i minuti in cui il totem francese dalle braccia infinite verrà chiamato a sedere in panchina.
Analisi: quale futuro attende i Jazz dopo il supermax firmato da Donovan Mitchell per un totale di 163 milioni di dollari e la spada di Damocle incombente sulle sorti di Gobert, il miglior centro difensivo di tutta la lega, divenuto anch’egli eleggibile per il massimo salariale consentito? Utah è senza ombra di dubbio una squadra da playoff allestita su un nucleo solido che dovrebbe permettere di raggiungere senza grossi patemi i risultati delle ultime due stagioni, mantenendo quei ritmi che hanno consentito alla franchigia mormone di vincere 48 partite di media nell’ultimo quadriennio.
Le caratteristiche di questa squadra permettono di pensare ad un quinto o sesto posto nella futura disposizione dei playoff della Western, resta da comprendere quanto più in là ci si possa spingere rispetto al percorso delle annate più recenti, che hanno visto come insormontabile lo scoglio del secondo turno testimoniando infine il crollo del potenziale espresso in regular season in coincidenza della recente eliminazione ad opera di Denver, dopo aver condotto la serie con un comodo 3-1.
Sarà fondamentale, e qui ci vuole pure l’ausilio della buona sorte, tenere tutti i pezzi fondamentali in salute e sfruttare la rinnovata profondità nel settore lunghi, due dei fattori che hanno inciso più negativamente nel corso della passata stagione. I Jazz si sono difatti ritrovati corti nelle rotazioni e poco efficaci nei confronti tra seconde linee, i problemi fisici hanno tolto di mezzo un’importante opzione offensiva come Bogdanovic, che a questo sistema offensivo serve come l’acqua nel deserto per togliere pressione dalle spalle di Mitchell e fornire una seconda opzione affidabile quando i possessi scottano.
Troppe volte la squadra si è trovata ad accumulare svantaggi perché i tiri non entravano più ed improvvisamente calava la precisione dal perimetro, creando divari non più recuperabili che tanto hanno ricordato le due serie consecutive perse contro i Rockets.
Si riparte esattamente da quelle considerazioni, proponendo un quadro non molto differente dai precedenti proprio per la mancanza di modifiche particolarmente incisive dal punto di vista del miglioramento della difesa perimetrale e della qualità offensiva della rotazione, dove il solo Jordan Clarkson può garantire punti istantanei dalla panchina. Somiglia molto all’ennesima buona annata, ma per competere ai livelli delle due losangelene e degli avversari divisionali delle montagne rocciose l’impressione è che ci voglia più profondità di quella attualmente esistente.
Record 2019/2020: 44-28
Previsione record 2020/2021: 41-31
Davide Lavarra, o Dave e basta se preferite, appassionato di Nfl ed Nba dal 1992, praticamente ossessionato dal football americano, che ho cominciato a seguire anche a livello di college dal 2005. Tifoso di Washington Redskins, Houston Rockets, L.A. Dodgers e Florida State Seminoles. Ho la fortuna di scrivere per questo bellissimo sito dal 2004.