Anno Domini 2013.

A Philadelphia Sam Hinkie prende le redini dei 76ers, che chiuso il ciclo Iverson non hanno ancora trovato una nuova dimensione, e inaugura quello che sarà riconosciuto in tutto il globo come The Process: cedere i giocatori di valore, ingaggiare un head coach esordiente come Brett Brown, giocare annate all’insegna del tanking più selvaggio e arrivare infine a costruire, utilizzando lo spazio salariale e le scelte al Draft, una squadra in grado di posizionarsi stabilmente ai piani alti della Eastern Conference. Anzi, di più: riportare a Philadelphia quell’anello di campioni NBA che manca dal lontano 1983.

Contemporaneamente, i Boston Celtics ritengono a loro volta finita l’epopea dei Big Three e, pur senza un altisonante nome-slogan-hashtag, iniziano il loro processo di rebuilding sotto la guida di Brad Stevens, anche lui all’esordio come capo allenatore.

Sette anni dopo, sia i Sixers che i Celtics sono senza dubbio tornati a competere per le posizioni di vertice ad Est, e il primo turno playoff della bolla di Disneyworld le vede incrociarsi per la seconda volta negli ultimi tre anni. Ma per Philadelphia il verdetto del campo è pesantissimo: vittoria Celtics per 4-0, che bissa quella del 2018 per 4-1.

La prima conseguenza è che, pochi giorni dopo lo sweep subito dai Celtics, il general manager dei Sixers Elton Brand ha parlato chiaramente di fallimento del Process. Il primo a farne le spese, come spesso accade negli sport di squadra, è l’allenatore, con Brett Brown licenziato e la società a ripartire da un nuovo coach.

 

La dirigenza, per bocca di Brand, ha dunque sancito in maniera inappellabile che il piano di Hinkie è naufragato. Ma cos’è andato così storto in un progetto che, non più tardi di due anni fa, dava l’impressione di aver trasformato la Philadelphia né carne né pesce dell’immediato pre-Process in una stabile contender?

Per trovare una risposta credibile dobbiamo partire proprio dalla serie playoff del 2018, in cui il ritorno dei Sixers alla postseason aveva dato come risultato un secondo turno, forse deludente per i tifosi, ma che poteva essere tranquillamente visto come un buon punto di partenza grazie alla consacrazione definitiva di Joel Embiid, nuovo idolo del Wells Fargo Center, e al potenziale assurdo di Ben Simmons.

Quell’anno vede anche l’insediamento proprio di Elton Brand nella carica di GM in sostituzione di Bryan Colangelo, travolto dal Twittergate insieme a sua moglie. Brand passa così dal gestire il management dei Delaware 87ers, franchigia di G-League affiliata ai 76ers, all’occuparsi di quello della squadra madre, il cui obiettivo primario è esclusivamente quello di vincere.

La prima mossa pesante di Brand avviene a novembre 2018 quando a Philadelphia approda Jimmy Butler, arrivato ormai allo scontro aperto con la dirigenza dei Minnesota Timberwolves. Nella trade il GM spedisce a Minneapolis Robert Covington e Dario Saric, due giocatori la cui importanza nel roster di Brett Brown è ritenuta sacrificabile in nome dell’acquisto dell’ex Bulls.

A febbraio 2019 approda ai Sixers anche Tobias Harris; questa volta a fare da pedina di scambio è, tra gli altri, Landry Shamet, oggi un elemento importante in una contender come i Clippers.

Il risultato di fine anno, però, non solo è poco diverso da quello della stagione precedente (eliminazione al secondo turno per mano dei Raptors, poi campioni NBA) ma vede in estate anche la perdita di Butler, che chiede e ottiene di essere ceduto ai Miami Heat.

 

Dopo l’eliminazione del 2019, Brand non molla di un centimetro e prosegue per la sua strada firmando Al Horford; l’ex Celtics viene considerato un complemento ideale per Embiid e un altro top player da aggiungere alla macchina da guerra targata 76ers. Purtroppo per Phila, nel corso della stagione il buon Al non riesce a trovare la sua dimensione all’interno del roster e le sue prestazioni risultano decisamente inferiori rispetto alle aspettative della dirigenza (e alle cifre del suo contratto). Le motivazioni possono essere mille, ma una di esse è senza dubbio il fatto che il suo acquisto è stato l’ennesima mossa compiuta senza un vero progetto che non fosse quello di vincere ad ogni costo, non considerando le possibili ripercussioni tecniche sul sistema di gioco.

Da questo punto di vista, anche la convivenza tra Simmons ed Embiid ha lasciato perplesso più di un tifoso Sixers. Il camerunense è un giocatore dominante in area e questo avrebbe dovuto generare vantaggi ai per i compagni, con più spazio per giocare sul perimetro. Ma le note difficoltà di Simmons al tiro e la sua predilezione ad andare dentro e far collassare a sua volta le difese hanno portato più problemi che benefici alle spaziature, tant’è che i risultati migliori si sono ottenuti schierandolo come power forward.

Così arriviamo al presente, al 4-0 subito dai Celtics e a una offseason che presenta più dubbi che certezze, visto che Simmons e lo stesso Embiid non verranno ceduti (parole, anche queste, di Brand) e il contratto di Horford non è di quelli da cui si esce agilmente, così come quello di Harris. Non ci sono, quindi, gli estremi per una rivoluzione in campo, e così si cercherà di trovare un allenatore in grado di trasformare una costosa raccolta di singoli in una vera e propria squadra.

Le succitate mosse di mercato non sono certo le uniche responsabili dello sweep della bolla, ma sono esplicative di quanto il Process abbia visto la carenza di un aspetto fondamentale in un vero processo di crescita: la pianificazione.

Negli anni di Hinkie, l’unica finalità era perdere, perdere e perdere, per poter poi vincere durante le offseasons. Le sconfitte, però, avrebbero potuto portare qualche opportunità in più: quella di dare minuti ai giovani più promettenti e trasformarli, se non in superstars, almeno in buoni/ottimi giocatori di sistema, nonché di permettere a Brett Brown di costruire un sistema di gioco propedeutico ad inserire, al momento opportuno, giocatori prelevati dal mercato dei free agent che fossero funzionali alle idee dell’allenatore.

Nulla di tutto questo è stato fatto, e gli anni di tanking sono serviti solo per accumulare scelte e pedine di scambio per i top players, senza però essere in grado di costruire un roster affidabile intorno alle stelle Embiid e Simmons.

Quello che rimane del Process, ad oggi, è un payroll molto alto e un insieme di giocatori amalgamati male. Certo, le opportunità di tornare ai playoff ci sono ancora perché la qualità dei giocatori (soprattutto quelli del quintetto) è comunque buona, ma se l’obiettivo sarà fare meglio di un primo-secondo turno, il compito del nuovo allenatore si preannuncia davvero gravoso.

Commenta

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.