A poco più di una settimana di distanza dalla sua conclusione, è il momento per riflettere su cosa ci abbia lasciato un documentario che sembra aver monopolizzato le bacheche dei social di mezzo mondo. Perchè The Last Dance, portandoci per dieci episodi nel dietro le quinte di una delle squadre più famose di tutti i tempi, ha rivoluzionato il modo di raccontare l’epica sportiva.
And the Oscar goes to…
Per prima cosa, The Last Dance è un documentario da Oscar della categoria, senza se e senza ma. Addirittura qualcuno ne caldeggia la candidatura a miglior film, smontando punto per punto le più probabili obiezioni a questa proposta. Ok, forse quello sarebbe un po’ esagerato, ma è indubbio che le 500 ore di riprese girate dal regista Jason Hehir abbiano prodotto dieci piccoli capolavori, la cui fruizione è adatta anche ai non appassionati di basket.
Lo dimostra il fatto che The Last Dance sia stato di gran lunga il documentario più visto di sempre nella storia di ESPN (che di documentari sportivi se ne intende), con una media di 5,6 milioni di spettatori a puntata e un’audience pari al 40% delle scorse NBA Finals. Repubblica lo ha paragonato alla stagione finale di Game of Thrones, definendolo “un’oasi nel deserto ai tempi del Covid”. Di certo, almeno per qualche sera, ha fatto dimenticare gli appassionati di basket l’allontanamento forzato da campi e playground. Fosse anche solo per questo, una statuetta d’oro sarebbe ben più che meritata.
La Forza ha anche un lato oscuro
Dopo questo documentario, la leggenda di Michael Jordan è diventata se possibile ancora più grande di prima. Nel caso in cui, dopo oltre un decennio passato a osservare le meraviglie di LeBron James, a qualcuno fossero sorti dubbi sull’assegnazione definitiva del titolo di GOAT all’ex North Carolina, The Last Dance è servito per ricordare anche ai più giovani perchè il posto di Jordan sulla cima del Monte Olimpo dei cestisti resti oggi più saldo che mai.
MJ è ovviamente il protagonista assoluto di tutti gli episodi, ma se (in parte) il filo narrativo della serie è stato “pilotato” per esaltare i pregi della sua personalità, è indubbio che in molte occasioni emergano con prepotenza anche diversi lati oscuri. Tralasciando le ipostesi complottistiche sulla presunta sospensione di David Stern a causa del vizio di MJ per scommesse e tavoli verdi (assolutamente ridicole), dai racconti di quasi tutti i suoi compagni traspare in particolare un malcelato fastidio nel ricordare le angherie e i tiranneggiamenti a cui Jordan li sottoponeva durante gli allenamenti e le partite. Si dice spesso che i leader siano uomini soli e che, per il bene del gruppo, a volte debbano essere duri. Ma è anche vero che esistono molti stili diversi per esercitare la leadership. Quello di MJ è stato sicuramente efficace (lo dicono i risultati), ma ugualmente tendo a preferirne altri, magari un po’ più inclusivi e un po’ meno sprezzanti (soprattutto verso i più “deboli”).
Non si può piacere a tutti
Nonostante una pioggia di recensioni positive sulla serie, a quanto pare Scottie Pippen non è rimasto particolarmente soddisfatto dal modo in cui la sua figura è stata tratteggiata nel corso delle varie puntate. Pippen si è detto “ferito e infastidito” dal fatto che in diverse occasioni la narrazione ne abbia evidenziato i lati più negativi, in particolare per quanto riguarda l’episodio del suo rifiuto a rientrare in campo dopo il time-out in cui Phil Jackson scelse Tony Kukoc per prendere l’ultimo tiro di Gara 3 nelle semifinali di Conference del 1994 e per le dispute con la dirigenza che accompagnarono la prima parte della stagione 1997/98.
Non credo che questa fosse l’intenzione del regista. Lo stesso Jordan in più occasioni ne ha esaltato i pregi, definendolo con sicurezza “il miglior compagno di squadra che io abbia mai avuto”. Forse, l’essere un Robin nella squadra del più grande Batman di sempre (sorry Christian Bale) può avere in parte oscurato il fondamentale contributo dato da Scottie alla creazione della dinastia dei Chicago Bulls, ma credo anche che ci siano molti suoi avversari che avrebbero volentieri sacrificato qualche riconoscimento individuale per poter mettere al dito uno di quei sei anelli che oggi invece riposano nella cassaforte di casa Pippen. Personalmente appartengo a quella corrente di pensiero che ritiene che Pippen sia stato sì uno straordinario giocatore (anche se non il secondo miglior giocatore della sua epoca, e nemmeno il terzo o il quarto), ma che sia stato più beneficiato che danneggiato dall’aver speso la parte principale della sua carriera a fianco di MJ.
Phil Jackson è il GOAC (Greatest Of All Coaches)
Così come ci sono pochi dubbi che Jordan sia stato il più grande giocatore di basket di sempre, ritengo ce ne debbano essere più o meno altrettanti sul fatto che Phil Jackson vada considerato il più grande allenatore nella storia della palla a spicchi. Se gli 11 anelli vinti in carriera non sono sufficienti a sostenere questa tesi, questo documentario ha dimostrato ancora una volta le incredibili qualità, psicologiche ancor prima che tecniche, che hanno permesso allo Zen Master non soltanto di tenere in piedi, ma di innalzare nella stratosfera del Gioco una squadra composta di personalità incredibilmente difficili da gestire, ancorchè dotate di una sopraffina qualità cestistica.
Dai contrasti tra Jordan e il resto del gruppo, alle inquietudini esistenziali di Pippen, fino alle follie di un Rodman incontenibile per chiunque altro (citofonare ai San Antonio Spurs per referenze), Jackson ha saputo calibrare bastone e carota in modo assolutamente straordinario, intuendo con incredibile sensibilità quando serviva tenere salde le briglie dei suoi selvaggi stalloni e quando invece occorreva lasciarli liberi di correre nella prateria. Jackson si è poi ripetuto vincendo altri titoli (in due occasioni diverse) anche ai Los Angeles Lakers, ma i Chicago Bulls, in particolare quelli del secondo threepeat, rappresentano senza dubbio il suo capolavoro assoluto.
L’unione fa la Forza
Se Jackson è stato un fenomeno nella gestione di un gruppo che è cambiato molto nel corso degli otto anni tra il primo e l’ultimo Larry O’Brian Trophy, una (buona) parte del merito va attribuita all’intelligenza e alla disponibilità del cosiddetto supporting cast. Harper, Paxon, Cartwright, Armstrong, Longley, Wellington, Grant e Kucoc (con gli ultimi due che gregari lo erano per modo di dire) hanno tutti messo il loro personale mattone nella costruzione della dinastia dei Bulls. Tra chi l’ha fatto con il sorriso (Scott Burrell ha sopportato le angherie di MJ con la flemma di Gandhi) e chi meno (Will Purdue lo ha definito “an asshole and a jerk“, che se il mio inglese non mi inganna non mi pare sia un gran complimento), i compagni di squadra che hanno accompagnato Jordan e Pippen nel percorso verso la gloria eterna hanno dimostrato maturità e disponibilità al sacrificio, e per questo devono essere ricordati con onore.
Menzione d’onore per Steve Kerr, non a caso il secondo in assoluto per minuti sullo schermo nel corso dei dieci episodi. Kerr ha raccontato la sua parte di storia con la consueta lucidità e con l’orgoglio di chi sa di aver dovuto fare un extra-sforzo per poter portare il suo limitato talento ad un livello di performance adeguata agli standard imposti dal contesto. Due momenti da ricordare in particolare: quando sul palco del Grant Park ha raccontato la sua versione della storia dietro all’ultimo tiro delle Finali 1997 e quando ha ricordato con commozione la morte del padre, assassinato a Beirut nel 1984 da un gruppo di terroristi libanesi.
Dietro ogni grande sinfonia c’è sempre un grande compositore
Briciole. Questo lo sprezzante nomigliolo affibbiato da MJ al suo GM, perché “Jerry si presentava spesso in palestra con i resti del pranzo sulla camicia”. Jordan non ha mai nascosto (e di certo non lo ha fatto in questo documentario) la sua antipatia verso Krause, principale imputato per il processo di smantellamento della dinastia dei sei titoli assieme al proprietario Jerry Reinsdorf. Anche Pippen e Jackson nelle varie puntate hanno puntato il dito verso le contestate prese di posizione del manager nel corso degli anni, dalle beghe contrattuali con Pippen (frutto peraltro di un contratto da lui stesso firmato, non di una circonvenzione di incapace) alla decisione di portare in pompa magna a Chicago la star europea Tony Kucoc.
Ma Jerry Krause è stato più che un dirigente ruvido e scostante, poco incline alla diplomazia nei rapporti interpersonali. Molto di più. Krause è stato il compositore della sinfonia suonata dai Bulls, messi da lui assieme pezzo dopo pezzo con una serie di decisioni magistrali che, se oggi sembrano scontate, all’epoca potevano solo essere frutto di una mente geniale e visionaria. Avrebbe quindi meritato un trattamento migliore di quello ricevuto, non foss’altro per il fatto che putroppo non è più qui per difendersi dalle accuse che gli sono state lanciate. Fortunatamente, nel finale dell’ultimo episodio è proprio Scottie Pippen a riconoscere che Krause sia stato “the greatest general manager in the game”. Amen.
Molti nemici portano molte motivazioni
Una delle cose che ho apprezzato di più del documentario sono stati i momenti in cui Jordan raccontava di come usasse ogni dichiarazione, sfida, articolo o critica come sostegno alla propria motivazione. Durante The Last Dance, abbiamo visto come Jordan si sia assicurato che nessun affronto – non importava quanto grande, piccolo, rilevante o insignificante – rimanesse impunito. MJ si è “creato” nemici da distruggere sul campo con qualsiasi scusa: la mancata stretta di mano con Isaiah Thomas e i Pistons, gli sfottò di Bryon Russell nel periodo del passaggio al baseball, il career game del povero LaBradford Smith, l’esultanza da avversario di BJ Armstrong nella serie del 1998 contro gli Hornets.
A volte, un nemico è proprio quello di cui c’è bisogno per rafforzare la motivazione, anche se la “guerra” è unilaterale e immaginaria. Jordan sapeva trovare una “sfida nella sfida” per innalzare il suo livello di agonismo. La combinazione tra l’ineguagliabile spinta competitiva di MJ e il suo desiderio di far ingoiare all’improvvido trash talker di turno le offese e le mancanze di rispetto (reali o presunti che fossero) ha contribuito a farlo diventare sempre più forte e spietato. Jordan non aveva bisogno di tutti questi stimoli, ma li desiderava. Anche questo, ha contribuito alla creazione del mito.
Ogni tanto fa bene staccare un po’
Dennis Rodman è un personaggio unico. A mani basse il miglior rimbalzista dell’era moderna e stupendo difensore dalla sopraffina intelligenza cestistica, il contributo di Rodman al secondo three-peat va ben oltre quanto riportato dalle fredde statistiche. Ma è ovviamente fuori dal campo che la leggenda del Verme ha raggiunto le vette più alte, dal matrimonio con Madonna ai match di wrestling con Hulk Hogan, dalle sessioni di sesso selvaggio con Carmen Electra (che, a proposito, mi pare sia invecchiata piuttosto bene) nella facility di allenamento dei Bulls, fino alle missioni di pace in Corea del Nord.
Il suo rapporto con i Chicago Bulls può essere sublimato nella storia della più incredibile mid-season-vacation nella storia della Lega, che Rodman e compagni hanno raccontato nel terzo episodio della serie. Con Scottie Pippen fuori squadra, prima per i postumi del ritardato intervento al tendine della caviglia e poi per lo sciopero bianco legato alle vertenze contrattuali con la società, Rodman era stato la spalla di MJ nei primi mesi della stagione 1997-98, aiutando il suo leader a tenere in piedi il record stagionale. Ma arrivati a metà stagione, Rodman andò nell’ufficio di Phil Jackson affermando di aver bisogno di una vacanza, di staccare dal basket per qualche giorno per ricaricare le pile… e scaricare qualcos’altro.
Qualsiasi altro allenatore avrebbe probabilmente detto di no, minacciando magari di intervenire a livello disciplinare in caso di colpi di testa. Jackson invece capì la particolarità della situazione e concesse a Dennis 48 ore per raffreddare i bollenti spiriti. Jordan temeva che Dennis non sarebbe mai rientrato, lo Zen Master si fidava che Rodman avrebbe rispettato la parola data. É finita a metà strada, con le 48 ore che sono diventate 88 e con MJ che ha dovuto andare a recuperare il compagno di squadra in una stanza di hotel che, se potesse parlare, avrebbe bisogno di altri dieci episodi per raccontare tutto ciò che ha visto. Episodi che, peraltro, credo si lascerebbero guardare…
Gli assenti NON hanno sempre torto
Nel corso delle dieci puntate sono state decine le testimonianze di compagni, avversari, giornalisti, addetti ai lavori raccolte dal regista Jason Hehir. Si nota però anche qualche assenza di particolare rilievo, tra le più evidenti quelle di Karl Malone, Bryon Russell e Craig Hodges. Ma se i primi due hanno scelto consapevolmente di non rispondere alla chiamata (Malone si è limitato a dichiarare qualche giorno fa “Jordan? Un duro. Ma anch’io ero un bel figlio di put**na”), Hodges si è detto particolarmente infastidito dal fatto di non essere stato nemmeno contattato per partecipare al documentario, nonostante il ruolo di rilievo avuto nei primi anni della dinastia (in quel periodo era probabilmente il miglior tiratore da 3 dell’intera Lega).
Hodges ha criticato aspramente diversi momenti del documentario, in primis la descrizione di Jordan dei festini a base di alcool, sesso e droga dei primi Chicago Bulls (“Mi ha dato fastidio perché stavo pensando ai compagni che erano in quella scena, che avrebbero dovuto spiegare quei momenti alle loro famiglie“), ma anche l’etichetta di “gola profonda” affibbiata senza prove a Horace Grant per il libro di Sam Smith. É possibile che Hodges abbia pagato con l’esclusione dalle riprese il suo essersi esposto in modo forte in passato sulla questione della lotta per i diritti degli afroamericani, criticando Jordan per non aver fatto altrettanto (“Anche i repubblicani comprano le scarpe” è la frase che meglio riassume il pensiero di MJ in questo senso).
Ecco, qui possiamo invece dire, senza timore di smentita, che LeBron si sia impegnato decisamente di più.
John Michael Wozniak è il più grande vincente di tutti i tempi
Per quel genio di David Foster Wallace, Michael Jordan quando saltava a canestro assomigliava a “una sposa di Chagall sospesa a mezz’aria”. Se fosse ancora vivo, gli chiederei come definirebbe l’impresa della guardia giurata John Michael Wozniak, testimoniata dalle telecamere della ESPN nel sesto episodio della serie.
Nel 1993 Wozniak, che di mestiere si occupava della scorta privata di MJ, prima di una gara sfida il suo capo a un gioco dal nome sconosciuto, che consiste nel lanciare un quarto di dollaro verso un muro per vedere chi riesce a posizionarlo più vicino al bordo. I due scommettono dei soldi sulla sfida e alla fine Wozniak vince, lasciando Jordan a recriminare per la sconfitta. Wozniak incassa i soldi e, per festeggiare, si prende bonariamente gioco dell’avversario ricreando l’iconico “Jordan Shrug”, il gesto che MJ fece contro i Portland Trail Blazers dopo aver segnato la sesta tripla nel primo tempo di gara 1 delle NBA Finals del 1992.
Wozniak e Jordan hanno avuto un lungo rapporto professionale durato per decenni, anche dopo il ritiro di Jordan dal basket, e non ci è dato sapere se MJ si sia mai preso una rivincita. Ma, ad oggi, JMW (tutte le leggende hanno un acronimo) resta l’unico bipede riconosciuto dalla storia in grado di sconfiggere in uno-contro-uno His Airness. Il fatto che la sfida non si sia svolta su un campo da basket non deve sminuire la portata dell’impresa.
Wozniak purtroppo è morto il 18 gennaio 2020 e non ha potuto rivedere l’episodio di cui è stato protagonista. Ma la sua leggenda – e la sua versione del Jordan Shrug – continuerà a vivere attraverso The Last Dance. God bless you John…
Ex pallavolista ma con una passione ventennale per il basket NBA e gli sport americani in generale. Tifoso dei Mavericks, di Duke e dei ’49ers, si ispira a Tranquillo e Buffa ma spera vivamente che loro non lo scoprano mai.
Bel post, complimenti.
Jordan resterà sempre il più grande perchè lui E’ il basket moderno.
Quell’altro ragazzo padre di Akron vuole fare il Presidente, perciò fa il mellifluo.
Due atleti irripetibili, ma non c’è competizione.
Non sono d’accordo. Ho 48 anni e ho seguito tutta la carriera di Jordan e sto seguendo quella di James. Jordan ha vinto tanto ed è stato odiato anche di più. Lebron è più completo come atleta e giocatore, più altruista dentro e fuori dal campo. Vederlo giocare mi diverte molto di più. Rimane ovviamente un mio parere e posso capire che non tutti la pensino come me. Ma quello che più mi infastidisce è il dare per scontato 10 a 1 che Jordan sia il migliore di tutti. Bisogna sempre capire da che angolazione e di certo non da tutte.