A quindici anni esistono due tipi di ragazze: quelle giuste e quelle sbagliate. Se eravate come me, razionali sconfinanti nel cervellotico, pragmatici fino al minimalismo e con la self confidence di una curvy ad una sfilata di Victoria Secret, l’amore giusto a quindici anni aveva le sembianze della vostra compagna di banco imbranata quanto voi, acqua e sapone, fan sfegatata di Harry Potter. L’amore sbagliato invece corrispondeva alle ragazze già bellissime e anni luce davanti a voi, che uscivano con i più grandi ignorando del tutto la tua esistenza: le avevate già battezzate come “belle ma oche”, ma segretamente eravate cotti e non sareste mai stati in grado di gridar loro in faccia tutta la vostra passione adolescenziale.
La mia cotta sbagliata aveva la forma sgranata dei ricordi proiettati su una tv a tubo catodico, la maglia numero 15 del Team USA ai Mondiali 2006, e, soprattutto, le treccine. Si chiamava Carmelo Kyam Anthony.
Il mio primo, nitido, ricordo cestistico
Nella prima partita di quel mondiale in cui il Team USA sembra faticare, la nazionale a stelle e strisce si aggrappa al prodotto di Syracuse che risponde presente con 35 punti totali, di cui 19 e 3 assist (FIBA, non NBA) in un terzo quarto che gronda strapotere tecnico e fisico. E’ la nascita della leggenda di FIBA Melo.
In quella squadra le stelle avevano nickname da eroi dei fumetti: “The Pre Chosen”, “Flash”, “Superman”, ma io avevo occhi per l’unico con un soprannome banale, la faccia di quello capitato lì per caso, e le movenze pigre e sornione di un felino intorpidito dal sonno. Melo aveva tutto per diventare il mio beniamino: un talento folgorante, una fatality iconica e quella street attitude che non trovava un degno successore dal declino di The Answer.
L’amore giusto era ovviamente l’altro, LBJ, o al massimo D- Wade. Di fronte al larghissimo (e meritato) consenso per gli altri due esponenti della draft class 2003, difendevo a spada tratta il ragazzo in casacca Nuggets, che passava già all’epoca in secondo piano, decisamente più per meriti altrui che per demeriti propri.
La MIA teen romance spara in faccia alla TUA teen romance
il canestro della vittoria 1.48 secondi dalla fine del primo supplementare
senza alcuno sforzo apparente
Poi si cresce e queste segrete infatuazioni da ormoni fuori controllo lasciano il posto a sentimenti più stabili. Si comincia a capire cosa conta davvero in una relazione: la passione certo, ma in maniera più stabile e profonda, senza quei picchi altissimi e discese altrettanto rapide tipici dei primi amori. Se è quella giusta non ti delude mai, e la fidanzata giusta per il primo ventennio del 3° millennio è stata per (quasi) tutti Lebron James. Col tempo invece avete completamente perso di vista la vostra prima cotta e ve ne scordate, fatti salvi quei momenti in cui vi arrivano notizie di lei per vie traverse a cui non fate caso.
Melo sbatte contro i suoi limiti e contro il muro della mediocrità
Questo fallo in attacco è il manifesto dell’ultima stagione di Melo ai Nuggets, nonché della sua intera esperienza in Colorado: stagioni notevolissime dal punto di vista statistico da scorer di razza (con tanto di endorsement del Black Mamba, che di scorer se ne intende) con l’illusione di poter competere ai massimi livelli senza però arrivare vicino al bersaglio grosso.
Col senno di poi, l’amara verità si è gradualmente rivelata; ciò che aveva reso Carmelo un giocatore d’élite, il suo gioco in isolamento dalla media distanza, è stato anche ciò che ne ha causato un invecchiamento piuttosto rapido, soprattutto se paragonato agli altri Banana Boaters.
Del jab step di Carmelo si potrebbe discutere ore e gli hanno dedicato pure una puntata di Sport Science, ma l’aspetto che è più interessante è cosa rappresenta per lo stesso giocatore.
Il numero 15 è uno dei giocatori di pallacanestro che più si avvicina all’estetica simile dello schermidore. La sola dimensione reale su un campo di basket è quella del duello rusticano in cui l’unico altro essere umano che consideri è l’avversario da battere. Degli altri otto giocatori, delle analytics, di ciò che i coach credono sia meglio fare lui non se n’è mai curato, l’unica cosa che conta è battere il suo uomo in his own way.
Quella concatenazione di ricezione spalle a canestro tra mezzo angolo e ala, giro sul perno aiutandosi con i gomiti mulinati al di sopra del difensore come un passo di break dance, rilascio fulmineo come una stoccata di fioretto senza l’estensione completa del braccio, sono stati per lungo tempo la sua personale arte marziale, in connessione inscindibile con il suo Io.
Ad un certo punto però non ha saputo distaccarsene quando l’evoluzione del gioco avrebbe suggerito altrimenti e il suo straordinario talento gli avrebbe comunque permesso, ribaltando completamente il rapporto: dal tenere le difese in ostaggio con il suo post game è finito per essere lui stesso prigioniero del suo stile.
Ma la verità è che rinunciarci avrebbe significato tradire la sua identità, uniformarsi a quegli stuoli di tiratori sugli scarichi che aspettano il passaggio di chi ha già vinto il vantaggio e fatto quindi il grosso del lavoro. No, non poteva accettarlo.
Esperienze estetiche simili al gioco di Carmelo Anthony in post
La carriera post Denver di Melo è stata un susseguirsi di eventi ripetitivi che potremmo riassumere nel ciclo:
–> dichiarazione roboante –> alte aspettative –> timidi segnali positivi –>
–> fallimento senz’appello –> rilancio ancora più roboante –>
Quest’altalena si è ripetuta fino a quando il fisico ha cominciato a chiedere il conto, oltretutto nello stesso momento in cui “l’altro” era (ed è tutt’ora) ancora nel suo prime. L’appendice finale del percorso di Anthony è stata beffarda ai limiti del sadismo con una serie di scambi e tagli da journey man della lega, non di certo confacenti ad un 10 volte All Star.
Tra le promesse sportive non mantenute troviamo Grant Hill, Brandon Roy, Tracy McGrady, fenomeni il cui fisico non ha retto il peso di un destino troppo grande per compiersi. Nel cuore di chi li ha visti giocare hanno comunque vinto, semplicemente mostrando per poco tempo quello che poteva essere e non è stato. A Melo, per la superbia e l’incapacità di adattarsi al cambiamento, questo privilegio non è stato concesso.
A un certo punto ti ritrovi felicemente realizzato, magari sposato con figli. Il ricordo della ragazza per cui avevi una cotta da adolescente non ti attraversa più il cervello da molto quando un giorno la scorgi per sbaglio al supermercato. Giri l’angolo incuriosito dicendoti che non te ne frega nulla e la osservi dal reparto frutta. Gli anni passano per tutti ma da lontano appare ancora bellissima e tu hai di nuovo quindici anni. E’ una sensazione di incredulità che dura un attimo, sostituita presto dalla tua razionalità da adulto che ti dice che non è possibile… Poi pensi che non vuoi avvicinarti sul serio, perché capiresti che con lei sei invecchiato anche tu, vuoi lasciare che questo lampo di euforia rimanga intatto nel retro del tuo cranio.
Dirò la verità, non mi sono interessato per nulla del suo rientro in NBA. Troppa la delusione per le esperienze in Texas ed Oklahoma per investire ancora emotivamente su di lui. Messo sotto contratto dai Portland TrailBlazers, dopo un tiepido esordio contro i Pelicans, Anthony ha tirato fuori prestazioni degne di nota (18, 11, 25, 19 punti per un record di squadra di 2- 3), ma non abbastanza per risvegliare il mio interesse. Comincio però a pensare di scriverci qualcosa… Sarà in grado il nostro improbabile eroe di risollevare le sorti dei derelitti Blazers?…
Stanotte Melo ha realizzato la miglior prestazione da quando è tornato: doppia doppia da 23 punti e 11 rimbalzi con un buon 50% dal campo importante ai fini della vittoria sui Bulls, gli stessi Bulls che lo avevano tagliato subito dopo averlo ricevuto in scambio da Houston. Le fasi con cui ho accolto questa notizia sono state esattamente quelle dell’ipotetico “me” al supermercato: ho rivisto Melo dominare sui suoi avversari fisicamente e tecnicamente a suon di isolamenti come tredici anni fa e quell’attimo di incredulità è stato rinforzato dall’euforia per la sua vittoria sul tempo, sui Bulls e anche su di me. Ho subito pensato che non potevo perdermi la sua prossima partita e poi avrei scritto l’articolo. Intanto sono andato a rivedere gli highlights delle precedenti gare gustandomi l’abuso perpetrato ai danni di Markkannen per ben due volte in pochi giorni.
Già…
Markkannen…
Alla terza visione la mia razionalità prende il sopravvento e noto la difesa quantomeno rivedibile di Lauri e di tutti i Bulls in generale, scarichi sulle gambe e demotivati per la crisi con Coach Boylen. Lascio stare, recupero gli highlights della vittoria su Oklahoma, la squadra da cui è stato scaricato due anni fa, vedo 19 punti con un superbo 9/11 dal campo e tutto il repertorio per cui l’ho amato dal primo istante. Tornando indietro lo vedo contro Milwaukee e il terrore mi assale di nuovo di fronte a patetici post up contro Antetokounmpo (!) finiti inesorabilmente con un pessimo tiro a volte spietatamente stoppato. Guardo l’avversario della prossima partita, leggo Clippers, e penso alla stessa scena con Kawhi o George al posto del greco e lo sconforto aumenta. Ma poi…
… ma poi lo vedo fare una volta ancora 3 to the dome… e capisco
Capisco che non devo capire, razionalizzare. Lo so io, lo sa lui, lo sa chi fa i filmati degli highlights e dedica preziosi secondi allo slow motion della sua inconfondibile esultanza. Melo non è tornato per salvare i Blazers, almeno non subito. E’ tornato per sè stesso, per dimostrare che è ancora capace di giocare, e soprattutto di farlo in his own fucking way, col sorriso sornione sulle labbra di chi è stato accompagnato alla porta ma è rientrato dalla finestra. E’ tornato per noi, perchè sa che non potevamo salutarlo con quel triste epilogo a Houston. E’ tornato per loro, gli altri, gli haters, per quelle franchigie che una volta avrebbero fatto carte false per vestirlo con la loro casacca e lo hanno scaricato prima e snobbato poi.
Ai miei occhi è di nuovo all’interno del ciclo che ben conosco: il suo talento diverso dagli altri potrebbe condurlo alla stagione della redenzione, oppure incatenarlo nuovamente ai suoi limiti e darci l’ennesima delusione. Ho un dejavù. Butto all’aria qualsiasi analisi tattica e previsione. Devo scrivere sull’onda di questa euforia e poi si vedrà. Lo sport non è solo schemi e percentuali, trofei e successi, è emozione prima di tutto, e Carmelo Kyam Anthony è il primo che mi ha emozionato. Anche se non era quello giusto.
Amante del basket a stelle e strisce, mi dò un tono con le analytics ma segretamente spero nel ritorno di Carmelo Anthony. Una volta, da allenatore, ho quasi vinto la prima divisione. Circa.
Bel pezzo su un giocatore unico e meravigliosamente tormentato, bravo!
Giocatore da playground e peccato per chi lo stipendia.
Non sono un amante di Melo, ma l’articolo è davvero bello ed intenso. Bravissimo..
Bell’articolo, appassionato poi, complimenti.
Non sono mai stato un suo fan, però ho sempre ammirato la sua classe e il suo talento. Purtroppo per lui classe e talento ne ha molta, ma non abbastanza per dominare come si sono sempre attesi tutti da Anthony. Forse la sua carriera sarebbe stata ottima se avesse capito(e lo avessero capito altri)che Melo poteva essere il secondo violino fin da subito(ma quando è entrato nella NBA non erano ancora i tempi delle 2-3 star e lo stesso Melo credo si considerasse il go to guy di ogni squadra). In questa seconda parte della carriera potrebbe fare bene in un team come i Blazers dove i ruoli mi sembrano ben definiti e Melo comunque un lusso non indifferente.