Riassumere quel che rappresentano oggi i Pelicans è un’impresa più che ardua. La stagione è andata da tempo, gli obiettivi sfumati e una trade che avrebbe rinvigorito le casse societarie apportando anche modifiche positive al roster non si è fatta. Quel che rimane è un anno fallimentare, con AD, prossimo partente, impegnato part time per far crescere i giovani e poche liete positive sul fronte futuristico.

Se vogliamo dividere in tre fasi – preview, svolgimento e conclusione – il 2018/19 di New Orleans possiamo però notare che in tutti e tre gli step un pessimismo latente l’ha sempre fatta da padrone.

I migliori cinque giocatori dello scorso anno sono stati ceduti o debilitati nel fisico. In particolare l’assenza contemporanea e il ridimensionamento di Davis, Cousins e Mirotic, favoloso trio di lunghi per classe e mano calda, ha rappresentato una onerosa perdita per coach Gentry.

Il montenegrino, bersagliato dagli acciacchi, ha spesso alzato bandiera bianca negli ultimi due campionati fino ad essere ceduto nella deadline ai Bucks dove, con minutaggio minore, viene utilizzato come spacca partite sia nel pitturato ma soprattutto fuori dall’arco.

Il serio infortunio a Boogie ha costretto la proprietà a liberarsi di un grande profilo alla ricerca però di un contratto lungo e sostanzioso. La difficile posizione salariale di New Orleans, dovuta anche ad errate scelte economiche del passato (Hill-Ajinca), ha obbligato la dirigenza ad investire la propria mid-level-exception su Julius Randle, unico rampollo emergente sacrificato dai Lakers per arrivare a James. Si capisce benissimo che a livello tecnico, qualitativo ma soprattutto di esperienza difensiva la disuguaglianza è stata enorme e si è fatta sentire nella prima parte dell’anno.

Stessa considerazione la dobbiamo fare sull’addio di Rajon Rondo. Lui e Payton (sovente ai box) sono paragonabili come stile di point guard, sia per il modo di difendere nel perimetro, spesso arbitrario, che per la scarsa efficacia e voglia di esibirsi al tiro da fuori, col primo più passatore e il secondo più dinamico.

Tra i due però quel che fa tutta la differenza del mondo è il modo di porsi coi compagni, la mentalità, la totale assenza di paura nelle sfide che contano ed un’enorme intelligenza tattica dentro al rettangolo.

Da subito, presumiamo quindi, le idee di Anthony Davis erano chiare: andare ovunque ma non qui, con un roster in piena evoluzione e senza i suoi vecchi punti di riferimento. D’altronde a nemmeno 26 anni erano legittime le aspirazioni del totem monociglio, reduce da 28 punti di media, 11 rimbalzi, 2.5 assist, 1.5 palle recuperate, 2.5 stoppate col 53.5% dal campo su 20 tiri a partita in regular season e un dominio ancora maggiore in postseason.

In effetti la mancanza di esperienza e freddezza si è fatta sentire e la capacità di gestire situazioni intricate e importanti durante i match è stata fallimentare nell’inizio di campionato. Probabilmente Davis e compagni hanno inconsciamente affrontato l’inizio di regular season con una mentalità diversa rispetto al passato, quando la fiducia era maggiore e le situazioni contrattuali erano più definite.

Alle prime difficoltà il gruppo si è sciolto in prestazioni patetiche specialmente a livello difensivo lasciando intere praterie ad attacchi rapidi e veloci con lo stesso AD a lamentarsi coi giornalisti della poca fisicità, scarsa comunicazione, pigrizia e troppi layup e triple aperte subite.

Una insoddisfacente posizione in classifica, unita ai problemi di gruppo appena accennati, hanno provocato una serie di gossip relativi al centro natio di Chicago, che a fine Gennaio ha dichiarato – con relativa multa NBA – il suo intento di lasciare New Orleans dopo sette stagioni.

I Lakers non hanno sferrato l’attacco giusto e come sappiamo Davis è rimasto a casa base, attendendo l’estate per trovare poi la sistemazione più giusta alle sue aspettative e il team il miglior pacchetto per ripartire da capo.

I mesi della mid season colmi di voci non hanno fatto altro che accelerare in negativo il campionato dei Pelicans – idem per L.A. che distratta da chi sarebbe dovuto partire o rimanere ha imbarcato acqua da tutte le parti – portando il coach, presumiamo per ordini dall’alto, a mantenere AD sul parquet per un tempo ridotto (sui 25 minuti a partita) togliendolo nelle fasi finali dei match per arricchire di responsabilità i superstiti in rosa. Si sono anche verificati degli scatti di orgoglio con l’ex punta di diamante a mezzo servizio o assente, battendo fra gli altri Houston, Thunder e gli stessi Lakers.

Le soddisfazioni 2018/19 prendono il nome di Jrue Holiday e Julius Randle.

Il primo ha migliorato la favolosa stagione da secondo violino dimostrandosi a 28 anni forse la combo guard difensiva più consistente di tutta la lega, sperando che in futuro abbia ancora da queste parti la possibilità di confermare la sua forza in una serie di playoff.

Il secondo rappresenta l’unico sorriso di un’annata disgraziata fin dallo start. Dopo il difficile avvio e i paragoni con Cousins, il lungo ventiquattrenne si è trasformato nella rivelazione della seconda parte stagionale. Nel periodo più buio, quello dell’anonimato che va dai rumors di trade fino ad oggi, la Big Easy si ritrova ad avere un qualcosa per cui credere in futuro e al quale affidare le prossime speranze, augurandosi che l’addio di AD possa permettere a Julius di vedersi affiancare un talento a lui paritario (Tatum?)!

Da Febbraio i quasi 25 punti a partita – 4 volte vicino ai 29 e pochi giorni or sono sopra ai 40 – uniti ai 9 rimbalzi e 3 assist di media stanno a significare che il punto di partenza da queste parti è proprio lui, nonostante una player option che gli darebbe la possibilità di essere free agent già in estate.

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