Prima il dovere poi il piacere.
Prima la sintesi della gara, poi parliamo un po’ di dinastie, trade e filosofie delle due squadre, ai poli opposti sia della California, sia del modo di vedere il basket.
Non gioca LBJ, quindi i decibel dell’arena si abbassano automaticamente di un bel po’, anche se il pubblico letteralmente impazzisce quando Iguodala consegna a Javale McGee l’anello per il titolo vinto l’anno scorso.
Iggy presented JaVale with his 2018 championship ring before the Warriors-Lakers game 👏 pic.twitter.com/gV4aUFlMtY
— ESPN (@espn) February 3, 2019
Rientra Thompson per i Warriors (assente nella sconfitta contro i 76ers) ma l’assenza di LBJ rende la gara una mezza farsa, visto che le aspettative erano altissime. Sono presenti tutti i volti noti del broadcast americano, da Rachel Nichols in giù, ma con le facce evidentemente deluse per l’accaduto.
In primis perchè a prescindere da come la pensiate -ed io sono uno di quelli che su LBJ ci va giù duro- rimane uno dei tre giocatori migliori in attività al mondo (la classifica fatela voi) e fra primi 10 di sempre (idem con patate), senza alcun dubbio. In secundis, perché ‘sti Lakers dall’infortunio di James non è che stiano proprio rispledendo, per usare un eufemismo…
La gara inizia bene per i Warriors, ma i Lakers alzando il ritmo costantemente riescono a rimanere in contatto. Buon inizio di Rondo su entrambi i lati del campo. Seguono a ruota KD, Klay e Cousins, tutti vicinissimi alla doppia cifra dopo appena 12’ di gioco.
Il secondo quarto segue il copione del primo: mancano 7 minuti all’intervallo il punteggio è a favore dei padroni di casa per 47-41.
Il pubblico mediamente è poco “engaged”. Le speranze un po’ disattese rendono questa gara soltanto “una” gara (non oso immaginare la contentezza di chi ha pagato il biglietto a prezzo pieno per il “partitone” di sabato in diretta nazionale) che si svolge quindi secondo la solita liturgia delle arene sportive americane: primo quarto, tutti in ritardo (mai capito il perché). Poi appena arrivati si mangia (giustamente), accumulando ulteriore ritardo, un paio di birre, fine primo quarto.
Fra il primo ed il secondo fanno un paio di chiamate che non sono riusciti a fare prima, tipo al medico di famiglia o al commercialista -accompagnate magari da altre due alette di pollo fritto- e rientrano tardi post halftime.
Poi inizia la gara vera, quella del terzo e quarto quarto, che tutti guardano, ma solo se è in equilibrio altrimenti l’occasione è ghiotta per andare via quei 5-7 minuti prima che consentono di evitare la sconvenientissima coda per uscire dal parcheggio.
Prezzo del pacchetto? Dai 200 ai 2500 dollari, alette di pollo fritto incluse. Un affarone.
Sono pur sempre americani; lo stesso gran popolo che ha tirato fuori questo bellissimo sport, ma anche il wrestling, la pizza con sopra pollo e ananas e non riesce a non scuocere la pasta. Non chiediamogli troppo.
Io, non essendo americano, utilizzo quel tempo e parte del primo quarto per fare foto e parlare con tale Greg, che ha il biglietto in seconda fila dietro il bancone degli arbitri da 20 anni. 20 anni, cavolo.
Mi parla emozionato degli anni in cui dei playoff qui alla Oracle non c’era manco l’ombra, di Monta Ellis, di Mark Jackson, di questo “lungo viaggio” e dell’avvenentissima figlia bionda e ventiseienne, regalandomi così lo spunto per la seconda parte dell’articolo (il lungo percorso degli Warriors, non la figlia del milionario, che sarebbe comunque meritevole di almeno un paio di righe, fidatevi) su dinastie e superteam.
I Lakers in qualche modo non collassano anche senza James. Come mai? Un mix preciso di: noia dei padroni di casa ed una ottima prestazione della loro panchina (25 punti contro i 10 delle riserve dei padroni di casa) che garantisce continuità anche in una serata dove Kuzma, Zubac e Ingram sono tutti abbondantemente sotto il 50% dal campo.
All’halftime di una partita oggettivamente bruttina il punteggio è 63-58. Spiccano i 23 di Thompson con un sontuoso 9-12, i 15 di Durant (5-7 dal campo) e qualche (raro, almeno oggi) lampo di Steph.
Inizio di terzo quarto tutto purple & gold con Kerr costretto al time out sul 69-71. I padroni di casa sono rientrati un po’ pigri e specialmente sul lato difensivo appaiono sconnessi.
Fortunatamente, dopo un avvio un po’ tremulo, i Warriors riprendono il pallino del gioco per poi, dopo un po’ di tira e molla, rimettere la doppia cifra di distacco (101-91), ma sono tanti i piccoli errori che non fanno decollare la partita, almeno dal punto di vista qualitativo.
Finisce come doveva finire: con Golden State sopra di 20 e con un bel po’ di garbage time con minuti per tutti e set offensivi mai provati nemmeno in allenamento. Il punteggio finale, se proprio vi interessa, dice 115 a 101 per quelli della Bay Area.
Nei Lakers sufficiente la prova di Ingram, Caldwell-Pope e Lance Stephenson che, nonostante un paio di air guitar del primo tempo, chiude con 4-13 da tre. Kuzma male praticamente in tutto e si è dovuto pure sorbire i “miglioramenti” di forma di DeMarcus Cousins…
Oh goodness. Boogie Cousins with no regard for poor Kyle Kuzma #DubNation
🎥: @NBATV pic.twitter.com/1fHHMRHnWo
— USA TODAY NBA (@usatodaynba) February 3, 2019
Ora passiamo ai discorsi più interessanti:
Mentre scrivo i Lakers stanno offrendo pure delle vergini sacrificali e un paio di parenti di primo grado di Magic Johnson per portare a casa Anthony Davis, spendendo in un solo acquisto tutto il lavoro fatto negli ultimi anni, per allestire una squadra da titolo nel minor tempo possibile.
Se era chiaro che molti assets dei Lakers sarebbero stati usati per obiettivi simili, l’urgenza con cui stanno conducendo la trattativa colpisce, anche se era chiaro che con Lebron James (alla veneranda età di 34 anni) sarebbe successo qualcosa di simile a tutto quello già abbondantemente visto negli ultimi anni di Cleveland che e a me, francamente, sorprende poco.
Mi sorprendo invece ancora della scarsa memoria che abbiamo tutti noi. So che funziona così anche in ambiti molto più importanti del basket ma non riesco a farmelo andare giù:
Spesso -troppo spesso a mio avviso- si sente comparare i futuri Los Angeles Lakers con i Golden State Warriors, per spiegare (o giustificare, meglio) che oramai l’unico modo di vincere è quello di creare superteam tramite trade e quindi sdoganare agglomerati di giocatori e cambi di casacca, deprezzare alcune vittorie o, ancora peggio, alleggerire particolari sconfitte.
Ve lo dico subito: a me queste storie (o per meglio dire scuse) appassionano il giusto.
Prima di tutto perché se anche fosse così (e non credo che sia così) l’avvento dei superteam andrebbe datato ai tempi di Pierce-Allen-Garnett in casa Celtics o, almeno, ai famosi Miami Heat di James-Bosh-Wade. Se quindi seguissimo questo ragionamento un po’ distorto di chiodo scaccia chiodo, le “colpe”, ad essere onesti, andrebbero fatte ricadere su chi il giochino l’ha generato e sfruttato prima di far entrare i Warriors nell’equazione.
Da poco ho sentito la sintesi perfetta di quello di cui sto parlando e la riporto qui tradotta per semplicità:
Lebron ha inventato MySpace a Miami, i Warriors hanno aperto Facebook e adesso LBJ pur di non fallire sta provando a fare l’Instagram a Los Angeles.
Perfetta.
O meglio, perfetta se la pensassi veramente così.
Mi spiego meglio: io non mi entusiasmo per l’hero basketball. Anche in questa lega di superstar il mio cuore batte per quelle squadre che costruiscono un qualcosa che vada al di là del nome della stella e dei riflettori. Per questa mia inclinazione (condivisa da molti, ve lo assicuro) innamorarmi degli Spurs è stato un gioco troppo facile.
Però questa idea (ormonata da quando Lebron ha messo piede nella lega), del fenomeno che controlla tutto, a cui devi tutto e che ti risolve tutto a prescindere a cui tu porti oro, incenso e tiratori da tre per vincere il prima possibile la ritengo efficace (perché, ahimè, ha funzionato e funziona) ma non poi una cosa di cui vantarsi troppo.
Allora perché svilire quel percorso fantastico di creazione-crescita-rifondazione, unico dello sport professionistico americano, mettendo nello stesso insipido brodo percorsi (incredibili) come quelli degli Spurs o degli Warriors con le scorciatoie prese dagli Heat, Celtics o dai Cavs?
Un detto che condivido dice che si dovrebbe guardare molto di più il percorso del viaggio rispetto alla meta da raggiungere.
Proviamo a ricostruire la parabola dei Golden State Warriors e vediamo se riesco a spiegarmi un po’ meglio:
- 2005-2008: Fase embrionale: La franchigia perde ed è persa in diatribe fra il coach, PJ Carlesimo, e giocatori come Latrell Sprewell e Stephen Jackson. La punta di diamante è Monta Ellis e basta questo. Si naviga costantemente a vista per un paio di stagioni senza glorie e senza infamie.
- 2009: Prime avvisaglie del terremoto. Cambia il front office: il testimone passa da Chris Mullin al duo Riley-Myers, fondamentali per tutto il processo. Nel 2009 arriva anche Stephen Curry dal draft (settima scelta assoluta) fra opinioni contrastanti. Parte l’esperimento del duo Ellis-Curry. I Warriors fanno si i playoff, ma sono ancora fuori dalla cartina geografica delle franchigie NBA importanti.
- 2010-2011: Avvengono due eventi fondamentali: il primo è l’acquisizione via trade di David Lee, il secondo, molto ma molto più importante, la franchigia viene acquisita dal tandem Lacob-Guber per la sommetta di 450 milioni di dollari.
Appena arrivato Joe Lacob ha da subito fatto capire di avere le idee molto chiare: “If you look up there” – chiosò il nuovo proprietario Lacob di fronte al pubblico di casa puntando il banner di un vecchio titolo vinto dagli Warriors – “There is a very lonely flag. We want another one.” - 2011: La squadra non procede come dovrebbe (mancano nuovamente i playoff) e quindi arriva l’assunzione di Mark Jackson come head coach nel giugno del 2011 e l’inizio della creazione di quella struttura e di quella filosofia di gioco che hanno cambiato l’intera lega. Arriva anche Klay Thompson (draft 2011) da Washington State University alla 11°.
- 2012 Finisce l’esperimento “Ellis”. Il giocatore viene scambiato con Adrew Bogut per dare un po’ più di equilibrio alla squadra e soprattutto per favorire Curry (che i Bucks non considerano nella trade per problemi alle caviglie). Il privarsi di Ellis -che proprio nell’ulitma stagione aveva garantito oltre 21 punti a gara con percentuali vicine al 50%- non è stata una decisione indolore, particolarmente contestata anche dal pubblico di casa che non capì la cessione del loro idolo per avvantaggiare un ragazzino magro, basso e con costanti problemi alle caviglie (che porteranno GS ad un flop nel 2012, anno del lockout). Curry rifirma, sempre nel 2012 (4 anni a 44 mil) con mezza stampa statunitente che apostrofa con termini non gentili il management dei Warriors.
Il 2012 è l’anno finale della fondazione degli Warriors: in un solo draft arrivano Harrison Barnes (alla settima), Ezili (alla 30esima) e soprattutto Draymond Green chiamato alla…. trentacinquesima dal commissioner David Stern, vera ladrata di quell’anno. - 2013: è l’anno del ritorno ai playoff e della nascita del termine “Splash Brother”, ma i tempi non sono ancora maturi perché la loro avventura finisce con una prematura eliminazione per mano degli Spurs di Duncan-Ginobili-Parker. Nell’estate riescono a sopresa a portare ad Oakland Allen Iguodala (4 anni a 48 milioni) che garantisce un salto di qualità importante.
- 2013-14: La stagione regolare finisce con 51 vittorie ed una sesta posizione in un ovest complicatissimo. Altra uscita prematura contro i Clippers di Rivers, Paul, Griffin e Jordan che porta al licenziamento di Mark Jackson. Steve Kerr assume il comando delle operazioni.
- 2014-15: Sfiorano Kevin Love, che alla fine preferisce unirsi ai Cavaliers di Lebron James, mentre arriva Shaun Livingston a completare la rosa. Abbiamo gli Warriors da titolo che tutti conosciamo. Abbiamo la line-up da titolo che tutti impareremo a conoscere: Curry-Thompson-Bogut-Green-Barnes. In panca, fra gli altri, Iguodala, Livingston e David Lee. Da segnalare che tutto il quintetto è stato messo insieme solamente con le scelte al draft, l’unico arrivato via trade è Andrew Bogut.
Primo MVP di Stephen Curry con una monster season fatta da tonnellate di highlights, record di tiro stracciati sotto ogni categoria ed un incredibile record di 67-15. Nel 2015 arrivano in finale, completando un percorso fantastico di cui tutti sappiamo la fine. Il banner puntato da Joe Lacob nel 2010 non è più solo: inizia l’era Warriors.
Poi si che c’è la vendetta di Cleveland, la discussa free agency di Kevin Durant, gli altri due (probabilmente tre) anelli, e la firma di Cousins (che, giusto per ricordarlo, proprio questa estate è stato schifato da una serie di squadre, Pelicans e Lakers incluse), ma se ignorate il percorso, le sconfitte, la costruzione di e su certi giocatori, magari solo per ripetere a macchinetta “hanno un super team perché hanno aggiunto Durant” oppure “eh ma giocano con 5 all-star” secondo me o siete miopi (opinione personale) o sicuramente vi state perdendo quello che questa lega ha di più buono da offrire, cioè quella possibilità di costruire qualcosa di vincente anche partendo dal nulla, negli anni, con un lavoro paziente a cui si può assistere, che si può seguire, tifare.
Certo che solo il draft non basta quasi mai (un titolo loro l’hanno pur vinto e sono andati ad un passo dal secondo) e certo che l’aggiunta di Durant è stata fondamentale, ma c’è molto di più. La storia a leggerla bene ci dice molto di più.
Gli Warriors oggi sono un superteam perché se lo sono guadagnato. Perché hanno saputo creare una struttura condivisiva (fatta anche di rinunce salariali, di personalità e di numero di tiri a partita per far star insieme tutti nel giochino) a mio avviso percorrendo la strada più difficile al posto della furberia di scegliersi sempre il campo di gioco più fertile (fra pick nei draft e spazio salariale).
Io non tifo Warriors, sia ben chiaro, stravedo per gli Spurs da sempre ma, essendo un grande fan delle squadre e dei grandi club sportivi ho sempre strizzato l’occhio al progetto dei californiani.
Certo che non è l’unico modo di fare le cose e certo che funziona anche il modello “Lebron”: spostarsi ogni tot anni in una franchigia che sta andando male (vedi Miami dopo il titolo, vedi Cleveland dopo la sua partenza) ma che ha fatto stocking di giovani e spazio salariale (Cleveland con Irving e Wiggins ed i Lakers di Ball, Kuzma, Ingram) dove scelgo/importo i giocatori che vanno bene per il mio tipo di gioco, piallo a zero tutti gli assets, non faccio mai stagioni fallimentari, non ricostruisco mai, non faccio crescere dei giovani, mai, perché ho bisogno di giocare con veterani che sanno cosa fare e i miei tweet o le mie storie su Instagram hanno sempre la massima visibilità, sono sempre sulla cresta dell’onda perché alla fine magari non vinco, ma arrivo sempre in finale.
Funziona eh, solo che io questo approccio qui l’ho sempre trovato un po’ “furbetto” e, anche se le mie critiche sono volutamente provocatorie, trovo oggettivamente ingiusto mettere sullo stesso piano di chi invece ha scelto quella via tutta sconnessa in salita e senza cambiare casacche per arrivare ad eccellere.
Rimane una opinione, non un dato di fatto. Ma se la pensavate diversamente da me, e giustamente continuerete a farlo perché questi discorsi polarizzano fortemente tutti noi, se soltanto vi rimarrà il ricordo che c’era un momento in cui alla Oracle Arena la gente arrivava con la maglia di Monta Ellis per protestare contro l’aver tenuto Stephen Curry io il mio intento con questo articolo l’ho raggiunto.
Alla prossima:)
Ciao!
Bell’articolo, condivido praticamente tutto, non sono un grande fan dei GSW, ma quello che sono riusciti a creare negli ultimi anni merita veramente di essere celebrato, perché è un esempio di progettazione del futuro veramente da manuale.
Solo una cosa non condivido, quando parli della genesi dei superteam (non solo tu, ma in generale quando si parla dei superteam) e si fa risalire il tutto ai Boston Celtics di Pierce-Allen-Garnett. Non è vero, i superteam in NBA sono molto più vecchi, il primo superteam furono i Lakers di Chamberlain-Baylor-West creato per battere i Celtics di Bill Russell (team che come i GSW fu creato con enorme maestria) cosa che, tra l’altro, non riuscirono mai a fare. Inoltre la storia NBA è piena di superteam, basti pensare ai Rockets di Olajuwon-Drexler-Barkley o ai Bulls di Jordan-Pippen-Rodman, quindi secondo me dire che i superteam nascono così di recente è sbagliato, sono una costante nella storia e non sempre funzionano.
Premesso che chiunque impedisca al buzzurro di Akron di raggiungere il quarto titolo (già uno è courtesy of Popovich) merita lodi e apprezzamento… I celtici non avrebbero vinto l’ultimo titolo senza Rondo nel motore. Né Miami con Wade, Dallas con Nowitzki. Il draft è sempre fondamentale (anche in negativo quando si è incapaci, vedi Cleveland e Philadelphia).