A metà stagione i Miami Heat sono una squadra scostante e imprevedibile.
Un pessimo start col record di 7-13 verso la fine di Novembre è stato seguito da uno scatto d’orgoglio con 12 vittorie e 5 sconfitte superando per la prima volta il 50%. Recentemente però, un altro picco negativo è giunto con la disfatta di Atlanta, in un nuovo episodio del DWade’s Farewell, nel quale Vince Carter, Trae Young e un’intera arena hanno applaudito il super campione prossimo all’addio: certamente l’unica cosa da salvare della serata.
Dopo la buona prova casalinga coi Grizzlies il bilancio è 21-20. Essere in vetta della Southeast, nonostante tutta questa discontinuità, dimostra quanto questa Division sia nell’intero panorama NBA la più debole ed equilibrata.
Ciò ha permesso a Pat Riley di pianificare con calma anche questo campionato, come in realtà avviene da molti anni. Charlotte, Orlando, Atlanta e Wizards faticano infatti spesso a carburare fallendo le giuste acquisizioni e le scelte vantaggiose ai Draft che i loro mediocri piazzamenti permettono.
Quello in cui l’ancor giovane Erik Spoelstra è riuscito nel post LeBron, aiutato forse dall’ex guru dei Lakers, è stato trasformare un gruppo dal buon talento offensivo in un muro difensivo, sfruttando la velocità, il pressing e l’attitudine dei suoi a sporcarsi le mani e a sputare sangue in ogni match.
In situazioni di emergenza, come ad esempio nella vittoria di dicembre allo Staple Center con soli 8 uomini disponibili, si è puntato ad improvvisare delle marcature a zona, imbrigliando con successo una franchigia offensivamente profonda come i Clippers.
Così facendo, anche senza outstanding players si continua a navigare sopra il 50% con nove giocatori in doppia cifra lo scorso anno e otto quest’anno.
Forse l’abitudine a primeggiare ha però colto impreparato Riley. La sicurezza di raggiungere la postseason senza rinnovare e ringiovanire può provocare amare sorprese come l’imprevista crescita di altre contendenti (Hornets) o lasciare il proprio team ad un buon livello ma non eccelso creando malumori e nervosismo tra le stelle presenti per la mancanza di miglioramenti, progressioni e possibilità di emergere. Da qui i lanci di scarpe di Josh Richardson e i battibecchi con uscite anticipate dal parquet di Hassan Whiteside.
L’assestamento del dopo King James, a seguito di 30 sconfitte su 40 match, ha portato una striscia di risultati positivi grazie ai quali si è sfiorato un viaggio ai playoff due anni or sono e si è perso al primo turno nel 2017/18 contro i 76ers. Proprio Phila, rispetto agli Heat, è l’esempio oggi di chi è giunto dopo annate di “tanking” selvaggio a primeggiare per merito di un roster di stelle giovani sbocciate in casa (Embiid e Simmons) e profili MVP acquisiti per un buon spazio salariale e ottime contropartite tecniche (Butler per Saric e Covington).
A Miami invece, anche un cap colmo di contratti pesanti ha convinto l’executive a lasciare tutto invariato, sicuro lo stesso di confermare la postseason. Ciò che traspare ai nostri occhi è una squadra buona, ricca di qualità ma difficilmente migliorabile e, come rimarcato, col pericoloso vizietto della discontinuità e nervosismo.
Il fattore sfortuna inoltre sta giocando brutti scherzi. Goran Dragic, tornato dal 2017 ai livelli Suns, starà ancora fermo ai box per un tempo non quantificabile; per non parlare della fragilità di Dion Waiters, rientrato solo ad inizio Gennaio dopo aver saltato un’ottantina di partite in due anni e ancora non completamente dentro il “cerchio” di Spoelstra.
Gli stessi Justise Winslow e James Johnson non danno mai certezze a livello di integrità. In questa moria generale ne ha “approfittato” Josh Richardson, che al quarto anno e dopo aver guadagnato lo spot di ala piccola è stato impiegato molto spesso anche da 2: più di 18 punti, quasi 4 assist e 4 rimbalzi a partita sono le sue medie attuali, tutte ai massimi in carriera.
Una spiccata deconcentrazione e una mancanza di cattiveria nel già accennato start lasciano oggi la compagine della Florida distante dalla vetta dell’Est.
Alcune mosse societarie inoltre sono rimaste indigeste. Il quadriennale da 98/M a Whiteside nel 2016 e quello da 52 a Waiters non hanno trovato il riscontro atteso. Se il secondo si è arreso come detto agli infortuni, il primo divide la critica tra chi lo considera il futuro uomo franchigia e chi invece un bust!!
Le alte percentuali al tiro non ingannino visto che derivano da realizzazioni entroi tre metri grazie alla sua stazza con la quale riesce anche a catturare 13 rimbalzi e assestare due stoppate e mezzo a partita. Nonostante questo non ci sentiamo di definirlo un rim protector: la lentezza negli spostamenti laterali, le difficoltà nel marcare sui pick and roll e le infinite pause (con successive litigate col coach) non ne fanno un difensore elite. Il jumper non sembra ancora progredire e l’attacco lontano dal ferro stenta parecchio.
Il suo contratto scadrà nel 2020, così come per Kelly Olynyk e Richardson con più di 20/M di stipendio totali, nell’anno in cui avrà una team option James Johnson. L’altro Johnson, Tyler, andrà in scadenza come Dragic il prossimo anno con player option da 19/M. Situazioni delicate probabilmente già trattate ed immaginate ad inizio anno.
Sotto Pat Riley (dal 1995) la parola rebuild non è mai stata presa in considerazione, anzi il vanto è stato proprio quello di una mentalità propositiva a vincere e costruire sempre una squadra che proseguisse la corsa dopo la regular season. Solo in cinque occasioni sono mancati i playoff e in quattro si è andati sotto il 50% di vittorie. Con questa mentalità sono stati attratti negli anni free agent di lusso come James e Bosh.
Alla luce di tutto questo non ci sorprenderebbe se il decano NBA stia attendendo la fine del 2018/19 e la dipartita delle bandiere Wade e Haslem per andare poi a caccia nella prossima off season di qualche pezzo da novanta con il quale ricostituire un dominio totale.
Butler è stato atteso per tutta l’Estate prima di vederlo partire per Philadelphia ma voci di un rapporto non proprio idilliaco con Brett Brown per un gioco non consono alle sue caratteristiche – troppo movimento rispetto a pick and roll ed isolamenti – potrebbero riportarlo in auge. Inoltre John Wall e Anthony Davis sembra non disprezzerebbero un’esperienza in Florida.
Waiters, Whiteside, Dragic, JR#0, James Johnson e i giovani Winslow, Adebayo e Derrick Jones Jr rappresentano un alto numero di teste calde ricche però di enorme talento (chiedere ai Celtics di recente umiliati da una prova corale con quasi nove in doppia cifra) ma forse non più migliorabili, con anche Tyler Johnson, Rodney McGruder e Kelly Olnyk a mettere rapidità, fisico e a rendere profonde le rotazioni.
Tuttavia contratti esagerati per dei profili un po’ troppo presto considerati top player, lasciano ad oggi un payroll gonfio, un roster difettoso ma soprattutto nessuna superstar a dirigere le operazioni. Proprio per motivi economici l’unica merce di scambio potrebbe essere Richardson. Vedremmo come Riley uscirà dal (probabile) primo errore dirigenziale di tutta la carriera.
Chiudiamo con Wade, parlare del quale è superfluo, se non per ribadire la sua forza e serietà. Il pluricampione e leggenda ha deciso di rimanere per un’ultima avventura solo dopo aver appurato la sua integrità fisica e aver immaginato di non essere un peso per gli altri.
Detto fatto: il trentasettenne si ritrova ancora ai vertici realizzativi con 14 di media, 4 assist e 25 minuti a partita avendone disputate già più di 30 e non disdegnando soluzioni sulla sirena nei match punto a punto. E’ inoltre divenuto insieme a LeBron e Jordan uno dei 3 giocatori ad aver realizzato almeno 20000 punti, 5000 assist, 4000 rimbalzi, 1500 rubate, 800 stoppate e 500 triple in carriera.
Che dire: Grazie di tutto Flash!!
“Malato” di sport a stelle e strisce dagli anni 80! Folgorato dai Bills di Thurman Thomas e Jim Kelly, dal Run TMC e Kevin Johnson, dai lanci di Fernando Valenzuela e dal “fulmine finlandese”. Sfegatato Yankees, Packers, Ravens, Spurs e della tradizione canadese dell’hockey.