Il basket, visto davanti al televisore o dagli spalti di qualche palazzetto, diventa più complicato rispetto alla pallacanestro vissuta in prima persona, perché, quando manca quell’urgenza del fare che aiuta a smarrirsi nell’esecuzione dei gesti e degli schemi, c’è tutto il tempo per mettersi a filosofeggiare.
Sul parquet (oppure sul cemento o l’asfalto) vincere e perdere sono esperienze tangibili; parimenti dignitose, nulla hanno a che vedere con il prevalere di uno stile sull’altro o con la “narrativa” (che in fondo esisterebbe, in piccolo, anche nelle categorie minori: “noi siamo un gruppo talentuoso”, “noi siamo forti in difesa” e via dicendo).
Praticare sport può davvero essere una metafora della vita d’impareggiabile bellezza: uno spietato duello a somma zero dal sapore darwiniano, che pure, tra la palla a due e la sirena finale, lascia spazio alla bellezza dei gesti, al valore del gruppo, alla fiducia reciproca, alla sfida.
Se viceversa ci si limita a contemplare col cipiglio dell’esteta incontentabile, la mistica del Gioco s’allontana inesorabile; da concreto che era, il duello può ridursi ad una contrapposizione ideale, una guerra d’idee che non fa prigionieri, perché non si tratta più di “vedere chi vince”, ma di stabilire cos’è meglio e cos’è peggio, e se la realtà non ci soddisfa, beh, si può sempre accampare una vittoria morale!
Molti giornalisti, anziché spiegare gli avvenimenti, istigano gli appassionati a stabilire cosa debba essere in nome del click-baiting (con mille scuse a coach Kant). Anziché gustarsi il nuovo capitolo della carriera di LeBron James, già si deve “decidere” se ha fatto bene a indossare la casacca dei Los Angeles Lakers; nessuno sa cosa sia successo tra Kawhi Leonard e i San Antonio Spurs, però bisogna scrivere che qualcuno ha torto e qualcun’altro ragione.
In parte è sempre stato così: Magic Johnson divenne Tragic dopo aver perso una finale, e i “puristi” bollarono a lungo il basket di Michael Jordan come intrinsecamente perdente. Se non altro, ce la si prendeva con gli sconfitti: in questo lustro dominato dai Golden State Warriors, abbiamo invece visto fiorire una contro-cultura che accusa i Dubs d’essere causa di ogni male proprio perché vincono.
Si va dall’accusa d’aver rovinato l’NBA abusando del tiro da tre, all’esiziale colpa d’aver firmato Kevin Durant (cui si aggiunge DeMarcus Cousins) rendendo ingiocabile il campionato più bello del mondo, per chiudere con l’inevitabile chiosa sull’antipatia della franchigia della Baia.
Valutare il tiro da tre in termini puramente estetici è possibile solo ragionando da non addetti ai lavori; quando gli Spurs campioni del 2014 fecero incetta di complimenti per il loro splendido gioco, coach Pop si affrettò a riportare tutti sulla terra: San Antonio non era alla ricerca di un improbabile eden cestistico, ma solo di un basket efficiente, che in quel frangente, corrispondeva ad uno stile entusiasmante.
A causa delle regole vigenti e delle caratteristiche dei giocatori NBA, il tiro da tre è diventato una parte importante di ogni attacco ambizioso. Non è questione di forma, bensì di sostanza. Golden State non ha lanciato una moda, ha messo in campo un sistema offensivo tale da consentire ai Dubs di competere ai massimi livelli facendo leva sulle proprie caratteristiche.
L’ideatore di questa “motion offense” non è certo un sostenitore della prim’ora del run-and-gun; Steve Kerr si è abbeverato alla fonte di Phil Jackson prima e di Popovich poi, e da GM dei Phoenix Suns si trovò ai ferri corti con coach Mike D’Antoni, ma in seguito –anche grazie ad Alvin Gentry– l’ex guardia di Arizona imparò ad apprezzare la modernità di alcuni principi dantoniani.
Coniugandoli con le lezioni apprese da Tex Winter a Chicago, e da Pop all’ombra dell’Alamo, Steve Kerr trovò la chiave per magnificare il talento degli Splash Brothers attraverso un basket che valorizzasse i Bogut, gli Iguodala e i Green, che tiratori non sono e che nei Suns di D’Antoni avrebbero fatto fatica. Insomma, prendersela con le triple dei Dubs è come criticare i Bulls per le troppe schiacciate di Pippen e MJ: significa perdere di vista la meraviglia tecnica di un sistema offensivo e l’abilità del personale nell’eseguirlo.
Ed eccoci alla seconda grande critica, quella d’aver firmato Kevin Durant grazie al famoso meeting di East Hamptons. Chi scrive è un innamorato della prima ora di Russell Westbrook, inizialmente convinto che KD avesse sbagliato a lasciare l’Oklahoma per accasarsi in un club che non gli sarebbe mai appartenuto fino in fondo; i due anni trascorsi però hanno dato un altro senso alle parole con le quali l’ala da Washington si accomiatò dai Thunder.
Durant si è amalgamato alla perfezione in una pallacanestro di flusso, dominandola e mettendoci anche tanta difesa, un’operazione che richiede proprietà dei fondamentali e dell’aspetto mentale del Gioco che solo i grandissimi (e forse nemmeno tutti, vedi Wilt Chamberlain) posseggono. Intanto Sam Presti ha continuato a lavorare bene, e Westbrook si sta rivelando un giocatore sbalorditivo, attorno al quale è però difficile costruire, innamorato com’è delle proprie triple-doppie, costi quel che costi.
Un titolo vinto con i Thunder avrebbe avuto tutto un altro sapore rispetto a quelli conquistati coi Warriors, ma si può davvero fare una colpa a KD –uno che, peraltro, non si è mai lasciato andare a roboanti proclami circa la propria forza– se ha scelto di dire addio alla disfunzionalità di Westbrook in favore di un contesto con pochi eguali nella storia del Gioco?
Non è neppure vero che la Death-Lineup abbia ucciso la NBA; il dominio dei Warriors è netto se prendiamo in considerazione le Finali, ma allargando l’orizzonte ad ovest lo scenario cambia radicalmente. Quest’anno Houston era sembrata davvero pronta a scalzare Curry e compagni, e c’è voluto il solito infortunio di Chris Paul per cambiare l’inerzia di una serie comunque combattuta. Due anni fa, senza il piede malandrino di Zaza Pachulia, battere i San Antonio Spurs non sarebbe stato per nulla facile.
Insomma, il fatto che una franchigia riesca a ripetersi non è sintomo di mediocrità, quanto espressione di un’assoluta eccellenza: l’asticella per vincere l’anello di campioni è collocata molto in alto, e questo è un fatto positivo, perché costringe tutte le altre contender a lavorare per migliorarsi e crescere anche solo per tenere il passo, e vedremo se i Dubs riusciranno a metabolizzare anche DMC.
Cleveland non può essere il metro per giudicare il resto della NBA: pensiamo piuttosto ai Boston Celtics di Brad Stevens e Danny Ainge: un gruppo fantastico, giovane, talentuoso e allenato divinamente. Oppure pensiamo agli Houston Rockets di D’Antoni e soprattutto di Daryl Morey, che da anni coltiva una pallacanestro sabermetrica, avvicinandosi sempre di più al bersaglio grosso. I Lakers stanno per tornare, mentre gli Spurs hanno di fatto aggiunto DeRozan ad un gruppo da 47 vittorie in contumacia-Kawhi.
Zaza Pachulia (e la sua infausta connection con Leonard) consente di aprire il terzo grande capitolo della nostra disamina, ossia l’antipatia dei Dubs. Se c’è un aspetto dell’NBA dei vostri padri che possiamo certamente rimpiangere, è l’assenza di proteste che contraddistingueva questa lega fino a 10-15 anni fa, mentre oggi far scenate è diventato consuetudine.
Golden State non è certo un esempio virtuoso, basti pensare agli atteggiamenti di Draymond Green nei confronti degli arbitri, tra urlacci e gesti ai limiti dell’intimidazione, che però vanno tenuti ben separati da quel che fa nei confronti degli avversari, e che non sono certamente inediti, pensiamo ad esempio a Dennis Rodman o in generale ai Bad Boys di Detroit, oppure ai Knicks di Pat Riley.
Ci è capitato di recente di leggere che quei Pistons rappresentavano il riscatto e la rabbia di una comunità anziché la voglia di essere ostili, ma chi ha visto da vicino i gomiti di Bill Laimbeer o le porcherie di Mark Aguirre si sentirà autorizzato ad eccepire energicamente; anche facendo finta che i Bad Boys fossero “duri ma onesti”, è giusto ricordare che Green è un prodotto di quella medesima comunità (Flint, Michigan).
Aveva quindi ragione il venerabile Gregg Popovich quando si affrettò ad esecrare la sconcezza di Pachulia ai danni di Kawhi Leonard, ma siamo certi che a mente fredda l’ex agente della CIA avrà anche ricordato la propria strenua difesa –anche dinnanzi agli uffici della NBA– del pretoriano Bruce Bowen, che quella pratica (piede sotto al tiratore) l’ha sostanzialmente brevettata.
Fin qui abbiamo descritto comportamenti nei cui confronti la critica ha comunque diritto di cittadinanza, ma c’è anche chi ha trovato modo d’inarcare un sopracciglio quando Steve Kerr consegnò la lavagnetta a Andre Iguodala e Draymond Green contro quel che restava dei Phoenix Suns –peraltro felicissimi di perdere l’ennesima partita utile ad accaparrarsi DeAndre Ayton.
Kerr spiegò la scelta con l’esigenza di fare qualcosa di diverso per svegliare un gruppo che stava smettendo di ascoltarlo; insomma, un comportamento interpretato come irredimibile sintomo di tracotanza viceversa è emblematico di uno staff attento a restare sul pezzo, cercando motivazioni anche dove non è facilissimo trovarle.
D’altronde è stato frainteso persino il body-language di Stephen Curry, identico dai tempi di Davidson, quando esibiva il suo swagger per la gioia dei cinquemila fedeli della Belk Arena; negli anni dell’adorato Mark Jackson tanti pensavano che il figlio di Dell fosse scontento del coach proprio a causa di quel linguaggio del corpo che oggi è percepito come arrogante nei confronti degli avversari!
Che i campioni NBA non possano essere umili è cosa risaputa non da oggi, e, in fin dei conti, eccellere richiede una buona dose di fiducia nei propri mezzi, coniugata (giusto rimarcarlo) ad una salutare razione di rispetto per i propri rivali; a pensarci bene, l’atteggiamento di Draymond Green è la miglior riprova che le vittorie dei Warriors non sono facili e tantomeno già scritte.
Una stessa situazione può essere dipinta in modi opposti a seconda dei risultati: “Se perdiamo siamo vecchi, se vinciamo siamo esperti”, proferì un ispirato coach Pop. In fondo però, anche etichette frettolose ed esagerazioni fanno parte del meraviglioso circo chiamato NBA; l’importante è non dimenticare che l’ultima parola spetta al parquet!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Grande articolo. Concordo su tutto. Complimenti
bravo, gran bell’articolo.
…..and anyway….LET’S GO WARRIORS!!! :-)
Tifo a parte…ottimo articolo (come sempre)!
Articolo ben scritto e interessante. Mi stupisco spesso anche io di questo odio viscerale nei confronti dei Dubs: gli stessi che odiano Durant per la scelta fatta a suo tempo sono quelli che indossano la maglia di CR7 con le strisce di una squadra che ha vinto lo scudetto per 7 anni di fila. E sì che la Juve vince perché ha più soldi degli altri, mentre almeno il sistema NBA è strutturato in modo che tutti abbiano le stesse possibilità di accaparrarsi i giocatori migliori. Quante squadre potevano prendere DMC in questa FA? Eppure la colpa è di Myers che se l’è preso al minimo, e di Silver che ha permesso che tutto questo succedesse.. Via, se non è ipocrisia questa..
Uno spera di evitare la Rubentus almeno in un forum sul basket NBA e invece…
Scusate ragazzi, ma a mio modesto avviso non ha molto senso condivide il mio discorso sui Warriors, e poi fare l’esatto opposto quando si cambia sport, rifugiandosi nello stesso identico “odio immotivato” coltivato da quelli che “basta che non vinca Golden State”. My two cents.