Qualora un producer di hollywood stesse pensando ad un remake di “Groundhog Day”, mi sentirei di suggerire come location Toronto.
Già perché nella capitale dell’Ontario le ultime stagioni dei Raptors, come le giornate di Bill Murray nel film, sono inesorabilmente identiche, una dopo l’altra.
Dopo lo storico primo posto ad Est i Raptors hanno abbandonato gli ultimi playoff nel peggiore dei modi, “sweeppati” dai Cleveland Cavs senza combattere, da spettatori, proprio come chi da casa ammirava le magie di Lebron. La recente delusione è solo l’ultima del quinquennio con Derozan e Lowry in campo, Casey in panca e Ujiri in tribuna.
Ogni anno Toronto è stabilmente tra le prime quattro e altrettanto puntualmente incorre in post season deludenti caratterizzate da eliminazioni precoci e frustranti.
Si potrebbe ripercorrere quest’epopea nefasta partendo dal 2014, Raptors terzi in regular season, 49 vittorie dunque record per la franchigia (poi battuto e ribattuto negli anni seguenti), ma fuori al primo turno contro i Nets di Deron Williams con due match point falliti tra cui la gara 7 all’Air Canada Center.
Nel 2015 forse la figuraccia peggiore, nonostante il fattore campo a favore fuori 0-4 al primo turno contro Washington dopo una serie sostanzialmente non giocata e con un disastroso Kyle Lowry, da appena 12 punti di media, emblema assoluto di una squadra a due facce.
L’anno dopo le cose sembravano poter andare nel verso giusto, secondi in stagione regolare ad una sola vittoria dai Cavs e career high per media punti per Lowry e Demar Derozan. La post season però si rivela più complessa del previsto, i Raptors arrivano in finale di conference contro i soliti Cavs, sfiancati da due serie decise alla bella con Indiana Pacers e Miami Heat.
Dopo due brutte sconfitte a Cleveland, Toronto pareggia la serie sfruttando il fattore campo per poi crollare rovinosamente nelle due partite successive perse rispettivamente di 38 e di 26. E infine le ultime due stagioni, entrambe caratterizzate dallo stesso identico finale, entrambe chiuse in semifinale di conference, inermi sotto i colpi del Chosen One e dei suoi Cavs.
Risulta dunque evidente che i Raptors siano ben oltre i famigerati tre indizi che costituiscono una prova. I canadesi non sono in grado di percorrere lo step richiesto, anno dopo anno rimangono prigionieri come in una sorta di limbo nella loro mediocrità: buoni risultati in stagione regolare e brutte eliminazioni ai playoff, senza riuscire a costituirsi come una contender in grado perlomeno di rendere le cose difficili al Re della Eastern Conference.
Da Masai Ujiri, criticato dalla stampa ma ben saldo nel suo ruolo di plenipotenziario, era logico perciò attendersi un repulisti in questa off season e l’allontanamento di coach Casey sembrava rappresentare il primo passo per un deciso cambio di rotta per la franchigia canadese.
Tanto più che tra i nomi tirati in ballo per la successione vi erano Ettore Messina e Mike Budenholzer, allenatori capaci di dare da subito la propria impronta. Malgrado ciò alla discontinuità si è preferita la conservazione e la scelta di Ujiri è stata quella di promuovere Nick Nurse, assistente di Casey dal 2013.
Sia chiaro, nessuno vuole dare giudizi perentori a più di cento giorni dalla prima palla a due, ma di certo non si può negare che assumere il top assistant dell’allenatore appena licenziato non è propriamente un segnale di cambiamento per una franchigia che ha bisogno di aria nuova.
Per ciò che riguarda invece i potenziali sviluppi di mercato, a Toronto la situazione non è delle più agevoli. I Raptors non hanno i margini per aggiungere free agent in grado di imprimere la svolta di cui necessita la squadra né si trovano nelle condizioni di dover pensare ad un rebuilding pluriennale.
Ciò che appare palese è la necessita di voltare pagina, attuando scelte radicali ma senza buttare il bambino con l’acqua sporca e indebolire una franchigia che può comunque ricominciare da buone basi. Tutto molto semplice a parole, un po’ meno per chi dovrà prendere le decisioni.
Il cap di Toronto è oppresso da contratti pesanti: gli oltre 20 milioni di Ibaka, l’uomo che nei piani di Ujiri avrebbe dovuto aumentare la competitività di Toronto e che ha invece chiuso gli ultimi playoff con cifre sconfortanti (8,7 punti e 5,9 rimbalzi per partita); i 31 di un Kyle Lowry (quinto giocatore più pagato dell’intera NBA per la stagione 2018/2019) in palese declino che si trova in una condizione sostanziale di “untradability” e infine i 27 di Demar Derozan che però a differenza dei primi due potrebbe avere più di una pretendente interessata a scambiare per lui, ammesso che i Raptors intendano privarsene.
L’estate che doveva essere dei grossi cambiamenti, per tutta questa serie di motivi, potrebbe tutt’al più prevedere qualche aggiustamento per la franchigia canadese.
Una scelta percorribile, anche se complessa, potrebbe essere quella di seguire il percorso intrapreso un anno fa dai Pacers, che privandosi del proprio franchise player e trovando un inaspettato sostituto in Victor Oladipo hanno portato buoni risultati e nuova linfa alla franchigia.
E probabilmente è l’unica opzione realistica per la dirigenza per cambiare il volto della squadra in quanto sul piano dei giovani sebbene negli ultimi anni siano stati scelti discreti giocatori come Anunoby e Pascal Siakam, nessuno lascia presagire di poter essere nel giro di qualche stagione qualcosa in più che un affidabile role player e all’ultimo draft, privi di chiamate, i Raptors hanno fatto da spettatori.
Insomma, l’off season di Toronto sarà complicata e il front office dovrà lavorare sodo al fine di evitare di prendere la strada nefasta imboccata a suo tempo dai Grizzlies, che nel momento di voltare pagina, oberati da contratti pesanti e dalla mancanza di volontà di attuare un repulisti, si sono limitati a promuovere il vice allenatore senza grossi cambiamenti di roster con conseguenze che sono davanti agli occhi di tutti, ed allo stesso tempo togliere alla franchigia l’etichetta dei “Same Old Raptors” per non svegliarsi ancora una volta, come Bill Murray, nello stesso identico giorno della marmotta.
‘sta franchigia esiste solo per permettere a quell’imbecille di Drake di fare il cretino a bordocampo; dal punto di vista sportivo non ha altre funzioni