Sports Illustrated titola “Nobody needed another Warriors-Cavs Finals”, nessuno sentiva il bisogno di un’altra finale tra Warriors e Cavs, ma rendiamo giustizia alle proporzioni della storia: è la prima volta che due squadre si affrontano in quattro Finals consecutive, i Warriors stanno bagnando i piedi nell’idea di dinastia con la possibile terza vittoria in quattro tentativi, LeBron James – e di conseguenza i Cavs, ma solo in parte – una dinastia l’ha già avviata come sua ditta personale e giovedì notte disputerà le ottave Finals di fila. Tra i motivi per cui SI, e altri autorevoli commentatori, lamentano la ripetitività del confronto c’è il pronostico tutto sbilanciato verso la Bay Area, che rischia di compromettere lo spettacolo. Le quote di Las Vegas danno i Warriors favoriti 1/10 e i Cavs 6/1, un dato che non raggiungeva simili picchi da 16 anni. Tra gli analisti d’oltreoceano c’è accordo pressoché unanime sul risultato finale, con qualcuno a suggerire che i Warriors possano prendersela comoda e chiudere sul 4-1 col solo scopo di festeggiare l’anello alla Oracle Arena. Tracy McGrady sostiene che i Cavs non abbiano nemmeno una puncher’s chance di vincere: dal gergo pugilistico, è quella finestra che si apre quando sai di poter mettere KO l’avversario con il colpo della disperazione e l’aiuto della fortuna.

Eppure, di motivi per assistere a questa serie ce ne sono diversi, e anche per supporre che si possa spingere a 6 o persino 7 partite. Non dimentichiamo che LeBron James, come ha detto coach Tyronn Lue, si esalta quando si tratta di ribaltare pronostici negativi. È a suo agio nel ruolo di dominatore, ma forse la maschera di underdog definitivo gli è ancora più congeniale. Poche cose sono più pericolose di uomo che non ha nulla da perdere, e che peraltro è un uomo in missione. Quest’anno LeBron non ha davvero nulla di cui rimproverarsi e si è messo al sicuro da eventuali rancori qualora dovesse portare i propri talenti lontano da Cleveland. Per lui, comunque vada sarà un successo.

In casa Warriors la parola d’ordine è prudenza, e non è mera pretattica se i Curry e i Durant del caso si spendono in elogi per l’improbabile cavalcata dei Cavs e per la prestazione di LeBron James in gara 7 coi Celtics (Durant l’ha definita addirittura next-level basketball). Non più tardi di una settimana fa i Warriors venivano messi con le spalle al muro da Houston e coach Kerr ha sottolineato quanto le difficoltà abbiano motivato i suoi, ma al tempo stesso abbiano disperso quel clima rilassato, di totale sicurezza che si respirava nello spogliatoio da inizio anno. Più che il sollievo per lo scampato pericolo, c’è preoccupazione per il fatto che i Rockets hanno mostrato al mondo come battere Golden State, e altri concorrenti possono imitarne la ricetta. Si tratta di un modus operandi che Cleveland conosce bene, perché lo inaugurò nelle Finals 2015 costretta da cause di forza maggiore. Niente Love, niente Irving, Timofey Mozgov come partner d’attacco, eppure LeBron riuscì a impensierire Golden State molto più di quanto preventivabile manipolando la partita come lui sa fare: pochi passaggi, tanto isolamento, ritmo rallentato in attacco, difesa estremamente fisica a costo di accettare cambi rischiosi. Questi elementi sono il minimo comune denominatore tra i Rockets 2018, i Thunder 2016 e gli stessi Cavs in un paio di versioni delle Finals, tutte squadre che hanno messo alle strette i campioni in carica, perché i Warriors si esaltano quando possono fare il loro gioco e si disuniscono quando la circolazione del pallone si fa meno fluida. Nella serie coi Rockets il primo campanello d’allarme è suonato alla vista di Kevin Durant che si isolava in 1vs1, a fronte di schemi d’attacco che di colpo s’inceppavano. È un gran bell’accontentarsi, intendiamoci, anche perché Golden State accetta volentieri le forzature quando può alternare Durant, Curry e Thompson nel ruolo di offender; ma è ormai chiaro che disinnescando Draymond Green e limitando comprimari di lusso come Iguodala (ancora incerto il suo impiego) e Livingston il motore dei Warriors non va al massimo dei giri.

L’organico dei Cavs è senza dubbio più povero rispetto all’edizione 2016 e 2017, perché per scrivere questa preview non è sufficiente sostituire il nome di Kyrie Irving con quello di qualcun altro premendo ctrl+c e ctrl+v. Gli innesti della trade deadline hanno portato tanta energia e un po’ di sfacciataggine, ma l’impiego sempre più risicato di Nance, Clarkson e Hood dimostra quanto queste doti siano più utili per navigare a vista in regular season che per affrontare i playoff. Il problema di coach Lue è che i veterani viaggiano a corrente più alternata che mai. Più volte, in sede di analisi, si è detto che in ogni serie serve una partita da 25 punti di JR Smith per sparigliare le carte, ma ora il dubbio è che 3200 tattoos non l’abbia più nelle sue corde. Kyle Korver e Kevin Love (a rischio per gara 1) sono in fase calante, Tristan Thompson offre prestazioni schizofreniche e pare disinteressarsi, a tratti, del gioco della pallacanestro – nonostante l’aggiunta in corso d’opera di Kendrick Perkins per strigliarlo a dovere. Per arrivare alle note positive, guardiamo chi ha risposto presente alla chiamata di LeBron James in gara 7 coi Celtics. Jeff Green, per ampi sprazzi di carriera pericolosamente somigliante a un ex-giocatore, è tra i più motivati del gruppo e ha una bella storia personale – il recupero dall’operazione al cuore del 2012 – da portare alle Finals. Rappresenta il tipo di giocatore di cui i Cavs hanno bisogno per il matchup coi Warriors, quello che doveva essere Jae Crowder prima che lo spogliatoio implodesse: un difensore versatile a cavallo degli spot 3 e 4, abbastanza atletico da contestare Golden State nel gioco aereo e in grado di piazzare qualche tripla. Se riuscisse a disputare un paio di partite di alto livello i Cavs guadagnerebbero una nuova chiave di lettura per la serie. Un discorso simile vale per George Hill, anche lui sempre positivo quando si alza la posta in palio, netto upgrade difensivo rispetto a Kyrie Irving e discreto mastino da sguinzagliare su Steph Curry. Il fulcro della questione per Cleveland, ci siamo arrivati en passant, sta nella difesa. In attacco LeBron potrà beneficiare, paradossalmente, di un roster meno talentuoso: abbandonata l’idea fallimentare di sfidare i Warriors al loro gioco (vedere gli esiti degli shootout dell’anno scorso), si tratterà di vivisezionare la difesa come fatto nelle vittorie sui Celtics, con calma, centellinando ogni mismatch e tenendo lontane le mani dei Warriors dalle linee di passaggio semplicemente perché quei passaggi non ci sono (finora, nei playoff, il pace è fermo a 93,85). È la ricetta dei Rockets. Poi servirà che i compagni gettino un minimo di benzina sul fuoco, ne basta uno per volta, come Chris Paul e James Harden, e soprattutto che i tiratori convertano in triple gli scarichi – ma questo è un altro paio di maniche, perché più che della qualità del gioco le percentuali da tre parlano dell’aleatoreità di un sistema fondato sul tiro dalla distanza (it’s a make or miss league, sentiamo echeggiare a mo’ di cornacchia la voce di Jeff Van Gundy). Nella propria metà campo, dicevamo, Cleveland non può vantare un personale così qualificato come i Rockets. Non c’è un Capela a presidiare il pitturato, né un Tucker a sporcarsi le mani e né un Ariza ad agire da Durant-stopper. Certo, LeBron può potenzialmente svolgere questi tre ruoli insieme, e si alternerà verosimilmente nel cruciale single coverage di Draymond Green e Kevin Durant, ma col carico che deve sobbarcarsi in attacco (3.769 minuti giocati quest’anno e 36.2% di usage nei playoff) sarebbe impossibile spendersi al 100% in difesa. Le cifre di questi Cavs vanno prese con una generosa manciata di sale, perché stiamo parlando di una delle squadre più bipolari viste negli ultimi anni, ma sono tra le peggiori del lotto in termini di triple contestate agli avversari, per non parlare delle amnesie sui cambi difensivi che affiorano al minimo calo di concentrazione. Cleveland avrà le mani pienissime a cercare di contenere Golden State, che viceversa sparpaglierà i propri tiratori per allargare il campo a dismisura, lasciando poi Durant libero di pascolare. Questa è la loro ricetta, quella con cui ti martellano finché non cedi, e alla fine i Rockets si sono arresi per sfinimento: quelle 27 triple sbagliate in gara 7, più che dell’incapacità di eseguire sotto pressione, parlano della stanchezza maturata in fase difensiva che appesantiva le gambe.

Una prospettiva interessante vede Cleveland schierare LeBron come centro de facto, rinunciando a Thompson per schierare quattro tiratori. Con questa lineup Lue dovrebbe però nascondere una tassa difensiva come Korver o Love, a meno di rispolverare un Rodney Hood che però è scivolato fuori dalle rotazioni. Se Golden State vuole spuntarla senza patemi, magari in cinque partite come nei pronostici, dovrà evitare di specchiarsi nella propria bellezza e recuperare la fiducia di cui gode sul parquet amico, +16 abbondante di media in questi playoff, coi soliti straordinari exploit offensivi del terzo quarto. Steph Curry ha giocato una grandissima serie contro i Rockets, con letture sulla difesa sempre acute, e non ha motivo di temere i continui blocchi e isolamenti in cui lo coinvolgerà l’attacco Cavs – anche questo è parte della ricetta, così come seguire lo stesso Curry e Thompson anche a dieci metri dal canestro ostacolandoli con le cattive maniere. Per Steve Kerr non c’è ragione di ritoccare una macchina che funziona, anche se talvolta signifca cedere a Durant le chiavi e dargli licenza di schiacciare l’acceleratore. KD si è lentamente preso possesso della squadra: la morale delle Finals 2017 fu che semplicemente non era difendibile dai Cavs, e in 12 mesi le cose non sembrano essere cambiate. L’apporto dei comprimari, in verità, si è ridimensionato, a partire da Pachulia che ha salutato il quintetto in favore degli Hampton Five. Kerr dà molta fiducia ai suoi rookie Jordan Bell e Quinn Cook, ma non è un mistero che la quadratura del cerchio i Warriors la ottengano schierando Andre Iguodala e un suo recupero farebbe tutta la differenza del mondo: basti pensare che nelle ultime tre Finals il suo plus/minus segna +141/-68.

Cleveland e Golden State, atto quarto. Da una parte c’è la dinastia dei Warriors, appena cominciata secondo i loro piani. Il titolo in back to back sarebbe la pietra d’angolo su cui fondare un altro ciclo di dominazione, contratti permettendo, ma c’è Klay Thompson che si dichiara pronto ad accettare uno stipendio più basso del dovuto pur di mantenere il gruppo intatto. Dall’altra parte LeBron James e tutto ciò che gli orbita attorno, e scusate se sembra di fare facile mitologia, ma intorno a LeBron si respira l’aura di una leggenda che lui, quest’anno, si è davvero deciso a impersonare. Dal prescelto alla testimonianza, tutto nella sua parabola ha un sapore biblico, ma se configuriamo Warriors-Cavs come la sfida tra Davide e Golia, diciamo che di Davide con spalle così larghe se ne sono visti pochi. A LeBron James’ team is never desperate, ebbe a dire lui durante una corsa ai playoff di inizio carriera, e l’assioma rimane invariato. I Cavs non si dispereranno nemmeno quando Golden State li scaccerà dalla baia con un sonoro 2-0; allo stesso modo nemmeno chi assiste a una partita di LeBron James dovrebbe mai disperarsi, perché con lui in campo c’è sempre da covare il sospetto che un altro livello di pallacanestro si sveli, improvvisamente, possibile. Parliamo di qualcosa in più di un basket da fantascienza, però. Quello, i Warriors lo interpretano già da anni, come squadra prima che come singoli. Per il resto della lega è una distopia crudele, per loro un luminosissimo presente.

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