La serie tra Boston e Cleveland comincia domenica, ore 21.30 italiane sul parquet incrociato del Garden, ma i Celtics devono aver imparato a viaggiare nel tempo, come il Doctor Who o John Titor, perché loro, questa partita, l’hanno già vista: leggono in anticipo le scelte dell’attacco dei Cavs, un po’ asfittico a onor del vero, mentre col pallone in mano pescano sempre l’accoppiamento giusto per generare un vantaggio e muovere la difesa. Oppure, tramite qualche tecnica zen, hanno appreso come sdoppiarsi perché ad ogni azione sembra che le maglie bianche in campo siano almeno sei. Altre possibili spiegazioni le lascio alla fantasia di chi legge, ma soffermiamoci sulla prova dei fatti.

Il verdetto di gara 1 ci racconta che i Celtics sembrano possedere un sesto uomo perché, semplicemente, corrono più veloce degli avversari – e soprattutto, corrono verso i punti giusti. Spaziature corrette, fiducia nella difesa 1vs1 e rigorosa disciplina su raddoppi, cambi e rotazioni: così, anche un parquet allargato dalla batteria di tiratori in maglia Cavs può apparire improvvisamente un rettangolo angusto. Questa è la teoria, sulla quale senza dubbio il preparatissimo Stevens avrà passato notti insonni. Poi bisogna eseguire, ed è tutto un altro discorso, perché bisogna farlo per 48 minuti (è bastato un attimo di distrazione nel terzo quarto e Cleveland, senza neanche spingere sull’acceleratore, ha recuperato 10 punti), facendo i conti con la pressione di una gara 1 e con gli sfavori del pronostico. Qui entra in gioco un’altra dote di coach Stevens, una qualità più umana che tecnica: sa plasmare il materiale a propria disposizione in modo che i giocatori seguano i suoi dettami non per cieca devozione, ma perché li hanno compresi e incorporati nella loro idea di pallacanestro. Quando Boston gioca al 100%, è anche uno spettacolo per gli occhi, perché c’è un coach collettivo in campo. Al Horford è il più evidente, un’estensione di Stevens che incarna a tutti gli effetti un playmaker atipico, ma ciascun giocatore ha una percezione distinta di ciò che accade in campo. Se sbagliano, se ne accorgono e non ripetono l’errore. Se un compagno recita una battuta fuori dal copione, lo richiamano puntualmente nei ranghi.

C’è evidentemente un surplus di energia mentale in questi Celtics. Non si spiega, altrimenti, come abbiano innestato una marcia che il loro motore non dovrebbe possedere, proprio al termine di una regular season conclusa faticosamente e di una serie problematica coi Milwaukee Bucks. Spesso questo sovrappiù si traduce in una smania agonistica, quella che ti fa bruciare ogni risorsa in due partite di fuoco per poi cedere alla distanza, ed è un rischio serissimo contro questi Cavaliers, navigati e condotti dalla mano – che non trema mai – di King James. Per il momento ogni oncia di questa energia è stata invece livellata su un plateau di concentrazione massima. Da qui quelle letture di cui parlavamo a inizio articolo: sempre corrette, sempre rapidissime. Prendiamo qualche esempio – ma armiamoci di un pizzico di sale perché, come vedremo più avanti, l’opposizione dei Cavs non è stata un banco di prova dei più severi.

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Occasioni concesse in transizione a LeBron James? Io non ne ricordo. Specialmente in quella secondaria, dove è altrettanto pericoloso, il panorama che il Re si trovava davanti era così composto: cinque maglie bianche disposte a tenaglia intorno a lui, con un minimo buffer per non farsi battere sul primo passo, un comitato d’accoglienza nel pitturato e due ali pronte a intersecare la retta ipotetica che dalle mani di James conduce ai Korver, Hill, Clarkson, Hood, Love aperti sul perimetro. LeBron è un playmaker saggio e non cade in tentazione, ci si ferma e si attacca a difesa schierata. Da qui il ritmo basso imposto dai Celtics, e su cui i Cavs si sono fin troppo accomodati terminando con 83 punti.

Ma gli 83 punti sono anche figli di percentuali abissali. 31-86 da due, 4-26 da tre. Il dato è in parte incidentale. I Cavs hanno sbagliato molti tiri ben costruiti, tra cui alcune triple smarcate, mentre i Celtics in serata di grazia hanno convertito a canestro anche diversi tiri forzati – in particolare quelli di Morris e Smart, gli attaccanti più indisciplinati del lotto. Il passivo di 25 punti racconta forse una storia leggermente diversa dal reale, ma ciò non toglie che la difesa di Boston abbia operato a livelli altissimi, sia come scelte tattiche che come impegno. Puoi permetterti di subire gli 1vs1 di un attaccante decorato come Kevin Love, quando hai esterni (Smart, Brown) più che capaci di contenere un lungo in single coverage. La connessione per via aerea tra LeBron e Thompson è stata quasi sempre negata, intasando l’area, così come le incursioni dello stesso James limitato a un bottino di 15 punti da cambi difensivi sempre puntuali – anche qui, ed è una strategia mutuata dai Golden State Warriors, quando puoi permetterti di ruotare su James cinque giocatori senza soccombere mai a un mismatch palese, l’arma del pick ‘n roll finisce disinnescata perché raramente impone un raddoppio.

In attacco, altra dimostrazione di lucidità agonistica. Horford e Tatum affondano in 1vs1 appena si trovano davanti il marcatore più morbido (spesso si tratta di Kevin Love), mentre ci si astiene dall’affrontare direttamente James e George Hill – vedasi la prestazione di Terry Rozier, più ordinato e meno aggressivo del solito. Jaylen Brown era l’obiettivo principale degli scarichi, 3-5 dall’arco più un paio di penetrazioni per punire il close-out del difensore, ed è stato il catalizzatore di tutte quelle giocate d’impegno: rimbalzi in attacco, canestri sporchi, tagli nel pitturato. Con 23 punti è stato il miglior realizzatore. Lo segue a ruota Marcus Morris, 21 + 10: era partito celebrando la sua abilità difensiva su LeBron James, ma è andata a finire che nei primi minuti ha accumulato due falli proprio su James. Su di lui la difesa ha operato talmente tanti cambi che non si possono citare i meriti di un singolo, nel contenerlo, ma di certo Morris si è reso preziosissimo in attacco.

Sponda Cleveland, c’è molto su cui riflettere. Partita mai in discussione, salvo un timido accenno di rimonta nel terzo quarto, ma Boston ha sfiorato i trenta punti di vantaggio e non si è mai guardata indietro. Al di là delle cifre, l’atteggiamento dei Cavs è sembrato passivo. Da una parte, è un riconoscimento a quanto i Celtics hanno mostrato in questa post-season. Lue e LeBron, mi pare d’obbligo citarli come coach in tandem, si sono resi conto che la creatura di Stevens non è più la stessa che hanno affrontato – e battuto – in regular season. Sia perché, senza Irving, gli equilibri cambiano, sia per quello stato di lucidità agonistica di cui parlavamo. Prendiamoci del tempo per studiarli, questo è stato il loro approccio. Non giochiamo subito le nostre carte, pensiamo alle contromosse con calma. I Cavs sembrano scommettere sul fatto che questa sarà una serie lunga. LeBron vuole coinvolgere i compagni, a tratti ignora il risultato pur di insistere in quella direzione. Non preme mai quel famoso interruttore, non si impone sulla partita. Il suo problema è che nel supporting cast nessuno ha fornito risposte soddisfacenti, forse solo Kevin Love, e questa strategia paga solo se i compagni acquistano sicurezza. Da gara 2 servirà un atteggiamento più deciso – quando hanno provato a difendere, nel terzo quarto, i Cavs hanno subito ottenuto risultati – e qualche idea tattica differente. In particolare, un modo per rompere l’arrocco in cui i Celtics si chiudono quando James muove i suoi pezzi dalla punta. Qualsiasi cosa, qualsiasi strategia eversiva, pur di costringere Stevens a quintetti sub-ottimali: magari un Thompson che contrasti con l’atletismo la legge che Horford ha imposto nel pitturato, o un esterno più penetrante di JR Smith (Clarkson?) per scombinare le geometrie difensive creando altre linee di passaggio per LeBron. Intanto, in conferenza stampa, lui dice di avere zero level of concern. E c’è da credergli.

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