Nonostante sia seconda solo a Detroit nella lista delle grandi città più povere d’America (tra quelle con almeno 500.000 abitanti) Milwaukee sfugge allo stereotipo delle sonnolente metropoli del Midwest, come Cleveland o Pittsburgh, arrugginite dalla fuga all’estero delle grandi produzioni industriali.

Certo, l’economia locale ristagna, perché Miller e Harley Davidson da sole non bastano, ma tra musei, festival musicali nei numerosi parchi, e una solida tradizione velica, Milwaukee non è solo blue collar e anzi, questa roccaforte del Democratic Party per certi versi ricorda le città “alternative” per eccellenza: Portland e Seattle.

Sorta sulla foce di tre fiumi, Millioke (in lingua Algonquin significa “luogo di raccolta”, o “posto piacevole”) raccoglie insomma tutte le contraddizioni tipiche delle metropoli americane, divise tra pulsioni ambientaliste e innovazione da un lato, e povertà dall’altro, con il relativo corollario di violenza e criminalità.

È un destino che rispecchia quello della locale franchigia NBA, i Bucks, titolari di risultati sportivi mediocri, a dispetto delle –enormi– potenzialità del gruppo capitanato da Giannis Antetokounmpo- un gruppo dotato del potenziale necessario per trasformarsi nella Beast of the East del post-LeBron James.

Siamo però ancora distanti dai fasti degli anni ’70, quando alla mitica Mecca Arena impazzavano Oscar Robertson e Kareem Abdul Jabbar, i due artefici dell’unico titolo vinto dalla franchigia; l’inventore dello Sky Hook però era un figlio dei suoi tempi –inquieti e idealisti; non si trovava bene in Wisconsin e nel 1974 chiese al club una trade, indicando tre mete in ordine di preferenza: la natia New York, Washington, e la Los Angeles dei suoi Bruins.

La spuntarono gli L.A. Lakers con un pacchetto formato dal due volte All-Star Brian Winters, Elmore Smith, David Meyers e l’ottimo Junior Bridgeman, ponendo le fondamenta di quello che, con l’arrivo nel 1979 di Magic Johnson (recentemente multato per gli elogi rivolti a Giannis) sarebbe diventato lo squadrone dello Showtime.

I Bucks non hanno mai più conosciuto un periodo di splendore equiparabile a quel lustro, al netto delle belle stagioni di Sidney Moncrief e Terry Cummings negli anni ’80 e della Finale di Conference del 2001, quella dei Big Three (Ray Allen, Glen Robinson e Sam Cassell) precursori dello stile a base di esterni e tiro da tre che oggi la fa da padrone.

Emblema della franchigia intrappolata in un piccolo mercato, Milwaukee trovò la propria grande onda nel draft 2013, quando, con la quindicesima selezione, i Bucks portarono a casa il giocatore (nettamente) più forte di tutto il lotto, Giannis Antentokounmpo, all’epoca un “progetto” dall’upside indefinito.

Un anno più tardi il GM John Hammond scelse alla due Jabari Parker, ritenendo di costruire il roster attorno al talento di South Chicago, ma gli infortuni occorsi al figlio di Sonny Parker e l’impronosticabile esplosione dell’ala ateniese hanno stravolto i piani, collocando The Greek Freak al centro del progetto tecnico.

L’ex Filathlitikos (ma tifoso dell’Olympiakos) ha acceso gli entusiasmi con una stagione da urlo (27.1 punti di media, 4.8 assist e 10 rimbalzi col 53% dal campo) stemperata però dalle difficoltà di un gruppo alle prese con problemi tecnici e passaggi a vuoto tali da spingere il nuovo GM, il 34enne John Horst, a licenziare Jason Kidd (139 W e 152 L totali) quando il record della squadra era un insipido 23-22.

Il subentrante Joe Prunty (già assistente di Rick Carlisle e Gregg Popovich) non ha avuto fin qui miglior sorte di coach Kidd nel dirimere l’aggrovigliata matassa, motivo per cui i Milwaukee Bucks hanno continuato ad alternare grandi prove (specialmente contro le powehouse) e passaggi a vuoto giustificabili con la verde età del roster.

Per giunta, l’infortunio occorso a Malcolm Brogdon, l’innesto di Eric Bledsoe, il ritorno di Parker e l’addizione dei free agent Brandon Jennings e Shabazz Muhammad hanno stravolto lo spogliatoio, rendendo arduo soppesare la qualità del lavoro del neo Hall of Famer Kidd e quello di Prunty (suo assistente sin dai tempi dei Nets), entrambi condannati a veleggiare attorno alla settima-ottava piazza.

Il personale a disposizione è ideale per rubar palla sulle linee di passaggio e per cambiare a ripetizione, ma questo tipo di difesa (complicato da imparare, ma potenzialmente devastante) s’è visto ad intermittenza in ambedue le gestioni, indipendentemente dall’identità dei cinque giocatori schierati sul parquet.

Milwaukee è rimasta a galla grazie ad Antetokounmpo, che alle lunghe leve abbina ora la forza fisica necessaria per tener botta ai contatti (secondo l’assistente Frank Johnson, la sfida fisica lo diverte) trasformando The Greek Freak in un giocatore nord-sud creativo e difficilmente arginabile.
Oggi Giannis è in grado di aggredire dal palleggio ogni tipo di difensore:

https://youtu.be/DxHILtnYCvQ

Se il malcapitato prova a marcarlo standogli più vicino resta fulminato dalla falcata del greco,

https://youtu.be/-px44Q_lHyk

Ma restar lontano nel tentativo di contenere la penetrazione non sortisce risultati sensibilmente migliori

https://youtu.be/93eG6YRxt9M

Parliamo quindi di un attaccante che, pur minacciando sempre e solo il canestro in avvicinamento, rappresenta un dilemma insolubile per ogni difesa, quasi quanto Steph Curry o LeBron James; i suoi compagni però non ne approfittano come sarebbe lecito attendersi.

Giannis è un giocatore illegale su tutti i 30 metri di parquet; è a un jump-shot di distanza dalla più completa immarcabilità (per una volta, non si tratta di un’iperbole) ed è incredibile come i vari Middleton e Bledsoe sembrino giocare vicino lui, anziché con lui.

In questo senso il cambio in panchina non ha sortito effetto, e la rivoluzione iniziata con lo scambio Monroe-Bledsoe potrebbe continuare in estate; se però Milwaukee vuole evitare di cambiare tanto per farlo (infallibile sistema per peggiorare), occorre analizzare con grande attenzione l’attuale impasse.

A dispetto dell’atletismo diffuso e delle leve lunghe che avevano fatto esclamare “squadra del futuro” a tanti addetti ai lavori, Milwaukee si rivela un gruppo assolutamente nella media in tante categorie statistiche, a partire dalla difesa, elaborata dallo specialista Sean Sweeney e migliorata nella gestione di Joe Prunty.

Pur rubando 8,8 palloni ad allacciata (terzo dato NBA) e stoppando molto (5,4 a gara, quinto dato NBA) i Bucks sono soltanto diciottesimi per DefRtg (107,3), con un misero + 0,9 di NetRtg tra attacco e difesa. I loro avversari tirano con il 46,8% (ventunesimi) e Milwaukee difende maluccio anche da tre (37,3% concesso) oltre a concedere ben 23,7 tiri liberi di media.

Ci sono insomma mani veloci per rubare palloni, effettuare deflections e stoppate, ma allo stesso tempo, la difesa dei Bucks riesce ugualmente ad essere poco efficace: colpa degli errori individuali, ma anche di regole difensive che prevedono un sincronismo difficile da registrare in squadre così giovani.

Il miglior schieramento difensivo a disposizione di Prunty prevede Giannis, Bledsoe, Middleton, Henson e Brogdon; quest’unità vanta un DefRtg di 102,3, e un rating offensivo di dieci punti superiore nei 13,6 minuti d’impiego di media. Il secondo miglior quintetto è quello con l’ex Bulls Tony Snell al posto di Brogdon, con un DefRtg di 104,4 e un NetRtg di + 7,8.

È inevitabile notare l’assenza del nome di Jabari Parker da ambedue gli schieramenti più efficaci, un fatto che non stupisce chi ha seguito il ritorno dell’ala mormone dal secondo infortunio al legamento crociato anteriore. Dopo 30 partite l’ex Simeon High e Duke è ancora lontano dalla miglior condizione atletica, il che lo condiziona relativamente in attacco (dove se la cava di puro talento), ma diventa lampante nella metà campo difensiva.

Rifiutati i 54 milioni (in 3 anni) offerti in estate dai Bucks, Jabari ha scommesso sul proprio completo recupero in vista della free agency 2018. Ragazzo intelligente, dai molteplici interessi e coinvolto nel sociale, Parker riceverà quasi certamente offerte allettanti che non è così scontato Milwaukee decida di pareggiare, per evitare di ingolfare definitivamente il proprio monte salariale.

In questo senso, alcune cattive decisioni maturate sulla scia degli entusiasmi dettati dal nuovo CBA potrebbero produrre effetti esiziali; ci riferiamo naturalmente ai contratti di John Henson (cui spettano venti milioni mal contati per le prossime due stagioni), Matthew Della Vedova (grazie al magistero del suo agente Bill Duffy, prenderà 9,6 milioni fino al 2020) e Tony Snell (firmato l’estate scorsa con un quadriennale da 46 milioni).

Henson, Della Vedova e Snell sono ottimi giocatori di complemento, ma dai salari troppo gravosi per una franchigia cui manca una stella per completare il puzzle, e che oltretutto deve fare i conti anche con i contratti “spalmati” di Spencer Hawes, dello sfortunato Mirza Teletovic (per lui, problemi di embolia) e del’inimitabile (e speriamo inimitato) Larry Sanders.

Quello dei Bucks è un problema comune ai piccoli mercati NBA; anche Portland è stata costretta a strapagare Evan Turner, Mo Harkless, Meyers Leonard e Al-Farouq Aminu. Nondimeno, spendere tanto per giocatori di complemento costringe poi a rinunciare ad altre e più pregiate addizioni, che magari avrebbero interesse a giocare alla corte di McCollum e Lillard (o nel nostro caso, di Antetokounmpo).

Proprio a causa dell’ingarbugliata situazione salariale del club, c’è grande attenzione sul rendimento di Jabari Parker, ma non si può e non si deve dimenticare che ci vuole tempo per recuperare ritmo e condizione dopo un infortunio così grave, e che non si può chiedere a quest’ultimo scorcio di Regular Season di fornire una risposta definitiva sul suo valore in prospettiva.

I limiti difensivi di Parker vengono evidenziati al punto da metterne in ombra il cospicuo peso offensivo (con lui in campo, il pace offensivo sale da 97 a 100). Lungi dall’essere solo uno scorer dotato di centimetri, l’abilità nel passaggio fa di Jabari un perfetto “collante”, indispensabile in una franchigia i cui principali realizzatori tendono a concentrarsi sull’one-on-one.

In effetti solo il 58% dei canestri di Milwaukee sono assistiti, complice un sistema di gioco scolastico, che tende ad affidarsi alle doti del singolo palleggiatore per “far succedere cose”, ma che poi non ha le armi (leggi: tiro da fuori) per costringere la difesa a pagare le proprie scelte.

Il risultato è una produzione offensiva concentrata all’interno dell’arco (il 70% delle loro conclusioni è da due), specialmente al ferro, dove i Bucks finiscono con un buonissimo 59,8%. Il problema è che il loro gioco finisce lì, nel senso che gli scarichi sono troppo poco efficienti (sono 22esimi per percentuale da tre).

Attaccare così aiuta a perdere pochi palloni (sono decimi nel rapporto assist/turnover), ma ovviamente comporta prevedibilità; l’aspetto curioso è che –al netto di Eric Bledsoe– Giannis Antetokounmpo e soprattutto Khris Middleton sarebbero ideali per un basket di flusso, ma ai Bucks mancano le basi (uno spartito comune) e forse anche l’attitudine al gioco corale.

I pochi canestri dalla lunga distanza di Milwaukee sono quasi tutti assistiti (88,5%): quando una delle stelle attacca, la difesa non deve preoccuparsi di un tiro dalla lunga dal palleggio, come accade invece contro i già citati Lillard e McCollum, oppure con gli Splash Brothers, o ancora, con James Harden e il suo mortifero step-back.

Oltre ad aver strapagato diversi comprimari, Milwaukee non si è rivelata particolarmente abile (o fortunata) in sede di draft; Parker è stato scelto alla due, passando Joel Embiid (all’epoca, Milwaukee pensava di aver più bisogno di un esterno con punti nelle mani), Jusuf Nurkic, Dario Saric, Zach LaVine.

Damien Inglis e Johnny O’Bryant non hanno lasciato tracce, Rashad Vaughn (17esima selezione nel draft ’15) languiva in panchina vicino a D.J. Wilson, Thon Maker è un punto interrogativo, e non può bastare Malcolm Brogdon (scelto alla 36) a riscattare una serie di chiamate mediocri.

Brandon Jennings, Shabazz Muhammad, Sterling Brown (fratello di Shannon) e Tyler Zeller (scambiato con Vaughn) sono arrivati per provare a rimpolpare la rotazione, ma nessuno di loro è un “fit” perfetto, e tantomeno sono giocatori adatti a elevare la qualità di gioco della squadra, mentre Marshall Plumlee e Xavier Munford sono stati dirottati su contratti two-way.

A Minneapolis Muhammad era ostracizzato da Thibodeau e da quando si è trasferito in Wisconsin tira col 55% dal campo in 10 minuti d’impiego, ma l’ex UCLA resta il classico attaccante che esce dalla panchina per produrre punti, non certo un atleta “di sistema”. A 25 anni è ancora giovane e può diventare più affidabile, ma è l’ennesima scommessa in un roster bisognoso di certezze.

In ventottenne Jennings rientrava da un infortunio occorso durante la sua esperienza cinese con gli Shanxi Zhongyu, e dopo un passaggio in G-League è riuscito a convincere la franchigia che lo aveva scelto nel 2010 al punto da vedersi offrire un contratto pluriennale i cui dettagli non sono stati diffusi.

Zeller è arrivato per portare un po’ di solidità sotto le plance, dove l’altro Tar Heel, John Henson, stenta a prendere definitivamente il volo, e Maker resta un progetto in divenire. Il ventisettenne Henson è un lungo molto mobile, ideale per questo tipo di sistema difensivo, ma ha troppe pause mentali; andrebbe innescato meglio in attacco, e aiutato di più in difesa.

L’impressione è quella di una franchigia che non si sbilancia, in campo e fuori; arrivano veterani come Jason Terry e Della Vedova per puntellare il gruppo, atleti come Snell che aiutano in difesa, un play che domina la palla come Bledsoe, ma sia con Kidd che con Joe Prunty non c’è una visione chiara, e questo genera scelte di mercato che lasciano il tempo che trovano, indipendentemente dal valore individuale dei “pezzi” aggiunti al motore.

Salvo clamorose sorprese nei Playoffs, i giorni di Prunty sulla panchina dei Bucks sono contati, ma quel che più conta è come verrà individuato il nuovo head-coach. Gli Houston Rockets di Daryl Morey sono usciti dalla mediocrità con una scelta netta: hanno sposato fino in fondo il proprio credo sabermetrico, puntando forte su Mike D’Antoni.

Se i Bucks desiderano investire nel loro roster, dovrebbero puntare su un coach d’impronta difensiva, come Jeff Van Gundy, accostato a Milwaukee anche da Marc Stein sul NYT. Se invece il giovane GM Jon Horst desidera voltar pagina, dovrà farlo con nettezza e sarà necessario anche un pesante intervento sul roster.

La scelta peggiore sarebbe quella di consegnare questo gruppo ad un “grande nome” scelto a caso (Rick Pitino?) o attendersi miracoli da un allenatore tutto pace-and-space, come fece Dell Demps a New Orleans, quando pensò bastasse Alvin Gentry per dare un senso ad un roster inadatto a giocare sia il “7 seconds or less” che una Motion Offense.

Giannis ha solo 23 anni e sarà sotto contratto fino al 2021; per giunta si trova bene in una città di basso profilo come Milwaukee, e ha il doppio della personalità rispetto ad Anthony Davis o a Karl-Anthony Towns (nonostante l’anagrafe li separi di appena 11 mesi, sembrano ragazzi di due generazioni diverse), ma per i Bucks il momento della verità è già arrivato.

Saranno infatti le decisioni prese nei prossimi mesi a influenzare il futuro, quando Khris Middleton vorrà monetizzare il suo valore, e ci sarà da decidere se trattenere Eric Bledsoe. Al netto delle cattive scelte ereditate, i Bucks sono un gruppo giovane, senza contratti-albatros inamovibili.

Vantano un impianto d’allenamento nuovo di zecca, e al termine della stagione daranno l’addio al Bradley Center per trasferirsi nell’avveniristico Wisconsin Entertainment & Sports Center. Insomma, non ci sono scuse: almeno nel basket, Milwaukee ha tutte le carte in regola per emergere dalla mediocrità.

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