Trust the process

Tre semplici parole che, con le dovute sfumature, possono essere utilizzate in qualsiasi ambito. Politica, cucina, scuola, lavoro, sport e amore. In fondo il concetto non cambia: credi nel processo, prima o poi giunge a completamento.

Nella città dell’amore fraterno, da almeno tre anni a questa parte, non si spera in altro. All’inizio sembrava un modo simpatico e goliardico per descrivere la situazione di una squadra che per motivi extra-cestistici non aveva potuto fare altro se non rimandare l’atto di risurrezione della fenice.

Con il tempo, tuttavia, il motto coniato da Embiid si è trasformato in un marchio di riconoscibilità, acquisendo una risonanza mediatica globale, a tal punto che ad oggi i 76ers godono di una popolarità seconda, forse, solo a quella di Cavs e Warriors, benchè sul campo non abbiano ancora dimostrato nulla, per lo meno a livello di titoli.

Non sarà riuscito a convincere Rihanna ad uscire con lui, tutto sommato Joel Embiid è stato in grado di riaccendere la passione per la pallacanestro nei cuori dei tifosi di Philadelphia.

Al centro di tutto c’è sempre lui, il gigante buono nato a Yaoundé, Cameroon, perchè è lui l’inizio della storia del processo, una storia che parte da lontano.

È il 2014 quando, con la terza scelta assoluta, in Pennsylvania si aggiudicano il centro ex Jayhawks. Da allora in poi un’incredibile serie di infortuni che ha dato vita ai tre vocaboli più inflazionati del mondo NBA. Le prime due stagioni di professionismo Embiid non le gioca, nemmeno un singolo minuto, a causa di una doppia operazione al piede destro che lo tiene lontano dai parquet di tutta America per 24 mesi.

Nel 2016 è il turno di Ben Simmons, pescato alla prima chiamata. Altro snodo fondamentale, altra frattura, altri 365 giorni di rodaggio.

Infine, giugno 2017, ancora il draft, sempre Philly in testa al resto della lega. Questa volta si punta su Markelle Fultz, terzo e ultimo tassello, ennesimo motivo di incredulità per la gente di Philadelphia.

Tra detrattori, complottisti e medici il futuro della guardia proveniente da Wahington State è un mistero degno di una teoria di Adam Kadmon. Sono tante le versioni sopraggiunte in tal proposito. Secondo alcuni si tratta di un problema alla spalla provocato da un cambio forzato di meccanica di tiro, secondo altri la sua assenza è dovuta ad un eccesso di precauzione da parte dello staff bianco-rosso-blu visti i precedenti, poi c’è una minoranza rumorosa che vuole la dirigenza dei Sixers “nascondere” Fultz in quanto ritenuto tecnicamente e fisicamente inferiore rispetto alle aspettative. Ai box da inizio stagione, tornerà in tempo per l’off-season?

Sembra incredibile, eppure le ultime annate della franchigia di Bryan Colangelo hanno davvero assunto il carattere di un reale e graduale processo, scandito da rientri, posticipazioni e dita incrociate.

Embiid, Simmons e Fultz non hanno ancora avuto modo di giocare tutti e tre insieme, eccezion fatta per alcuni spezzoni di gara tra metà ottobre e inizio novembre. A distanza di un mese dallo start dei playoff la squadra allenata da Brett Brown è sesta ad est, in continua crescita. Fino a dove può arrivare Philadelphia?

Il record attuale recita 36-29, una manna dal cielo se di guarda al passato più o meno recente, quando il Wells Fargo Center è stato teatro di parecchie delusioni, specialmente nel 2015-2016, stagione in cui si è toccato il fondo con appena 9 vittorie su 82 partite.

Il 2017-2018 doveva rappresentare la svolta, il primo gradino nella scalata verso l’olimpo della lega. Siamo solo agli albori di una nuova era, ciò nonostante le idee sono chiare: difesa e attacco, senza distinzione di fase. Coach Brown ha dato un’impostazione precisa al suo gruppo, trasmettendo una filosofia di pallacanestro totale, una pallacanestro fatta di fisicità, tecnica, corsa,intensità e coralità.

I 76ers sono questo, un’orchestra in grado di far funzionare ogni singolo strumento in maniera ottimale. In tutte, o quasi, le classifiche inerenti alle statistiche il loro nome figura nella top 10, a dimostrazione di quanto scritto poc’anzi.

Sono la squadra che prende più rimbalzi (46.6), la terza migliore per numero di assist vincenti (25.7), la decima per punti segnati (107.9) e quella con il quinto miglior defensive rating, tanto per rendere l’idea.

A capo di questa macchina in costante miglioramento ci sono le due superstar già citate, Embiid e Simmons. Il primo è semplicemente prodigioso. Fino all’età di 16 anni non aveva mai visto né toccato un pallone da basket, amava il calcio, poi la svolta e l’incredibile ascesa.

È un centro con l’intelligenza da playmaker, le movenze e la leggiadria da guardia e la potenza fisica da lungo, un giocatore totale apparentemente privo di limiti, tanto offensivamente quanto difensivamente, perchè quando si tratta di proteggere la propria metà campo è fenomenale, grazie ad una stazza che che gli consente di arrivare dove altri non sono in grado e ad un livello di arguzia sopra la media. Se lui sta bene, i meccanismi funzionano alla perfezione, per quanto essa non esista. Il suo apporto numerico è determinante: 23 punti e 11 rimbalzi a serata.

Accanto a lui, il nativo di Melbourne, sicuramente il detentore di maggior talento all’interno del roster, l’altra eccezione che conferma la regola: non esistono più ruoli fissi.

E’ un play? Si. E’ un’ala? Anche. E’ una guardia? Affermativo.

Nonostante alcuni limiti tecnici a cui dovrà porre rimedio, ad esempio un tiro in sospensione lungi dall’essere suo alleato, vederlo in azione è una gioia per gli occhi e per il cuore. E’ lui a dirigere il gioco, ad impartire ordini, a prendersi le responsabilità quando conta.

Ben Simmons è il vero leader di questo gruppo, almeno dal punto di vista strettamente cestistico. La sua quasi tripla-doppia di media è eloquente (16.5/7.7/7.6), la prova vivente del suo impatto sui suoi compagni e, in generale, sull’NBA.

Un’orchestra con la O maiuscola, oltre due solisti campioni di incassi ha anche bisogno di un supporting cast funzionale. Redick, Covington e Saric sono la chiave del successo. L’ec Clippers e il ragazzo cresciuto tra le tigri di Tennessee State formano una coppia micidiale dall’arco, la cui funzione è implicitamente svelata dalla precedente affermazione.

Con l’aggiunta di Marco Belinelli il duo è improvvisamente diventato trio. Dario Saric, invece, è il jolly, la figura capace di fare di tutto e un po’, in maniera eccellente. Sa tirare, gioca in post, è un ottimo passatore e discreto difensore. Insomma, il concetto di collettività all’ennesima potenza, la ricetta per scalare la vetta.

Ci siamo. Il processo è in fase di conclusione. Manca ancora qualcosa? Probabilmente si. E se quel qualcosa fosse un qualcuno di ben preciso, un nome grosso?

Dalle parti di Philadelphia è lecito sognare, specialmente se in estate c’è un certo LeBron James in scadenza di contratto con i Cavs. Fantabasket? chissà. Nel frattempo, #TrustTheProcess

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