5 dicembre 2017, Toronto (Canada). I Toronto Raptors si giocano un match di dubbia importanza contro i Phoenix Suns. Il risultato finale sarà 113-126 per i padroni di casa, in una partita mai in discussione il cui climax si avrà a 5 minuti dal termine, quando la stellina ospite Devin Booker uscirà zoppicando a causa di un leggero stiramento.

In uno dei – molti – momenti morti è proprio Booker che, chiuso dall’austriaco Poetl, scarica ad una mano al compagno Len, lanciandolo al ferro verso un comodo terzo tempo.

Nello stesso momento, dal lato debole tutto vede Serge Ibaka la cui specialità è proprio l’aiuto dal lato debole, specie se condito con una sonante stoppata. Ed è questo il caso: il layup di Len si stampa sul manone di Ibaka che cade a terra e prima ancora di rialzarsi, scuote il dito verso il pubblico con un gesto che ha un nome: il finger wag.

https://www.youtube.com/watch?v=G9bdyj5zFVQ

L’inquadratura sfoca l’azione appena terminata e cerca nei posti d’onore dell’Air Canada Center un omone con gambe lunghissime che sta sorridendo, perchè sa che quel gesto gli è appena stato dedicato. E’ Dikembe Mutombo, colui che ha inventato il finger wag.

25 giugno di un periodo compreso fra 52 e 56 anni fa, Kinshasa (Repubblica del Congo)

Sull’anno di nascita di Mutombo non v’è certezza. Spesso gli sono stati attribuiti più anni rispetto a quelli segnati sulla carta d’identità, interrogativi che hanno colpito molti atleti africani che al momento dell’espatrio alla domanda: “Anni?” dell’incolpevole operatore di frontiera rispondevano in automatico: “18”, età minima per adottarsi le future responsabilità lavorative o sportive a seconda dei casi.

Fatta questa dovuta premessa, torniamo a quel 25 giugno tanto importante per la nostra storia.

Solo un mese e mezzo prima il neo presidente Mobutu, al potere da pochi mesi ma che passerà alla storia come terribile cleptocrate, aveva cambiato il nome della città Leopoldville, troppo straniero per i suoi gusti, rinominandola Kinshasa.

E’ quindi a Kinshasa che Biamba Marie e Samuel vivono nell’agio di una villa con sei stanze, eccezione in una città molto povera ed altrettanto criminosa, con sei figli in attesa del settimo, un maschio, che nascerà da lì a poche ore.

Mamma e papà non hanno dubbi sul nome da attribuire all’ultimo arrivato in casa: Dikembe Mutombo Mpolondo Mukamba Jean-Jacques Wamutombo.

Settimo di tredici figli, Dike cresce non tanto nel lusso e nella bambagia quanto nell’istruzione, nel rispetto e nella fede che gli vengono insegnati.

Si dedica prestissimo a calcio (suo vero feticcio) e alle arti marziali ma papà Samuel, un po’ perchè il basket è la sua passione, un po’ per i 210 centimetri del figlio quindicenne, lo sprona a provare anche la palla a spicchi. Col basket non è propriamente amore a prima vista: al primo allenamento Dike rimedia una gomitata e conseguente cicatrice sul mento e decide che non è lo sport che fa per lui. E’ solo grazie all’insistenza dei genitori che continua con gli allenamenti arrivando presto a vestire, insieme al fratello Ilo, la maglia della nazionale, che nel frattempo aveva cambiato nome in Zaire, a dimostrazione di una situazione non idilliaca del paese governato da Mobutu.

Il Mobutismo continuerà a mettere in ginocchio la nazione, sebbene la famiglia Mutombo riesca ancora a dar cibo ed istruzione ai propri figli. I sacrifici di papà e mamma permettono a Dikembe di finire per meriti sportivi sulle prime pagine del giornale locale, lo stesso giornale che l’ambasciatore americano Herman Henning – ex allenatore di basket – legge quotidianamente: le doti dell’atleta valgono bene una intercontinentale all’amico John Thompson, coach della prestigiosa università di Georgetown e un crescente interesse reciproco fra chi si frega le mani per avere un 218 centimetri in squadra e papà Samuel, che spera di mandare il figlio lontano dalla preoccupante situazione politica e finanziaria del fu Congo, sembra sancire l’inizio di una nuova vita per Dikembe.

Dike per quanto molto maturo per l’età, non sembra ancora cosciente del talento fisico a sua disposizione e questa incoscienza lo porterà sia ad impegnarsi al massimo negli studi (come forse un altro personaggio con lo stesso talento non avrebbe fatto), sia a riaprire la parentesi del calcio (come forse un altro personaggio con lo stesso talento non avrebbe fatto) come goalkeeper per la squadra universitaria. Questa volta è il tutore e futuro allenatore Thompson ad indirizzarlo sulla corretta strada della pallacanestro, di cui l’ateneo di Georgetown è fucina di campioni nel medesimo ruolo di Dikembe (Mourning, Irving, Hibbert) e non (ah già, Allen Iverson).

Si diploma in lingue (oggi ne conosce 9 compresi 5 dialetti africani) e diplomazia internazionale che non è male per uno che appena sbarcato in America conosceva a stento l’inglese.

Tre anni ed alcune interessanti leggende dopo (su tutte “Who wants to sex Mutombo?!” rumoreggia ancora nell’internet), Dikembe sarà pronto ed eleggibile per il modesto draft del 1991 nel quale verrà scelto alla quattro dai Denver Nuggets.

Il tempo darà ragione ai lungimiranti genitori nel forzare il figlio sulla via del basket e, negli anni a venire, la cicatrice rimediata quel primo allenamento sarà un piccolo lascito se paragonato a quelle che i suoi accuminati gomiti procureranno a tanti malcapitati avversari, fra un rimbalzo strappato ed un canestro negato.

La carriera

Da matricola accumula statistiche da 16.6 punti (career high), 12.3 rimbalzi e 3 stoppate in una sconquassata Denver e solo “Big L” Larry Johnson lo divide dal premio di rookie dell’anno.

La squadra, non che ci volesse molto, migliora di anno in anno, passando dalle 24 vittorie del ‘91-’92 alle 42 del ‘93-’94 che valgono i playoff, come vittima sacrificale dei fenomenali Seattle Supersonics, testa di serie guidata da Shawn Kemp e Gary Payton.

La serie concede nello stupore generale una immensa soddisfazione sportiva a Mutombo: i Nuggets sbancano Seattle in cinque gare con un Dikembe da 31 stoppate cumulative ed attore del clinic difensivo che passerà ai posteri del basket.

https://www.youtube.com/watch?v=h8-R3bBmhqU

I Robinson, Olajuwon, Mourning e Mutombo dell’epoca accinsero a piene mani dal gioco ricco di penetrazioni al ferro, su tutti proprio Mutombo che vince per 5 anni consecutivi la classifica stoppatori (dal ‘92 al ‘97) e per la prima volta il premio di Defensive Player of the Year (‘94-’95).

Nell’estate 1995 firma da free agent ad Atlanta dove vince altri due DPY e per la prima volta la classifica di miglior rimbalzista precedentemente monopolizzata da Dennis Rodman.

Nel 2000-01 ha la prima occasione di competere per il titolo: poco prima della tradeline viene ceduto a Philadelphia, interessata ad un centro che potesse competere con i pivot ad ovest. Vincerà il quarto DPY e la classifica rimbalzi per il secondo anno consecutivo.

I 76ers di Iverson e coach Brown arrivano ai playoff da testa di serie, battono Indiana 3-1 e Toronto e Milwaukee entrambe in 7 gare aggiudicandosi il titolo di conference. In finale affronteranno i Lakers di O’Neal e Kobe, reduci da un 11-0 che lasciava poco spazio alle cospirazioni al trono NBA.

Mutombo si batte con coraggio ma nulla può contro uno dei migliori centri di sempre al prime della condizione fisica. Tanto si è parlato dei movimenti di potenza di Shaq spesso ben oltre al limite del fallo offensivo ma la verità è che lo strapotere fisico del 34 gialloviola era impossibile da colmare.

Mutombo dal canto suo, ha dimostrato una perseveranza commovente nel porre ogni chilo del suo corpo fra Shaq e il canestro, in un disperato tentativo di compiere il miracolo. Philadelphia perderà la serie 4-1 e Mutombo chiuderà con 16.8 punti, 12.2 rimbalzi e 2.2 stoppate, uscendo in gara 5 fra gli applausi.

Un altro anno a Phila vale l’eliminazione al primo turno, quindi finisce nel New Jersey, ai Nets, a cui i 76ers avevano passato lo scettro di contender ad est. Lakers prima e San Antonio poi gli negano l’anello. Conclude la carriera a Houston, dove sorpassa Kareem Abdul Jabbar nella classifica stoppatori ed entra nella storia come unico giocatore a prendere 20 rimbalzi a 40 anni compiuti (o 44, che dir si voglia).

Dopo 18 stagioni è un infortunio al ginocchio a terminare la carriera di uno dei più longevi giocatori ad aver calcato il parquet. Nel 2015 viene introdotto nella Hall of Fame.

La sua maglia 55 verrà ritirata a Denver e ad Atlanta.

Nascita ed evoluzione del finger wag

Come per l’anno di nascita del suo creatore, non esiste una datazione precisa per la nascita del gesto reso celebre da Mutombo.

Si narra che qualche ditone l’avesse sventolato già ai tempi di Georgetown, allorchè in squadra con Alonzo Mourning formava un formidabile muro difensivo che fece istituire ai tifosi di casa la “Rejection Row”, una serie di manone cartonate appese nelle file in prossimità del canestro, rimpinzata dopo ogni stoppata rifilata dal duo agli avversari di turno.

Quello che sappiamo per certo è che ai tempi di Denver c’era il gesto del no fatto con la testa. Dikembe, non immune al fascino della visibilità mediatica prese a scuotere il dito dopo ogni diniego. “No, no, no” tuonava con voce rauca all’avversario di turno. Nelle interviste, se interpellato a riguardo ammoniva chi pensava di poter fare canestro nella sua area, la sua casa: “Men cannot fly in the House of Mutombo”, nessuno volava dalle sue parti.

Gli anni di un basket meno perimetrale e meno incentrato sul tiro da tre erano terreno fertile per un rim protector come Dike, che si trovò a ripetere il gesto con pericolosa frequenza. I commentatori lo rinominarono Mt. Mutombo, monte Mutombo, che per molti anni nessuno avrebbe scalato.

Dieci anni dopo, quando le cime del monte Mutombo stavano comunque perdendo d’impervietà, anche il gioco cambierà: il commissioner David Stern con una decisione che ancora oggi continua a sollevare perplessi, introduce il tecnico per taunting ed il ditone non è esente dalla neonata regola, che punisce ogni gesto ritenuto irrispettoso nei confronti dell’avversario. Da un campionato all’altro il finger wag comincia ad essere punito col tecnico, con stupore di giocatore, pubblico e commentatori ma – fatta la regola trovato l’inganno – si scopre che il taunting viene penalizzato solo se effettuato in faccia all’avversario, così Dike comincia a rivolgerlo verso il pubblico, che spesso applaude un guerriero ormai al tramonto della carriera.

Sono passati 27 anni dal primo dito sventolato sotto il naso dell’avversario, un gesto semplice ma longevo, proprio come il suo creatore. Chi ha ritenuto di subire una mancanza di rispetto non conosce Mutombo persona, che col rispetto ci è stato cresciuto e lo ha dimostrato nell’impegno, in campo e nella vita.

L’Uomo oltre al basket

Se dicessimo che Mutombo, professionista nella lega più competitiva del mondo, ha raggiunto traguardi umani più grandi rispetto a quelli sportivi non staremmo mentendo o esagerando. Certo non ha mai vinto un titolo, ma 4 DPY, 2 classifiche rimbalzisti, 5 classifiche stoppatori e 3 finali di conference rimangono un portfolio di tutto rispetto e riuscire ad ottenere successi maggiori nel campo umanitario sono segno di un dedizione notevole.

Non raramente Mutombo saltava le prime partite di preseason per sottoporsi a cure anti-malaria dopo aver passato l’estate nel paese natale, seguendo ed aiutando la costruzione dell’Ospedale Biamba Marie intitolato alla madre scomparsa e la Mutombo Foundation è ancora molto attiva nelle cause benefiche e nella raccolta fondi da destinare a cure mediche nelle zone più povere dell’Africa.

E’ proprio per il suo enorme impegno umanitario che fa scalpore la vicenda del 2012 che vede il suo nome avvicinato addirittura al contrabbando di oro: Mutombo avrebbe fatto da garante ad un magnate del petrolio texano per l’acquisto di 30 milioni di oro proveniente dalla madrepatria. L’esportazione di minerali in Congo è vietata da quando i cui loro proventi cominciarono a finire troppo spesso nelle tasche di gruppi armati di ribelli. Lo scambio venne bloccato dai militari ma quei 30 milioni non sono mai recuperati. Il magnate texano è ancora convinto che buona parte sia finita nelle tasche di Dikembe, che ovviamente nega.

Oggi lo potete ammirare, oltre che a bordo campo nelle partite di cartello, in alcuni spot pubblicitari, stoppatore di impiegati che cercano di fare canestro nel cestino dell’ufficio con la carta appallottolata. Con immancabile ditone, s’intende.

Una proiezione nel basket odierno

Ed ora una proiezione fantascientifica del fu Mount Mutombo nella mischia del basket odierno: che ruolo avrebbe? Con quali statistiche avrebbe chiuso un anno al suo prime fisico?

Non esiste un giocatore attualmente in circolazione comparabile a Mutombo ma se volessimo forzare un paragone potremmo dire che è un mix (prego, sedetevi) fra Joel Embiid e Bismark Byombo.

Di Embiid ha l’altezza (218 cm di DM contro i 213 di Joelone), la propensione alla stoppata e direi che ci fermiamo qui. Di Byombo ha la tecnica (anzi la non-tecnica) e il cuore di chi sa che deve sacrificarsi per la squadra. Ne risulta un personaggio scomodo in mezzo all’area, capace di limitare i centri che fanno del rimbalzo offensivo la loro arma principale (Jordan, Drummond, Howard, Capela) a cui negherebbe appunto il rimbalzo, ma farebbe il suo anche con lunghi più perimetrali (Cousins, Embiid, Towns, Jokic), costretti al tiro da fuori perchè Mutombo era ottimo difensore sia in post basso sia sulla partenza in palleggio.

Embiid, Cousins e Towns avrebbero di che twittare dopo uno scontro diretto con lui, che tutto era fuorchè morbido e una gomitata a rimbalzo non si è mai tirato indietro dal darla.

Le stoppate di questi tempi sono meno abituali e se è vero che al secondo posto nella classifica blocks c’è un’ala (Durant), non serve aggiungere molto altro per capire quanta acqua sia passata sotto i ponti dai tempi dei Robinson, Mourning e Olajuwon. Chiuderebbe la regular season a 3 stoppate di media.

Nella metà campo offensiva mancherebbe di dinamismo sul pick and roll col quale anche Drummond-Howard-Jordan riescono a mettere ventelli e a parte qualche eccezione, verosimilmente chiuderebbe a massimo 12 punti a partita, frutto più che altro di rimbalzi offensivi e chiusure sbagliate del suo marcatore diretto.

13-15 sarebbe invece il bottino delle carambole recuperate: il vuoto difensivo è probabilmente la costante in 20 anni di pallacanestro in cui è cambiata la modalità di tiro, corsa e difesa ma per quanto riguarda il rimbalzo, Rodman a parte che era 30 anni avanti, poco s’è innovato.

Facendo due passi indietro e osservando la totalità delle cose, non sono sicuro che oggi il numero 55 possa portare un maggior numero di vittorie rispetto a quelle che porterebbe un DeAndre Jordan: in una finale di conference nulla potrebbe contro le sporadiche penetrazioni a difesa schierata di Golden State e porterebbe due, massimo tre vittorie in una serie contro Cleveland ed il suo Re. Ancora poco se volessimo portare il congolese al suo primo anello.

House of Mutombo

Ma per quanto ha mostrato in 18 onoratissimi anni di carriera, la verità è che non stiamo parlando di un giocatore da titolo. Nemmeno al suo prime fisico e mai e poi mai in un gioco che velocizza di draft in draft.

Stiamo piuttosto parlando di un personaggio che si è reso celebre grazie all’impegno fuori dal rettangolo di gioco e ad un gesto indissolubile passato alla storia.

Un gesto di cui siamo a parlare ancora oggi che spero verrà ricordato, in un acuto di hipsterismo vintage o come diavolo si chiamerà, anche fra 10, 20 o 30 anni.

Sogno un futuro in cui un ragazzino si domanderà perchè JaMario Embiid, figlio dell’HOF Joel e di una vecchia stella pop (Rhianna, crede di aver letto da qualche parte), chiamato alla 5 al draft 2040, dopo una sonora stoppata ha scosso il dito verso il pubblico in visibilio. Filmerà col suo iPhone XXI il gesto e la ricerca Shazam Video mostrerà foto e filmati – in una qualità orripilante a dire il vero – ma abbastanza nitidi per farlo interessare alla persona che inventò quel gesto.

E scoprirà che tutto ebbe inizio molti anni prima, ai tempi in cui nessun uomo poteva volare nella House of Mutombo.

2 thoughts on “Mutombo, il finger wag ed i tempi moderni

  1. Gran bell’articolo, in realtà ci sarebbe un giocatore che ricalca molto bene il profilo di Mutombo, Walter Tavares. Venne scelto al draft 2014 dagli Atlanta Hawks che però lo fecero giocare molto poco (infatti non ricordo di averlo mai visto in campo con la loro maglia) facendolo spesso giocare in D-League. Successivamente venne preso dai Cavs che lo fece esordire in una partita di playoffs (è qui che scoprii della sua esistenza…) in cui rifilò 6 stoppate e 10 rimbalzi ( se volete vederlo all’opera in quella partita https://www.youtube.com/watch?v=NjkIOVGEA3Q). Successivamente venne tagliato, non so per quale motivo, ed ora gioca al Real Madrid.
    Detto questo penso che ora un giocatore simile ai Cavs possa far comodo, ma ormai è andato. Anche entrando dalla panchina fornisce rimbalzi e difesa nel pitturato e considerando che non tutti sono Curry che tira con percentuali assurde da lontano, un giocatore simile ti aiuta molto contro le penetrazioni, con i rimbalzi (anche offensivi) e tiene a bada tutti quei centri che non sono dei fenomeni con i movimenti sotto canestro. Considerando anche la panchina Cavs in cui spiccano i nomi di Wade e Rose, un giocatore simile aiuterebbe molto “aprendo gli spazi” con il fisico e permettendo quindi a questi giocatori penetrazioni “facili” senza che nessun centro possa andare in aiuto e stoppare.

    • Tavares me lo ricordo, anche a me aveva stupito soprattutto perchè 10r e 6s li aveva messi insieme solo nel secondo tempo. Mi ricordavo si chiamasse Edy, ma sto scoprendo che Walter era il vero nome. Credo che poi non se ne sia più fatto niente per problemi fisici. Oltre alle braccia più lunghe della lega potrebbe spodestare anche Giannis per le mani più grandi: https://twitter.com/BR_NBA/status/913129868715528192/photo/1 . Veramente notevole.

      Detto questo sì, Tavares si presta assolutamente al paragone!

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