In questo articolo cercherò di mediare tra le impressioni personali di una partita NBA vista dal vivo, con tutte le emozioni che comporta, e l’analisi di quanto mostrato in campo dalle due squadre. La sfida di Londra è stata infatti un banco di prova importante per Celtics e Sixers, con le dichiarazioni dei protagonisti in sala stampa che ci permettono di tirare le somme.
Il London Game 2018 però ha funzionato principalmente come una finestra NBA aperta sull’Europa, con tantissimi italiani presenti. Mai come in questo caso sarà opportuno provare a coinvolgere nell’esperienza quelli che, tra di voi, non sono riusciti ad accaparrarsi un biglietto, insieme a video e immagini condivise in diretta da Londra: vi invitiamo a recuperarle sulle nostre pagine Facebook e Twitter, se già non le avete viste.
Partiamo proprio dal succo dell’esperienza, l’atmosfera. La O2 Arena apre le porte a spettatori e stampa circa due ore prima dell’inizio della partita, e il colpo d’occhio è subito impressionante. Il bordo campo si affolla di reporter che parlano ogni lingua d’Europa, con cameramen e fotografi costretti a triangolazioni e incastri per trovare la giusta inquadratura. Intanto gli spalti si riempiono velocemente e dipingono il quadro di un’autentica festa dello sport.
Le maglie dei Celtics sono in maggioranza, specialmente quella di Kyrie Irving presa d’assalto nei negozi, ma le macchie verdi si mescolano a quelle blu senza soluzione di continuità, con occasionali punteggiature di rosso: il vinaccia dei Cleveland Cavaliers e l’intramontabile divisa Bulls col nome di Michael Jordan. L’NBA spinge per un collegamento con il Regno Unito per ovvie ragioni politiche e logistiche, ma a Londra e dintorni l’amore per la pallacanestro non è certo di quelli trascinanti.
Tra il pubblico è facile distinguere delegazioni italiane, tra le più irresistibilmente chiassose, francesi, spagnole, e in minoranza anche qualche avventuroso da Germania ed est Europa. Gli oltre diciottomila posti a sedere della O2 Arena sono stati dichiarati sold out nel giro di poche ore, e non si fatica a crederlo: qualche seggiolino vuoto però resta nei settori centrali, quelli col peggior rapporto tra visibilità e prezzo, segno che la vendita secondaria ha fruttato meno del previsto.
Basta osservare il riscaldamento da bordo campo per apprezzare la personalità dei giocatori che sale alla ribalta. Marcus Smart è in canotta iper-aderente, forse per sfoggiare il fisico su cui ha lavorato in off-season. Offre un sorriso a tutti mentre ripassa il tiro da tre insieme alle riserve Shane Larkin e Daniel Theis, e si mette in posa per i fotografi.
Jayson Tatum ha l’atteggiamento del veterano, sia sul parquet che fuori. Finito di riscaldarsi non corre negli spogliatoi ma resta a bazzicare nei dintorni della panchina, rilassato. Fa pubbliche relazioni col personale dell’arena e con gli avversari, in particolare scambia un caloroso saluto con Markelle Fultz, e sorvola col dovuto distacco sulle richieste dei tifosi nelle prime file.
Anche Kyrie Irving si lascia desiderare. Arriva tardi, è concentratissimo e silenzioso, nel suo mondo. Lavora minuziosamente sui layup con la mano mancina, poi prepara i tiri dal palleggio. Al Horford passa quasi tutto il tempo in panchina, a studiare video degli avversari insieme ai coach.
Tra i Sixers, manco a dirlo il mattatore è Joel Embiid. Ci vuole mezz’ora di massaggi per attivarlo, come fosse un cyborg un po’ arrugginito, ma poi conquista il centro del campo con movimenti in post e tiri da media e lunga distanza, con rilascio dolcissimo. Concede qualche scherzo al pubblico, improvvisa un balletto, e accetta di buon grado il catechismo di Dikembe Mutombo, anche lui presente all’arena. L’impressione immediata però è che la schiena sia piuttosto rigida, con qualche acciacco fisico che lo condiziona, e infatti la sua partita comincerà al rallentatore.
Lo stesso Embiid, in conferenza stampa, ammetterà che non si sentiva in forma e ha fatto fatica a calarsi nel ritmo della gara: quando non si diverte e subentra la frustrazione, ha detto, non riesce nemmeno a far divertire il pubblico. Il suo dispiacere è reale, specialmente se confrontato con l’entusiasmo mostrato alla vigilia all’idea di rappresentare il volto internazionale dell’NBA fuori dai confini americani. In realtà Embiid ha disputato una partita tutt’altro che disprezzabile, ma su di lui torneremo in seguito.
Ben Simmons, invece, è all about business. Sessione di allenamento particolarmente lunga per lui, con picchi di una certa intensità. Tanta attenzione rivolta alle giocate in post basso, da concludere con schiacciate o ganci con entrambe le mani; proprio con questo tipo di soluzioni l’australiano ha dominato il primo quarto di gioco. Non ha invece proposto, ma questa è ormai una consuetudine, tiri dal palleggio dalla media distanza. Ci ha lavorato con cura nel prepartita, tuttavia, e con buoni risultati.
A sentire coach Brett Brown in conferenza stampa, l’evoluzione del gioiellino dei Sixers passa obbligatoriamente da questo fondamentale e si aspetta risultati a breve termine, per poi concentrarsi sull’occasionale tiro da tre.
Osservandolo dal vivo, è ancora più impressionante come Simmons risulti efficace in attacco pur non minacciando mai il tiro fuori dal pitturato. Vive nel buffer di due metri che gli lascia il difensore, per poi sfidarlo in post basso: da lì serve i compagni, perchè è davvero evidente quanto sia un pass first player, oppure si libera con un vasto repertorio di trucchi in palleggio.
La tendenza a sparire dalla partita, già osservata nel corso della stagione, tuttavia rimane. Coach Stevens l’ha disinnescato quando ha deciso di trattarlo a tutti gli effetti come un lungo, assegnandogli Al Horford in marcatura diretta, e quando Simmons perde il suo atteggiamento propositivo l’attacco dei Sixers cala di ritmo: finisce per affidarsi, per inerzia, unicamente agli 1vs1 di Embiid.
Una nota a parte la spendiamo per Markelle Fultz. La prima scelta assoluta dell’ultimo draft è apparsa a suo agio, con un ambiente rilassato al suo intorno, ma vedendolo lavorare in riscaldamento nutriamo qualche dubbio su quanto affermato dallo staff medico dei Sixers, ossia che il suo infortunio alla spalla è superato e il ritorno sul parquet imminente.
Fultz si è allenato a lungo su tiri liberi e jumper, mai oltre la linea da tre punti, mostrando però uno stile macchinoso e scarsa fiducia nei movimenti. Ci sono apprezzabili passi avanti rispetto al disastroso inizio di stagione, quando nascondendo i guai fisici aveva finito per non sollevare più il braccio, ma restano progressi da fare per recuperare il tiratore esplosivo dell’unico anno di college a Washington. Sulla situazione di Fultz, poco chiara fin dalla pre-season, non si diradano ancora le nebbie.
Alla squadra servirebbe proprio un’iniezione di fiducia su questo fronte, per superare un finale di 2017 ricco di sconfitte e pareggiare l’hype intorno a una stagione che era, invece, cominciata col botto.
Questa introduzione vi avrà già dato un’idea di quanto accaduto nei 48 minuti di gioco. Philadelphia parte fortissima sull’asse Simmons-Reddick, con quest’ultimo che sembra avere un conto in sospeso con Marcus Smart. I due si scambiano colpi duri, parole poco gentili e un paio di flop, e Reddick finirà top scorer dei suoi grazie alla serie di triple mandate a bersaglio proprio nel primo quarto.
Dall’altro lato del parquet Brett Brown presenta una difesa aggressiva che coglie di sopresa i Celtics, un po’ pigri in uscita dai blocchi come altre volte in stagione. Jaylen Brown si fida troppo del proprio palleggio in spazi stretti e pasticcia, perdendo il pallone, mentre Irving non trova margine per mettersi al lavoro. Per Philadelphia, portano il proprio mattoncino anche seconde linee come TJ McConnell, in movimento perpetuo, e il ruvido Richaun Holmes. Più che apprezzabile la bravura di Brett Brown nel valorizzare un roster non eccelso, che può finalmente godere del centro di gravità offerto da un floor general come Simmons.
Il momento più difficile del match Boston lo supera nel secondo quarto, quando comincia a rimontare il divario di 22 punti grazie più a prodezze individuali che a giocate di squadra. Irving si sblocca con un tiro in avvitamento e un paio di triple dal palleggio, Jaylen Brown si esalta dall’arco e fa la differenza con quelle hustle plays che tanto piacciono agli allenatori, tra recuperi in difesa e rimbalzi offensivi.
Quanto lo stile in campo del collega Jayson Tatum è silenzioso – su di lui spenderemo più parole a breve -, tanto invece è appariscente quello di Brown. Vederlo dal vivo conferma l’idea che avevo maturato su di lui: è un raro esempio di giocatore al contempo fisico e cerebrale, che necessita di comprendere al meglio ogni virgola di quel che accade in partita, comprese le proprie capacità tecniche, per rendere al 100%. Gran parte del merito nel breakthrough year che sta vivendo credo vada assegnata a Brad Stevens, coach semplicemente perfetto per gestire una personalità così complessa – che alcuni reputerebbero ingombrante.
Con Boston che guadagna l’inerzia in apertura di terzo quarto, per i Sixers è tempo di affidarsi a Joel Embiid. Il camerunense, come accennato, gioca una partita contro se stesso prima che contro gli avversari: alla sirena una doppia doppia da 15+10 con 5 assist di contorno, ma anche 17 tentativi al tiro. In conferenza stampa si lamenterà, velatamente, di non essersi sentito a proprio agio con le scelte tattiche di coach e compagni, e in effetti si è osservata una sterzata nel rendimento dei Sixers tra primo e secondo tempo; per dare a Cesare quel che è di Cesare, però, la difesa dei Celtics ha contribuito limitando Simmons e tenendo a bada i tiratori (solo 2-8 dal campo per l’altro cecchino Covington).
Quando infine si scalda, Embiid dà spettacolo. Una tripla dalla mattonella centrale, una stoppata poderosa, deliziosi canestri in post e una schiacciata spettacolare che non finisce negli highlights perché fuori tempo massimo. I suoi sforzi galvanizzano compagni e pubblico, fino a quel momento schierato in maggioranza per Boston: i cori “MVP” che accompagnavano i viaggi di Kyrie Irving in lunetta ora sottolineano con “Trust the process” tutti i possessi palla di Embiid. Sugli spalti della O2 Arena si respira infatti quel clima tennistico in cui il tifo si sposta verso la squadra in svantaggio, nella speranza di un finale infuocato: questa volta, non arriverà.
Ciò che colpisce in Joel Embiid è l’intelligenza che mostra sul parquet. Le sue scelte rispettano un codice preciso. Prima di attaccare a testa bassa in 1vs1 saggia la resistenza dell’avversario, e affonda il colpo solo quando a marcarlo ci sono difensori più morbidi. Senza palla si muove senza sprecare un briciolo di energia, guadagna la posizione più profonda possibile e non indugia nello scoccare il tiro quando gli lasciano spazio.
Se raddoppiato, cerca subito con lo sguardo gli scarichi a cui è abituato: l’alto-basso con Simmons o le uscite dai blocchi sul perimetro. Se colleziona palle perse, 4 nella serata di Londra, è perché Brett Brown gli affida grosse responsabilità e in certi frangenti deve prendersi sulle spalle l’attacco, specialmente nei finali di partita. Notevole è anche la sua parabola di apprendimento su certe questioni che esulano dall’aspetto tecnico della pallacanestro. Costretto a fare i conti con un fisico potente ma poco affidabile, nel giro di un anno ha maturato l’approccio di un veterano.
Non si butta su ogni pallone come nella stagione da rookie, non cerca la schiacciata o la stoppata ad ogni azione. In difesa si limita a presidiare l’area, e si fa un po’ pigro di piedi quando chiamato ad allontanarsi dal pitturato, per poi cambiare marcia solo se strettamente necessario. Cerca di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, e col minimo rischio per le ginocchia – un po’ come un Tim Duncan a fine carriera, ma con la possibilità di ergersi su picchi di rendimento ben più alti.
Nel secondo tempo, comunque, i protagonisti sono i Celtics. Mentre Philadelphia mostra i propri limiti di squadra a trazione anteriore, Boston continua a lavorare ai fianchi con un’ossessiva ricerca dello spacing, perseguita con un ottimo movimento del pallone.
Per mantere una simile costanza di rendimento Brad Stevens ha bisogno di forze fresche e spalma il minutaggio attingendo al supporting cast; menzione speciale per il tedesco Theis, solido e sempre coinvolto negli schemi, mentre l’esuberanza atletica di Rozier e Smart gode del contesto adatto per fiorire. Solo Kyrie Irving ha licenza di inventare dal palleggio, infatti gli 1vs1 in allontanamento di Marcus Morris suonano come stonature, ma fruttano un paio di canestri ad alto coefficiente di difficoltà.
Per il resto, con Al Horford a operare da autentico playmaker del gruppo – è lui a chiamare gli schemi, spesso e volentieri – gli uomini di Stevens guadagnano tiri facili. Jayson Tatum entra nel match giusto in tempo per firmare l’allungo decisivo; fino a quel momento sembrava in ombra, ma poi ti accorgi che il suo tabellino è ricco e le sue scelte quasi sempre corrette. Va specificato che le sue prestazioni, a differenza del collega rookie Simmons, sono agevolate da un sistema ben congegnato che gli permette di lavorare da attore non protagonista: da parte sua c’è la notevole personalità nell’imporsi quando si decide il risultato del match.
Insomma, i 48 minuti passano in un attimo, anche grazie allo spettacolo che l’NBA sa offrire agli appassionati: per non deludere i football fanatics inglesi ci sono giocatori di calcio coinvolti negli intermezzi a bordocampo, e ti ritrovi a fare il tifo persino per la mascotte Lucky e gli schiacciatori sui trampolini elastici. Boston esce dal confronto con una vittoria da grande squadra, quelle che riesci a sgraffignare in rimonta pur partendo col piede sbagliato, mentre Philadelphia dà prova di tutto il suo potenziale inespresso.
Nel post-partita, l’intervento più interessante ed elaborato lo offre Kyrie Irving, che si presenta al microfono con la calma di un guru – anche il look trasandato aiuta, in questo senso. Spiega nel dettaglio che i Celtics prendono molto sul serio il record registrato finora e la possibile leadership della Eastern Conference, si sentono pronti per vincere il titolo da subito.
Forte della sua esperienza, sarà suo compito aiutare i compagni a comprendere che è necessario crescere di partita in partita quando si fa parte di un gruppo nuovo, vivendo nel presente e superando le avversità nel momento in cui si palesano. In particolare, il suo obiettivo è già puntato sui playoff: da aprile a giugno l’importanza di questo aspetto è ingigantito e ogni sfida sarà un’opportunità da cogliere per imparare qualcosa di nuovo su loro stessi.
Ascoltate le parole dei protagonisti, è tempo di mischiarsi a quel fiume multi-etnico in transumanza dalle linee della metropolitana verso i pub del centro. Ripenso agli italiani che salgono sul treno sbagliato, ai londinesi che restano fino all’ultimo sugli spalti della O2 soltanto per scattare una foto ai calciatori, al boato tributato dai tifosi a Dikembe Mutombo, a Brian Scalabrine che scavalca le prime file per concedersi ai selfie dei fan, alle canotte di Celtics e Sixers schierate una di fianco all’altra in qualsiasi settore dell’arena si posasse lo sguardo.
Solo in secondo luogo penso alle triple di Irving, alle schiacciate di Jaylen Brown, alle scorribande di Ben Simmons e ai ganci di Embiid. Fa tutto parte dello spettacolo che, per una notte, l’NBA ha offerto all’Europa. In attesa della prossima, questo è il il racconto che Play.it offre per voi, da appassionati a appassionati.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.
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