Coi super-team si vince? Secondo gli esempi più recenti la risposta è sì: i Celtics dei big three, gli Heat di James, Wade e Bosh, gli attuali Cavs e Warriors da tre Finals consecutive, e per finire l’accoppiata Harden-Paul che macina successi a Houston.
Gli Oklahoma City Thunder versione 2017/2018 sono la nota stonata nello spartito, come predicavano gli analisti più menagrami alla chiusura del mercato estivo: basterà un solo pallone per accontentare Westbrook, Paul George e Carmelo Anthony?
I primi due mesi di stagione regolare hanno mostrato tutti i limiti di una squadra costruita più sulla carta che sul campo, con una partenza negativa – condita da sonore sconfitte contro le ultime della classe – che ne ridimensionava le ambizioni.
Da metà dicembre, però, c’è qualcosa di nuovo sotto il sole. Sei vittorie consecutive che proiettano i Thunder al record di 20-15, più che sufficiente per addentrarsi nella zona playoff, con statistiche in rialzo e prestazioni individuali degne di nota. Cerchiamo di capire cosa è cambiato.
Non era un mistero che mettere insieme tre giocatori abituati a schemi di isolamento, saldamente nella top ten della lega in questo tipo di situazioni, avrebbe prodotto un attacco farraginoso. Mentre coach Billy Donovan studiava il modo più democratico per dividere i possessi tra le sue star, le percentuali dal campo colavano a picco.
L’attacco dei Thunder, seppure in risalita, è attualmente il diciannovesimo della lega per punti a partita, quattordicesimo per offensive rating, ventiquattresimo per assist e ultimo per passaggi totali.
Dati in controtendenza rispetto alle squadre che dominano le classifiche con fasi offensive rapide e ad alta efficacia. Da una parte i Thunder possono vantare finalizzatori di prima classe, in grado di prevalere da soli su difese organizzate, ma dall’altra pagano la mancanza di comprimari capaci di convertire in canestri facili, magari dall’arco, tutta l’attenzione che gli avversari rivolgono ai big three.
Non dimentichiamo che per arrivare a George e Anthony, Sam Presti ha messo la firma su due trade 2×1, intaccando qualità e lunghezza della panchina. Josh Huestis, Alex Abrines e Jerami Grant sono in crescita ma non ancora interpreti affidabili, mentre il veterano Raymond Felton è alle ultime cartucce e James Patterson, arma tattica intrigante, trova poco spazio.
Il Westbrook di novembre è apparso poi più schizofrenico del solito. A una tripla doppia seguiva una prestazione anemica, e così via, senza soluzione di continuità.
I teorici del Westbrook-buco nero acquistavano ottimi supporti alle loro argomentazioni, anche alla luce della sorprendente crescita di Victor Oladipo e Domantas Sabonis lontani da Oklahoma City: in difficoltà quando si tratta di variare ritmo e adattarsi ai compagni, Russell dà il suo meglio quando accentra il pallino del gioco e maschera le modeste percentuali con un alto volume di tiri. Il pace basso, numero ventiquattro della lega, non lo aiuta.
In tutto questo, con un Paul George altalenante ma coinvolto nel progetto (è primo nella lega per palle rubate), il grosso delle critiche pioveva su Carmelo Anthony. Relegato spesso al ruolo di spot-up shooter, impreciso quando prendeva l’iniziativa, apparentemente svogliato in difesa: e sì che anche lui aveva investito molto nel progetto, tagliando i ponti con una New York che vanta tutt’altre attrattive rispetto all’Oklahoma.
Le voci che suggerivano un suo ingresso dalla panchina, quelle a cui in pre-season aveva risposto così, ci hanno messo poco a risollevarsi. Un general manager, mantenendosi anonimo, ha dichiarato quello che in tanti stavano pensando: i Thunder sarebbero andati meglio con Westbrook, George più qualche altro buon giocatore.
Un altro dato rilevante è che, nelle vittorie più convincenti, i Thunder finivano per giocare in maniera simile all’anno scorso, con gli assist di Westbrook a premiare i movimenti sotto canestro di Steven Adams (27 punti col 100% dal campo contro Minnesota, quota 20 sfondata in altre quattro occasioni).
Cosa c’è di diverso, da metà dicembre? Carmelo Anthony l’ha spiegato in un’intervista dove al posto del consueto cappuccio sfoggia un fedora nero. “Russell Westbrook is most effective when not deferring”. Se ne sono resi conto e lo stanno assecondando, lasciandolo libero di dare ritmo al gioco, anche prendendosi più possessi e più tiri, quelli a cui è abituato, come il midrange jumper dal gomito destro.
Just play, dice ancora Anthony. Pochi giorni da questo cambio di paradigma e Westbrook è già tornato in odore della tripla doppia di media: mancano all’appello solo un paio di decimi nei rimbalzi. Oklahoma City attacca con più energia e segna di più, 124 punti rifilati agli ottimi Raptors.
Carmelo Anthony resta nel quintetto base e si sta sforzando di diventare il tiratore di cui i Thunder hanno bisogno. George, nel frattempo, sostiene di essersi infine ambientato in Oklahoma dopo aver trovato il giusto laghetto dove consumare la sua pluriennale passione per la pesca.
Comune denominatore tra i due volti dei Thunder 2017/2018 è la difesa. Terzi per punti concessi agli avversari e quinti per defensive rating, gli uomini di Billy Donovan hanno dalla loro stazza e atletismo superiori alla media, col solito jolly Andre Roberson da schierare sul miglior marcatore avversario e il monolitico Steven Adams, in continua crescita al quinto anno nella lega, come àncora nel pitturato: suo è anche il primato nei rimbalzi offensivi, assai notevole se consideriamo che il fondamentale sta scomparendo (la stagione attuale ha la media più bassa di sempre, 9.6 a partita) in favore di attacchi ipercinetici.
E’ questo il punto più interessante in vista di un’ipotetica avventura ai playoff dei Thunder. Costruiti per battere Golden State, si è capito che il talento individuale non basta a emulare la fluidità del gioco dei campioni in carica.
Abbandonato l’intento di superarli sul loro stesso terreno, come provano invece a fare Cleveland e Houston, si fa strada l’idea di contenerli in difesa, imbrigliarli su ritmi lenti spostando l’azione vicino a canestro. George, Anthony e Adams compongono una frontline duttile e molto fisica, proprio quella che può dare fastidio ai Warriors: per quel che può contare una partita di regular season, il 22 novembre i Thunder si sono portati a casa il primo confronto stagionale contenendo Golden State a 91 punti segnati.
Il guanto di sfida è lanciato; con un paio di mesi di ritardo, alle chiacchiere stanno facendo seguito i fatti. Sarà bene riservarsi un giudizio intorno a metà stagione, però, per capire se i Thunder hanno davvero invertito la rotta o hanno semplicemente imbeccato un periodo d’oro.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.