Se alla passione per la pallacanestro coniugate quella per le serie televisive, i Toronto Raptors sono la squadra che fa per voi.
Cosa c’entrano, però, le due parti? Perchè mai la franchigia canadese dovrebbe avere a che fare con il cinema del piccolo schermo?
All’Air Canada Center, any given basketball night, il momento dell’intro del roster di casa è preceduto da un video molto significativo.
La città oltre il confine appare sdoppiata, affiancata da una sua ricostruzione capovolta, popolata da temibili creature. Si tratta dell’Upside Down, realtà parallela di Stranger Things, all’interno della quale mostri dall’aspetto inquietante minacciano di invadere il vero pianeta.
Ad accompagnare le immagini, la sigla della serie che ha fatto urlare al capolavoro.
Ora, con le dovute precauzioni, occorre addentrarsi tra i meandri del sottosopra di Toronto, alla scoperta del nuovo volto dei suoi abitanti.
Le stagioni passano, le abitudini restano le stesse. Nella storia della NBA diverse sono state le squadre in grado di erigere una cultura di gioco da tramandare ai posteri, una dinastia.
I San Antonio Spurs sono l’esempio sotto gli occhi di tutti, ad oggi ancora vivente. I Bulls di Jordan hanno dominato la lega per un decennio, i Golden State Warriors degli ultimi tempi rimarranno negli annali, rappresentando un futuro modello da seguire, benchè inimitabile.
Altre franchigie hanno intrapreso questo cammino, ponendo le basi per un successo prossimo: i Rockets di D’Antoni e i Celtics di Stevens. Infine, i Toronto Raptors, oggetto del nostro discorso.
Orgoglio di una nazione intera, quella che porta una foglia d’acero sulla bandiera, il gruppo allenato da coach Casey è riuscito ad uscire dall’anonimato dopo anni di appannamento, prendendosi le luci della ribalta e portando avanti un progetto convincente ma, per il momento, non vincente, se analizzato in una logica strettamente collegata al concetto di Finals NBA e Larry O’Brien Trophy, con tanto di anello annesso.
A noi, però, non interessa. Quel che attira la nostra attenzione è il lavoro svolto dal capo allenatore ex T’Wolves e dal general manager Masai Ujiri, capaci di risollevare le sorti di una franchigia caduta nell’anonimato in seguito all’addio di Chris Bosh, ponendo in essere una nuova era, targata dal sodalizio Lowry-DeRozan.
Dal 2014 in poi in Raptors hanno centrato i playoff per tre stagioni consecutive, concludendo la regular season sempre tra i primi quattro posti ad est. L’ostacolo post-season è stato superato in parte, vuoi per dei limiti propri del roster, vuoi per la netta superiorità degli avversari affrontati, come i Cavs, giustizieri di Toronto nelle due edizioni passate.
Insomma, l’evidenza non inganna. Il miglioramento è stato continuo, sintomo di un’identità ritrovata, costruita su misura per la coppia più amata di Canada. Tanti pick and roll, poche transizioni, ancor meno tiri dal perimetro. Uno stile di gioco che predilige ritmi bassi e tiri dalla media distanza, presi in quantità dalla guardia ex USC, tanto vintage quanto poco moderno.
L’estate appena trascorsa, tuttavia, ha rappresentato uno snodo fondamentale nel prosieguo di questa storia. La domanda sulla bocca di tutti era la stessa: il ciclo può ancora essere funzionale?
Dopo parecchi dubbi e diversi interrogativi, la risposta è stata un sì deciso, almeno sulla carta, almeno nei pensieri della dirigenza. Qualcosa, tutto sommato, ha preso una svolta. Occorreva spingere l’asticella più in alto, rinnovare un’immagine da tempo rimasta intonsa.
Le certezze in questa vita sono poche, forse nulle, a meno che il discorso non viri sull’aritmetica. I numeri non mentono. La nuova versione dei Toronto Raptors è la gemella diversa di quelle precedenti.
La media punti messa a referto nelle prime ventotto partite corrisponde ad un altisonante 110.9, che tradotto significa quarto posto generale dietro a Warriors, Cavaliers e Houston.
Il motivo è presto reso noto. La precisione è aumentata, 48.1 %, così come l’attitudine a tirare da dietro l’arco, la vera rivoluzione attuata da Dwane Casey. Se fino a poco tempo fa il nome Raptors appariva in fondo a qualsiasi classifica inerente al tiro da 3 , questi primi mesi di stagione ci hanno detto chiaramente che la musica è cambiata.
Le triple tentate a serata sono 31.5, più di Curry and company, quelle messe a referto 11.1, cifre spaventose se confrontate con quelle anteriori ( 24.3 e 8.8, traducendole secondo l’ordine precedentemente indicato).
Non a caso è stato prelevato da Indiana CJ Miles, veterano della specialità, il cui compito è quello di lanciare verso canestro qualsiasi cosa capiti tra la sue mani, purchè ci siano almeno 7,25 metri di distanza tra lui e il ferro. DeRozan sta prendendo lezioni, Lowry conosce i trucchi del mestiere, Ibaka non si è mai tirato indietro.
Altro dato mostruoso concerne il numero di assist per partita: 23, alias top ten della lega. È così eclatante come sembra?
Assolutamente sì. Al termine delle 82 partite della scorsa regular season erano 18.5, sinonimo di un’ultima, triste piazza. La palla nelle mani della guardia californiana rimane molti meno secondi, velocizzando la manovra offensiva, con ottimi risultati, nonostante rimanga tanto su cui lavorare.
È evidente, l’abito dei Toronto Raptors è nuovo di zecca, ragion per cui qualcuno deve ancora farci l’abitudine, come Kyle Lowry , non ancora completamente calato nelle attuali vesti di squadra, secondo quanto dichiarato da lui stesso.
Step by step, inch by inch, tanto per citare alcune massime da motivatore. Il messaggio che ne deriva è chiaro: serve tempo. La momentanea terza posizione ad est, tutto sommato, fa ben sperare, così come i progressi degli apprendisti rapaci: Siakam, Poeltl e l’intrigante OG Anunoby, fisico imponente e mani morbide, pescato il 24 giugno scorso in occasione del Draft, uno dei più ricchi di sempre, secondo buona parte dell’opinione.
Esprimere giudizi assoluti a fine dicembre è controproducente, se non lesivo. Tirare le prime somme, invece, più che lecito. Attualmente, i Toronto Raptors sono la solita, felice realtà del nord.
Al di là della frontiera qualcosa si muove, in silenzio, senza attirare le attenzioni altrui. I mostri del sottosopra sono in agguato, pronti, per l’ennesima volta, alla conquista della Eastern Conference.