E’ impossibile non cominciare a parlare di Indiana partendo dal 6 luglio 2017.
In un’estate ricca di transazioni cestistiche celebri rientra anche quella di Paul George, classe 1990 e simbolo di Indiana dal 2010, anno in cui è stato draftato dagli Hoosiers. Faccia da bravo ragazzo, il prototipo fisico di quella stirpe di giocatori alti forti ed aggraziati che sta segnando la nostra epoca, il muscolo elastico che gli ha permesso di recuperare dal brutto infortunio del 2014 e carattere da vincente.
La ricetta ideale per cucinare un campione se non fosse per quel contratto in scadenza nel 2018 che, rimanendo in tema di ricette, aggiunge un bel po’ di pepe agli sfiziosi ingredienti sopra citati. E con il rischio di non riuscire a ri-firmare il proprio Capitano, i Pacers hanno pensato logicamente di racimolare qualcosa da uno scambio piuttosto che perderlo a guadagno zero.
Il provento della trade
A rendere meno amaro l’addio di PG13, in uscita verso gli Oklahoma City Thunder è l’arrivo di due giocatori molto interessanti: Domantas Sabonis e Victor Oladipo.
Il primo è un sophomore con recente passato in Europa (Malaga) che non fa mai male, ma l’ha spiegata anche e soprattutto agli americani (Gonzaga, anche First Team West Cost) che altrimenti tendono a cadere dal pero quando un misconosciuto europeo di 211 centimetri la spara da 3 col 46% il primo mese di campionato (media poi di parecchio ridimensionata, ma visto che parliamo di potenziale…).
Con lui torna ad essere introdotto dagli speaker della lega un indimenticato cognome lituano legato ad un’epoca che pare lontanissima, in cui papà Arvydas avrebbe potuto competere forse alla pari con Shaq e tutti i grandi centri dell’epoca se non fosse per i climi gelidi tra USA e URSS, che videro Sabonis padre approdare dall’altra parte del mondo solo a 31 anni ad embargo politico terminato, almeno 5 primavere lontano dal suo prime fisico.
Potenziale buono per questa ala/centro dal sangue “nobile” dicevamo, quanto mai futuribile e portata principale di parecchie trade se il secondo giocatore scambiato non rispondesse al nome di Victor Oladipo e stesse registrando statistiche concrete che stanno stupendo anche gli Indy Fan più ottimisti.
Oladipo è stato considerato una mina vagante fin dai tempi di Orlando, un giocatore altalenante capace di un 1/13 al tiro come di mettere trentelli, anche a ripetizione. L’approccio discontinuo alle partite non gli ha mai permesso di passare di categoria nonostante fossero ormai due anni che si parlava di una possibile stella nascente.
L’anno scorso ad OKC la presenza ingombrante di Westbrook è stata più pesante del previsto e senza dubbio avere Mister Tripla Doppia in squadra ha adombrato i miglioramenti tattici del giocatore ex Orlando. Dal quale, tuttavia, ci si aspettava una potenza di fuoco che ha fatto fatica a mostrare con costanza.
Un salto di qualità che sembra aver registrato quest’anno, con Indianapolis spettatrice ammirata dei 22.8 punti a partita del nostro Victor, 5 abbondanti sopra la media in carriera e percentuali al tiro da tre finalmente temibili (43% contro 35% in carriera, gap ampissimo).
Sembra forte Indiana, vero? E non abbiamo ancora parlato del pupillo della Circle City. Perché a qualcuno, le chiavi della baracca, andranno pur date.
Le chiavi della squadra
“Myles Turner got a chance to be one of the best players’ in Pacers history” (Larry Bird)
Myles Turner è stato eletto capitano per la stagione appena cominciata. Quando dai la fascia ad un 1996 privo di sfacciate doti caratteriali il segnale forte che vuoi dare a lui, franchigia e tifosi è: ripartiamo da te.
E in tanti farebbero carte false per poter ripartire da uno come Turner: 211 centimetri per 115 kg per il terzo anno prodotto della Austin University of Texas già genitrice di LaMarcus Aldridge, Kevin Durant e Avery Bradley fra gli altri e fin dalla high school tenuto d’occhio da molti (al secondo posto nella classifica ESPN dei prospetti usciti in uscita dalla high school, il primo era Jahlil Okafor), primi fra tutti i genitori che alla nascita del pupillo prevedevano bene, con scritta grassetta sotto l’annuncio di nascita “futura scelta al primo giro”.
L’aver frequentato la stessa università – peraltro con statistiche molto simili ed un fisico altrettanto somigliante – han fatto fioccare paragoni con Aldridge: la storia ad oggi ci ha messo davanti ad un prospetto tecnicamente differente, probabilmente inferiore ma talentuoso, dolce nel tiro anche da tre, efficace a rimbalzo e abile stoppatore.
L’attuale stagione non inizia benissimo per Myles che dopo una sola partita, vinta a Brooklyn con un promettente 21+14+4 stoppate si ferma per un problema al collo a seguito di una botta. Myles, per via dei rigidi protocolli del caso imposti dalla NBA, rivede il campo dopo otto giornate. Al rientro sembra accusare molto il colpo subito e gioca qualche partita di troppo col timore che puoi aspettarti dal tuo centro 21enne che negli hotel si firma con lo pseudonimo di Steve Urkel di “Otto sotto un tetto”, ma per fortuna la crescita nel finale di Novembre è evidente.
Forse non sarà il capitano morale che ci si aspettava, vista anche la presenza in squadra di un personaggio dal carattere – diciamo – creativo di cui parleremo fra poco, ma il fulcro inamovibile almeno per i prossimi 2 anni sicuramente sì.
Pronti si nasce
L’NBA ci insegna che il carisma rende fondamentali per le dinamiche di una squadra atleti che starebbero bene in una A2 italiana e, complementarmente, predispone atleti fisicamente e tecnicamente devastanti all’essere messi fuori rosa da più squadre, anche nella stessa stagione.
Se nell’ultima casistica mi piace fare il nome di Michael Beasley per motivi che andrebbero analizzati in un articolo a sé stante, nei primi inserirei Lance “Born Ready” Stephenson, attualmente il cuore dei Pacers.
Non che Lance sia indenne da tagli da parte di più e più squadre anzi, ma se preso nel modo giusto e se inserito nel contesto corretto, allora e solo allora siamo di fronte ad un tipo di giocatore rilevante, quasi necessario in una squadra, sempre ricordando che uno del suo tipo: sì; due: troppi.
A 16 anni le prestazioni al Rucker Park gli valgono l’appellativo di Born Ready, nickname che non fa segreto di apprezzare. Debutta in NBA 4 anni più tardi proprio ad Indiana, stagione 2010-2011, un paio di anni di gavetta a 10 minuti di media per poi indossare la faccia di bronzo, eccellere nella regular season ed accendere gli animi di tifosi e compagni scortando i Pacers alle finali di conference, dove lo scoglio LeBron si dimostrerà essere troppa cosa anche per il mannello difensivo comandato da Vogel.
Le basi per una carriera pirotecnica sembravano essere state gettate ma l’equilibrio, si sa, è cosa difficile da trovare, soprattutto per animi parossistici che tanto fruttano se stimolati quanto creano difficoltà se maneggiati in malo modo.
L’anno successivo firma un triennale da 27 milioni a Charlotte rifiutando un quadriennale da 44 offerto da Indiana: la controversa scelta non frutta come sperato, anche a causa di problemi fisici. Al termine di un deludente anno viene ceduto ai Clippers, che a metà stagione lo girano a Memphis dove, nonostante il massimo in carriera in punti (14.2) l’amore non sboccia.
Rimane free agent, firma al minimo coi Pelicans ma un infortunio gli preclude praticamente l’intera stagione, firma a Minnesota l’anno successivo ma una nuova serie di infortuni calano una scure sul suo futuro. Il 17 marzo 2017 torna a casa, la Indianapolis da cui forse si è separato troppo presto. Dichiara che il suo ritorno a “casa” può essere paragonato a quello di Jordan dopo i due anni di baseball.
Potrei dirvi che quest’anno sta registrando 8 punti, 5 rimbalzi e quasi 3 assist a sera in 22 minuti uscendo dalla panchina, ma i freddi numeri omettono che nei finali di partita punto a punto si fa trovare pronto. Chiedete a Pistons, Nets e Raptors. I doppi passi scenici e le palle perse da passaggi suggestivi rimangono, ma questo è Born Ready, prendere o lasciare e, al prezzo di 4 milioni l’anno, prendere è stata una saggia mossa.
Il progetto
Il tifoso medio dell’Indiana è un cristiano protestante cresciuto a chiesa e basket, cestisticamente più acculturato della media dei tifosi delle altre squadre che – cosa più importante – sa di esserlo. Un anno transitorio (leggasi: a tankare) per questo tipo di fan avrebbe sollevato malumori, motivo per cui, anche grazie al materiale umano non da buttare, si è scelto di puntare sulla crescita dei giovani in un ambiente di media classifica piuttosto che ad una scelta alta al seppur cospicuo draft 2018.
Coach McMillan gestisce i gregari Thaddeus Young (13.1+6 rimbalzi), Darren Collison (12.3 e 6.5 assist), Bojan Bogdanovic (14.8) e Corey Joseph. Tutti atleti fra i 27 e i 30 anni che non fanno gridare all’avvento del messia ma tengono su la baracca più che dignitosamente, sanno bene qual è il ruolo di loro competenza e nelle mani di chi mettere la palla nei momenti topici. “Thaddiator” è un buon rimbalzista da affiancare a Turner, che deve prendere appunti anche dal terzo lungo di ruolo che la società ha preso per fargli da chioccia, il veterano Al Jefferson, ottimo giocatore in post basso.
Collison, cresciuto sotto l’ala di Chris Paul, si è rivelato essere un sufficiente uomo di rotazione. Bogdanovic vive il miglior anno in carriera per minuti e punti e come Oladipo non ha paura di prendersi responsabilità in attacco. Cory Joseph alza il ritmo dalla panchina e difende aggressivo. Il rookie TJ Leaf, scelto alla 18 fra quelli che si sarebbero potuti complementare meglio con Myles Turner, è spaesato e soffre in ogni parte del campo nei pochi minuti che ha a disposizione.
Il monte salari arride agli Hoosiers. I Pacers puntano tutto sulla crescita totale di Turner e Sabonis e nel consolidamento di Oladipo per questo e il prossimo anno, per poi avere nell’estate 2018 circa 80 milioni spendibili per costruire qualcosa attorno ai tre.
Lo scenario peggiore vedrebbe Oladipo poco continuativo, Turner mai esploso e Sabonis mai sbocciato: quella migliore, una shooting guard da 24 punti di media a 21 milioni l’anno e una coppia di lunghi dinamici ed affiatati da 20+12. E sempre e comunque 80 milioni da spendere.
Insomma, se il tifoso medio a Indianapolis ne sa di pallacanestro più della media nazionale, anche la dirigenza sembra aver fatto le cose per bene: la decisione di non passare la mano ha fruttato carti intriganti e la parola d’ordine “crescita” capeggia fiera nelle teste di molti, al pari della scritta “Born Ready” nel lussuoso appartamento di Lance.