Dopo un lustro di stagioni deragliate miseramente, non basta il sorriso rassicurante di Magic Johnson per dipanare la coltre di dubbi che circonda un’edizione dei Los Angeles Lakers ancora lontana dall’eccellenza cui la franchigia è storicamente abituata, ma indubbiamente migliore delle precedenti, in campo e fuori.
I ragazzi del giovane coach Luke Walton (8-11 al momento di scrivere) stanno tenendo un passo in linea con le più realistiche aspettative, alternando fiammate entusiasmanti a inesplicabili passaggi a vuoto (anche all’interno di una stessa partita) a dispetto di un calendario per la verità non particolarmente impervio.
L.A. è una formazione capace di rimontare 19 punti ai Bulls e di vincere con Julius Randle e Kentavious Caldwell-Pope sugli scudi, ma parliamo dei derelitti Chicago Bulls in pieno tanking novembrino, e allora viene spontaneo chiedersi come si possa finire sotto di diciannove lunghezze contro un avversario che vive dei tiri di Denzel Valentine, o addirittura perdere contro i derelitti Phoenix Suns.
Chi si aspettava miglioramenti repentini rispetto alla precedente gestione sarà rimasto deluso, ma era francamente arduo pretendere una cesura netta rispetto al recente passato, se il leader tecnici del gruppo sono ragazzi giovanissimi (incluso il “veterano” Caldwell-Pope, che ha 24 anni) il cui bagaglio cestistico e umano non è certo consolidato, e deve oltretutto sublimarsi in un nuovo contesto di squadra.
In compenso, le forze fresche aggiunte da Pelinka hanno portato una diversa mentalità in uno spogliatoio svagato, nel quale si parlava molto di invertire la rotta, e però poi in campo nessuno faceva un passo nella giusta direzione, tra exploit estemporanei e lunghissime pause da elettroencefalogramma piatto. Josh Heart, Caldewell-Pope, Thomas Bryant, Kyle Kuzma e Andrew Bogut sono tutti giocatori che ancor prima del talento, mettono in campo cuore e impegno, sempre e comunque.
Bogut, reduce dal brutto infortunio che ha chiuso immediatamente la sua esperienza ai Cavaliers, è arrivato in California soprattutto per avere a roster un atleta forte di trascorsi NBA ad alto livello, e che quindi conosce le dinamiche che contraddistinguono i gruppi vincenti; non si può dire lo stesso di Brook Lopez, che è un professionista serio, un ottimo giocatore e una brava persona, ma ha sempre giocato in squadre senza ambizioni.
L’arrivo dell’accoppiata australo-californiana in verniciato ha chiuso inevitabilmente Ivica Zubac, reduce da un’incoraggiante fioritura primaverile, e da una preoccupante involuzione in Summer League e in Preseason. Il lungo di Mostar è una delle vittime della cura a base di competizione imposta dalla nuova dirigenza: chi smette di lavorare e migliorare, finisce inesorabilmente in panchina.
L’altra vittima della nuova strategia di Rob Pelinka è stato ovviamente l’ex-promessa D’Angelo Russell (attualmente ai box per un intervento al ginocchio), giubilato in una sera di luglio per rendere meno indigesto ai Brooklyn Nets il contrattone di Timofey Mozgov, ereditato dall’improvvida gestione precedente.
La guardia nativa di Louisville era un elemento ridondante per una franchigia intenzionata a puntare forte fin da subito su Lonzo Ball come elemento portante del roster, e l’atteggiamento pantofolaio di Russell non ha certamente aiutato le sue quotazioni presso un front-office (soprattutto Magic, che sorride ma non scherza) alla ricerca di gente disposta a lottare e intenzionata a vincere, o almeno a provarci.
I due giocatori ad aver maggiormente beneficiato della nuova cultura sono stati Brandon Ingram e Julius Randle, che nel corso dell’estate sono stati ospiti fissi del nuovo e scintillante impianto d’allenamento, lo UCLA Health Training Center: Ingram è diventato un giocatore più aggressivo e convinto dei propri (straordinari) mezzi atletici, mentre l’ex ala mancina di Kentucky si è presentato al camp in forma smagliante, leggero e pronto a convertirsi in Sesto Uomo di pura energia anche in difesa.
Luke Walton ha posto massima enfasi proprio sullo sforzo difensivo, indispensabile per produrre quella transizione che magnifica le doti da passatore di Lonzo Ball, e qualcosa in questo senso s’è anche visto, perché i Lakers sono decimi per percentuale concessa agli avversari, addirittura terzi per percentuale concessa da tre punti.
La giovane età di molti protagonisti (Ingram e Ball non arrivano a 40 anni in due) e alcuni limiti strutturali però, impongono dei passaggi a vuoto disarmanti: nonostante il playmaking superiore di Ball, in attacco L.A. accende e spegne, ferma la palla quando non deve, e a volte da l’impressione di incartarsi da sola.
Los Angeles tira da dietro l’arco con un tremendo 31% che ne fa l’ultima delle trenta franchigie (è anche diciannovesima per triple tentate, ma questo è un falso problema: se da tre tiri male, non ha senso fare volume tanto per stare in linea con le statistiche) e d’altronde è anche la peggior squadra alla linea del tiro libero, sintomo che forse Lonzo non è l’unico gialloviola a dover rivedere la propria meccanica di tiro.
Il figlio del grande Bill (e discepolo di Lute Olson ad Arizona e Phil Jackson proprio ai Lakers) chiede alla squadra di attaccare il verniciato, ma è una strategia che ha ovviamente controindicazioni, soprattutto se Ball può essere ignorato come un Rajon Rondo o un Tony Allen qualsiasi, consentendo alla difesa un uomo in più sul penetratore, senza timore d’esser puniti dal piazzato piedi per terra.
Dopo la tripla segnata contro Chicago per la verità, il figlio maggiore dell’ineffabile LaVar Ball sembra essersi sbloccato, ma è chiaro che quella meccanica, tra rilascio a mulinello, una spalla più alta dell’altra, visuale del canestro coperta con la palla, e salto con le gambe in avanti, è un punto di debolezza, se non il punto di debolezza del suo gioco.
Lonzo Ball è suo malgrado un personaggio che divide, non certo per l’atteggiamento (che è duncaniano come pochi) quanto per l’ingombrante presenza paterna. Eravamo stati facili profeti in estate, quando, scoutizzandolo, anticipavamo i problemi che le uscite di Lavar avrebbero ingenerato nel mondo “pro”, sia coi colleghi come Pat Beverley e Joel Embiid, che col club, infastidito dalle ultime uscite sull’eccessiva mollezza di coach Walton.
Lonzo non è certo responsabile di quel che dice e fa suo padre, e tantomeno può zittirlo (visto che non ci riesce nessuno…). Questi tweet improvvidi e le dichiarazioni roboanti hanno caricato davvero tanta pressione sulle spalle di un diciannovenne talentuoso ma ancora acerbo, scrutinato giorno e notte dalle orde di “hater” in cerca di un bersaglio col quale sfogarsi.
Ball è un magnete per controversie: c’è chi lo critica per non aver preso parte ad una rissa durante l’ultima sconfitta maturata contro i Suns (ma non è esattamente il comportamento che l’NBA richiede?) e chi, appassionato di etichette, lo dipinge già come novello Michael Carter-Williams (o Jason Kidd) dopo 19 partite da professionista, o chi tira in ballo per l’episodio di taccheggio che ha visto come malaugurato protagonista suo fratello LiAngelo in Cina.
L’aspetto positivo per i Los Angeles Lakers è che Lonzo sembra rispondere bene alle pressioni e a quest’inizio certamente non idilliaco, e questo fa presumere che la testa della guardia da Chino Hills sia ben salda sulle spalle, il che, unito al suo ragguardevole talento per il gioco e al suo altruismo contagioso, lascia ben sperare per il futuro della franchigia.
Brian Shaw ha invitato Zo ad essere aggressivo a rimbalzo, ed effettivamente quando si batte sotto le plance (è il terzo miglior rimbalzista nel suo ruolo, dopo Westbrook e Ben Simmons, e aiuta a coprire i numeri deficitari Lopez), il suo livello di fiducia pare innalzarsi istantaneamente, oltre a consentirgli di innescare subito la transizione offensiva, indispensabile per produrre quei canestri facili dei quali l’attacco angeleno abbisogna per mettere punti ad alta percentuale sul tabellone.
Grazie alla ventisettesima scelta ottenuta nel contesto della trade di D’Angelo Russell, i Lakers hanno messo le mani su un altro giovane talento, il nativo del Michigan (come Magic) Kyle Kuzma. Quest’ala con laurea in sociologia all’università di Utah ha sorpreso tutti, dimostrandosi pronto alla Summer League di Las Vegas e confermandosi anche al training camp, fino a guadagnarsi i galloni da titolare dopo i problemi fisici che hanno fermato Larry Nance Jr.
Kuzma e Ball hanno tolto un po’ di pressione dalle spalle di Randle e Ingram, che sembrano davvero rivitalizzati rispetto ai giocatori smarriti dello scorso anno. Detto di Ingram, che sta crescendo partita dopo partita, l’evoluzione di Randle rischia per assurdo di intralciare i piani della dirigenza, intenzionata a portare un paio di superstar in Southern California.
Julius è in scadenza contrattuale, e rifirmarlo potrebbe richiedere troppo spazio salariale per poter poi pensare di rincorrere i vari DeMarcus Cousins, Paul George e LeBron James. In questo senso, è possibile che i Lakers decidano di scambiarlo prima di febbraio in un pacchetto comprendente anche Luol Deng e i relativi 54 milioni complessivi comandati dal suo contratto, soldi che potrebbero essere reinvestiti proficuamente sulla free agency.
È sensazione diffusa che i Lakers siano destinati a muovere delle pedine prima della trade deadline, e l’unico altro grande indiziato a fare le valigie è JC, al secolo Jordan Clarkson. L’ottima guardia d’origine filippina è titolare di altri 3 anni di contratto per 37.5 milioni complessivi; si tratta di un accordo dall’ottimo rapporto qualità/prezzo, ma se Pelinka non si riuscisse a trovare il modo di scaricare il trentaduenne Luol Deng, cedere Clarkson potrebbe consentire di ricavare altro spazio sotto al cap.
Se ciò non dovesse bastare, la mossa della disperazione potrebbe essere quella di “amnistiare” l’ex Chicago, Cleveland e Miami, spalmando il suo contratto su un quinquennio, e quindi liberando altri 10 milioni da gettare sul piatto, soldi che comunque da soli non garantiscono margine sufficiente in quella che si profila come una free agency caldissima.
Già, l’estate 2018. Dopo aver convissuto per anni con la promessa mai mantenuta di ricostruire rapidamente attraendo free agent, la nuova dirigenza sembra avere l’esperienza e la credibilità per essere perlomeno ascoltata persino da King James, sensibile al fascino dell’oceano Pacifico e dato in uscita da Cleveland persino prima della ”fuga” di Kyrie Irving.
Attualmente i Lakers arriverebbero a luglio ’18 con solo 53.9 milioni impegnati in contratti, con Corey Brewer, Lopez, Randle e Caldewll-Pope e Bogut free agent, e 47 milioni circa da spendere, il che implicherebbe delle scelte, perché non c’è spazio per due max-contract (senza contare Randle), anche se la dirigenza ha ribadito a più riprese di voler firmare due pezzi da novanta.
Risulta in effetti difficile immaginare che LBJ (eleggibile per un contratto da 35.5 milioni, a salire) scelga d’accasarsi ai Lakers senza un’altra superstar al suo fianco; trascorrerebbe infatti gli ultimi anni di carriera a fare la balia a Kuzma e Ball nella competitiva Western Conference, senza nessuna vera chance di competere per l’argenteria.
Il rinnovo di Russell Westbrook potrebbe aver complicato le cose, perché Westbrook era un potenziale obiettivo, e soprattutto perché Magic Johnson non ha fatto mistero di concupire Paul George (affermazione reiterata da Pelinka e costata una multa da 500.000 bigliettoni graziosamente comminata da Adam Silver); se però la stagione dei Thunder non dovesse rivelarsi disastrosa, l’ala di Palmdale potrebbe decidere di rifirmare con OKC, forte della certezza di poter continuare a giocare con l’MVP in carica.
Non considerando plausibile l’eventualità che Kevin Durant torni sul mercato (perché mai dovrebbe farlo?) rimane solo il nome di DeMarcus Cousins tra quelli che “spostano”, ma può davvero bastare Boogie per convincere LeBron a salutare l’Ohio per una seconda volta?
Per tutti questi motivi, Los Angeles non si balocca con la chimerica certezza di far razzia di stelle in estate, e ha iniziato a pretendere progressi da chi scende sul parquet. Il talento a disposizione non è quello –debordante– dei Philadelphia 76iers, ma c’è un abbozzo di strategia (difesa e contropiede) e di sviluppo tecnico dei giocatori, con Randle e Clarkson consegnati al ruolo più congeniale di “sesti uomini”.
I tempi duri non sono ancora finiti per gli abbonati dello Staples, che quando alzano gli occhi e leggono certi nomi sulle maglie ritirate, non possono che provare una fitta di nostalgia, ma se non altro oggi L.A. schiera una formazione futuribile, con una fisionomia in fase di costruzione ma già riconoscibile, e soprattutto, con una dirigenza nuovamente coesa e dalle idee chiare.
In attesa di scoprire cosa riserverà l’estate, i Lakers possono già godersi le triple doppie di Lonzo Ball, le penetrazioni di Ingram, l’inedita verve difensiva di Randle, i tiri in estensione di Kuzma e le giocate d’energia di Nance. In fondo, come Piano B, c’è di ben peggio…
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Manca una parte su Walton che da solo è responsabile di ben più di una sconfitta e ha pochi meriti in molte delle vittorie (rimonta di Chicago per non andare troppo lontani). Sicuramente il primo che va epurato dopo i caproni Randle e Clarkson