Gli stipendi dei giocatori NBA sono sempre stati fuori scala rispetto a qualsiasi parametro europeo vogliate prendere in considerazione per tentare un raffronto; in un certo senso, i contrattoni elargiti a destra e a manca dalle 30 franchigie rappresentano per noi appassionati la prova provata dell’intrinseca bontà del modello economico perseguito dalla nostra lega preferita, ricchissima e più scintillante che mai.
Il tweet di LeBron datato 1 luglio 2017 è perfettamente in linea con questa logica, perché solo in NBA si può affermare con assoluta serietà che Stephen Curry avrebbe meritato un contratto doppiamente ricco rispetto al quinquennale da 200 milioni firmato in estate coi suoi Golden State Warriors. Gesto magnanimo di LBJ verso il suo rivale delle ultime tre Finali? Mossa astuta per preparare il terreno alla sua, di free agency?
Quali che fossero le motivazioni dietro al “cinguettio” di King James, la sua frase è stata accolta con la consueta euforia che accompagna ogni attestato di prosperità dell’NBA, e nessuno si è soffermato più di tanto a riflettere se questa bonanza contrattuale sia effettivamente sostenibile (o sana) e tantomeno ci si è chiesti se queste cifre (200 milioni come 400) possano essere accostate alla voce del verbo “meritare” in un contesto sportivo.
La replica cui solitamente si ricorre per zittire questo tipo di considerazioni è che “sono cifre dettate dal mercato”, il che è vero, ma solo prima facie: un prezzo che si collochi al crocevia tra la curva dell’offerta e quella della domanda non è automaticamente giusto, come scopriamo ogni volta che scoppia una bolla economica frutto di un mercato gonfiato rispetto al vero valore delle azioni.
A Wall Street, bastione per eccellenza del libero mercato, i trader “ad alta frequenza” (HFT, secondo l’acronimo anglosassone) hanno imparato ad usare le diverse velocità di connessione internet per frapporsi sistematicamente tra domanda e offerta, “mangiandosi” ogni volta la differenza; puro modello estrattivo, quindi, che preleva denaro senza produrre alcunché, se non volatilità del mercato, con tutti i rischi annessi e connessi.
Non immaginatevi scene come quelle di “Una Poltrona per Due”; oggi quel trading floor dove Winthorpe istruiva Valentine sul mercato del succo d’arancia congelato è deserto, perché le contrattazioni avvengono all’interno di server ubicati nel New Jersey (dalle parti di Secaucus) e le transazioni –guidate da sofisticati algoritmi– si svolgono in frazioni infinitesimali di secondo, con poco o nessun riguardo per i fondamentali economici delle aziende comprate e cedute.
Con buona pace della teoria economica classica come delle facilonerie da bar, gli stipendi NBA sono il frutto di un meccanismo molto articolato, in cui domanda e offerta sono mediate da molti passaggi intermedi, e avventurandosi oltre la superficie delle cose, la realtà si svela più complessa e problematica del previsto, alla stessa stregua di Wall Street, dove l’etichetta recita “investimento”, ma in realtà si fa speculazione.
ESPN ha recentemente pubblicato un pezzo di approfondimento firmato da Brian Windhorst e Zach Lowe nel quale si sostiene che, nonostante l’NBA abbia 530 milioni di utile, ben 9 franchigie siano in perdita; è un dato che contribuirebbe a spiegare la scelta di apporre i loghi degli sponsor sulle maglie; per alcune proprietà si tratterebbe di spremere altri soldi dal giocattolo, per altre invece, questa soluzione sarebbe un salvagente per tentare di limitare le perdite operative.
Eppure le quotazioni delle franchigie NBA sono alle stelle (l’ultima è Houston, ceduta per 2.2 miliardi dallo storico owner Leslie Alexander a Tilman J. Fertitta, che aveva già cercato di acquistare i Rockets nel 1993, offrendo 81 milioni) e questo attesta la bontà dell’investimento, visto che la nuova generazione di proprietari –lontanissima dal modello mecenatesco dei Jack Kent Cooke o degli Armani nostrani– mira al freddo profitto.
Secondo l’Associazione Giocatori, i dati che attestano perdite per alcune franchigie sono in realtà frutto di una precisa strategia contabile degli owner, intenzionati a far apparire la National Basketball Association meno profittevole di quanto sia in realtà al solo scopo di intascarsi una fetta maggiore dei proventi, che dovrebbero viceversa dividere con i giocatori, nel contesto del contratto collettivo firmato sotto l’egida di Adam Silver.
Nonostante un accordo che porta a ciascun club 89 milioni dollari di soli diritti TV (per un totale di 24 miliardi in 9 anni, e parliamo solo dei diritti di ESPN-Turner Sports, cui si assommano quelli per le televisioni americane locali e quelle estere), esistono franchigie che dichiarano perdite, e altre 5 che sarebbero in rosso per quanto concerne i ricavi legati al basket, ma si salvano col revenue-sharing.
Quest’ultimo è un meccanismo di ripartizione dei proventi televisivi pensato per entrare in azione in situazioni emergenziali. Nella realtà dei fatti il ricorso al revenue-sharing è all’ordine del giorno, tant’è che al termine della stagione 2016-17, 10 squadre hanno versato 201 milioni di dollari alle 15 squadre più malconce; ciò non implica che l’NBA versi in cattive acque, ma confermerebbe l’esistenza di un divario tra formazioni capaci di accumulare profitti e altre, in perdita (almeno sotto il profilo contabile).
Come detto, la NBPA presieduta da Chris Paul sostiene che questo congegno (pensato per scomputare alcune voci dalla colonna dei ricavi) sia stato concepito apposta per simulare una situazione patrimoniale peggiore di quella reale, così da contenere le richieste contrattuali dei giocatori. C’è probabilmente un fondo di verità in quest’affermazione (il contratto TV copre da solo l’80% del monte salariale medio!), ma è anche vero che non si comprende perché i giocatori avrebbero diritto ad una fetta della torta se la squadra affitta l’arena per un ciclo di concerti.
Questo meccanismo (ricordiamolo, concepito come un bottone rosso da premere solo in caso d’emergenza) tiene conto di fattori che intricano la matassa, dalla dimensione del mercato ai costi, dai ricavi attesi ai risultati passati. OKC è un piccolo mercato NBA, eppure, complici i loro buoni risultati sportivi, si sono trovati a pagare, così come gli Spurs e i Cleveland Cavaliers, mentre gli Heat se ne escono in pareggio e i Nuggets ricevono addirittura soldi, nonostante Miami e Denver siano piazze medio-grandi.
Perché allora alcune squadre hanno elargito contratti più alti rispetto a quanto si potevano effettivamente permettere? Molte, proprio come noi, hanno creduto alla teoria della crescita verticale del cap negli anni a venire; il tetto salariale è passato in due stagioni da 60 a 90 milioni, e si pensava che sarebbe salito ancora, fino a 120 milioni. La NBA voleva calmierare quest’impennata salariale, ma la NPBA si è opposta, preferendo tutto e subito.
Nell’estate 2016 i club hanno iniziato a spendere e spandere, convinti che alcuni contratti eccessivi si sarebbero in seguito rivelati concorrenziali. Questo scenario non si sta però concretando, e ora alcune franchigie pagano l’euforia collettiva, trovandosi più vicine del previsto alla temuta Luxury Tax.
Il Salary Cap è previsto attorno ai 100 milioni per le prossime due stagioni, e non dimentichiamo che esiste anche un pavimento di spesa sotto al quale non si può scendere, fissato al 90% del Cap. La prima conseguenza è che tutte le squadre, virtuose o meno, dovranno versare in stipendi ai giocatori almeno 89 milioni per il 2017-18 (coperti come detto dal contratto TV, mentre la media salariale NBA è di 111.4 milioni).
Sono cifre impressionanti, concepibili grazie all’aumento esponenziale dei prezzi degli abbonamenti al palazzetto (ormai proibitivi per i comuni mortali) e di un contratto televisivo spropositato sottoscritto da ESPN, che ci porta finalmente a parlare della legge della domanda e dell’offerta e delle sue innumerevoli distorsioni.
L’NBA ha sbattuto fuori dalle proprie arene gli abbonati storici, seguendo una curva della domanda che consente ai Warriors di vendere una “membership” trentennale a svariate migliaia di dollari, grazie alla quale si potrà acquisire il diritto ad abbonarsi, e che fa il paio con la “gentrification” che sta cambiando la faccia ad interi quartieri di Frisco, ripopolati dalla nuova borghesia di Google.
Fin qui, si tratta di una scelta antipatica ma legittima, che punisce gli appassionati di lunga data (gli unici ad essere rimasti ancorati ai loro seggiolini sono quelli di Knicks e Lakers, due club che hanno sempre tenuto i prezzi alti perché avevano i vari Jack Nicholson e Spike Lee pronti a pagarli) in favore di una clientela che va alle partite più per status symbol e per vivere l’esperienza trendy, che non per autentica passione (o ci sarebbero andati anche prima, quando i biglietti costavano meno).
La gran parte della ricchezza della NBA, il cui giro d’affari è arrivato a quasi sei miliardi di dollari (generando l’opulenza dei contratti alla Curry) è però frutto degli accordi televisivi, nazionali e locali, e in questo caso il nesso domanda-offerta è molto meno immediato.
L’attuale contratto sottoscritto con Turner e ESPN (i canali che trasmetteranno le partite NBA sono TNT, ESPN e ABC) rappresenta un incremento del 180% rispetto al precedente accordo (in vigore dal 2007 al 2016) e ha dato fiato alle trombe degli entusiasti, convinti che soldi e salute di un progetto siano concetti equipollenti.
In realtà, il rapporto tra pecunia e agonismo sportivo è ben più problematico di quanto la mentalità corrente lasci intendere, per la quale l’unico valore possibile è quello monetario, per cui quando si guarda una tela rinascimentale ci si chiede quanto possa valere anziché contemplarla perché semplicemente bella ed emozionante.
Come dice Steve Kerr, “In questo Paese abbiamo costruito una macchina attorno allo sport, e per questo motivo facciamo un sacco di soldi; viviamo bene grazie al basket, è incredibile, sembra uno scherzo. Com’è successo? Ogni tanto, fa bene rifletterci. È giusto che anche i giocatori ci pensino; occorre essere capaci di separare la serietà del proprio lavoro, il fatto di lavorare per dei risultati speciali, senza perdere di vista l’assurdità di questa situazione”.
Questo contratto TV non è l’emblema di un successo, quanto la misura di un passaggio complicato nella vita editoriale di ESPN, nel contesto del declino della televisione via cavo, schiacciata dalla concorrenza dei contenuti on-demand di internet e dal diverso orientamento dei consumi tra le nuove generazioni.
La TV via cavo viene venduta in pacchetti, e i canali sportivi sono preziosi; l’NBA ha avuto fortuna, trovandosi a rinegoziare l’accordo in un momento in cui ogni altra lega (mettiamoci anche Olimpiadi e mondiali di calcio) è già sotto contratto almeno fino al 2020.
Turner (che gestisce anche NBA TV, NBA League Pass, NBA.com e NBA Mobile) temeva di perdere il basket in favore della rampante Fox Sports e di NBC, e così con ESPN ha rinegoziato l’accordo due anni prima che l’NBA potesse accordarsi con terze parti, ma per fare ciò, ha dovuto cedere alle richieste dell’avvocato newyorkese Silver, ottenendo in cambio più flessibilità nel palinsesto.
Insomma, questo accordo è il frutto della volontà di Turner e Disney (che possiede ESPN) di non andare sul mercato, tagliando le gambe sul nascere ad una possibile concorrente (che ha già alcuni diritti per l’MLB) e facendone pagare i costi al consumatore, cui viene offerto un contratto televisivo che comprende quasi sempre ESPN (di gran lunga la rete più costosa, a circa 7.21 dollari mensili), prendere o lasciare.
I salari più alti dei nostri giocatori preferiti (che per contratto, ricevono tra il 49% e il 51% delle Basketball Related Income NBA) sono pagati soprattutto da abbonati cui in realtà interessano football o baseball, o da persone che sulla TV via cavo guardano film, documentari o serie TV, ma per farlo, devono nondimeno pagare ESPN.
È arduo quindi parlare di “soldi meritati” come fa LeBron James, anche perché la National Basketball Association è in piena espansione globale, ma sta conoscendo una contrazione in patria, con gli ascolti scesi al minimo degli ultimi 9 anni. Basta guardare i dati: se le Finali della Western Conference ’16 tra Thunder e Warriors hanno registrato il 10% di share, significa che il 90% degli abbonati via cavo ha pagato per non guardarle!
L’NBA stacca stipendi molto al di sopra del valore di mercato, perché a sua volta ESPN l’ha pagata più di quel che vale, scaricando la spesa sul generico consumatore televisivo; non a caso, gli abbonamenti via cavo sono in picchiata (nel 2011 ESPN vantava 100 milioni di utenze, a giugno 2017 siamo a 87.9 milioni e il fenomeno si è guadagnato un nome, cord cutting), così il network, il cui primo trimestre del ’17 è stato meno profittevole del previsto (non in perdita, attenzione: meno profittevole) ha iniziato a licenziare dipendenti per contenere i costi, come si dice oggidì, nel tentativo di tranquillizzare gli “investitori” di Wall Street.
Secondo la rivista economica Forbes, il valore delle franchigie NBA è raddoppiato nei tre anni trascorsi dall’annuncio di quest’accordo miliardario (l’NFL è ferma a 1.9 miliardi annui, l’MLB addirittura ad 1.6) in virtù del quale i proprietari incasseranno ricchi dividendi per gli anni a venire, ma non ha grande attinenza con la qualità del prodotto, o con il “business plan”.
Oltre agli abbonati, la TV ha una fonte di introiti complementare, e cioè la pubblicità (che varrebbe circa il 40% del fatturato), ma quando calano gli spettatori, anche quest’entrata finisce a stagnare, e per questo motivo l’NBA fa pressioni per evitare i riposi programmati dei giocatori: le stelle servono in campo, per alzare i rating e convincere gli inserzionisti della bontà del loro investimento.
È un aspetto che aiuta a comprendere quanto l’aspetto economico possa diventare invadente, arrivando fin sul parquet e influenzando aspetti del Gioco che dovrebbero essere esclusivo dominio degli staff tecnici; se però LBJ e gli altri pezzi da novanta vogliono determinate cifre che reputano di meritare, allora la strada del compromesso è segnata irrimediabilmente, perché non è più questione di basket, quanto di finanza.
Non abbiamo in tasca una ricetta per risolvere l’ingarbugliata faccenda, e tanto meno vagheggiamo una purezza del Gioco da ripristinare; non viviamo sulla luna, e ci rendiamo conto che l’NBA non può uscire improvvisamente da questo circolo vizioso per il quale serve sempre denaro fresco da pompare nel sistema; non millantiamo nemmeno di conoscere cosa serbi in dote il futuro: nel 2025 potrebbe far capolino una piattaforma on-line disposta ad offrire ancora più denaro, o magari il negoziato avverrà al ribasso. Non lo sappiamo.
Ci rimane però il retrogusto sgradevole dato da atleti retribuiti cifre spropositate che anziché seguire il consiglio di coach Kerr e prendere coscienza del meccanismo dal quale beneficiano, si lamentano d’essere “sottopagati”, atteggiandosi a impresari di sé stessi (ci permettiamo di appuntare che fare business nel mondo reale è leggermente più complicato rispetto ad incassare i soldi offerti dagli sponsor) sopravvalutando un tantino la propria importanza nel grande mandala cosmico.
Non si stava meglio quando si stava peggio, ma forse un bagno d’umiltà farebbe bene anche alle stelle NBA, uomini che in fondo, hanno il raro privilegio d’esser pagati per praticare uno sport; lo fanno ad altissimo livello, certo, ma pur sempre di sport si tratta, con tutto ciò che ne consegue.
LeBron e compagnia ci fanno sognare con le loro imprese e il loro talento, ma se la NBA fosse solo on-demand (pagata solo da chi effettivamente la guarda, al palazzetto o in TV) i nostri giocatori preferiti non solo non guadagnerebbero il doppio, ma anzi, vederebbero i loro ingaggi ridotti ad una frazione minima delle cifre attuali!
Il sistema è questo e ce lo terremo almeno per altri otto anni, e va bene così, ma per favore, basta discettare di stipendi determinati dal mercato o di quanti soldi “valgano” Tizio e Caio. Sembra di udire quegli sventurati individui che dinnanzi alla Cappella Sistina non si trattengono, e parlano di valori immobiliari.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Veramente un bell’articolo! Complimenti! :)
Concordo, davvero un bel leggere!
Complimenti, uno spunto veramente interessante. Ho un dubbio però: tutti questi nuovi soldi che vengono dalle tv, alla fine se li prendono le stelle lasciando le briciole agli altri (a eccezione di qualche follia alla Dellavedova). E quindi mi chiedo, come mai l’associazione giocatori sembra così unita nell’accettare che una minoranza si intaschi tutto senza una distribuzione più equa? Perché non sento mai un gregario fuori dal coro che si contrapponga alle esternate di James e compagnia?
Bravo francesco veramente bella lettura, documentata, colta e interessante. Condivido tutto quanto. Grazie mille.
Grazie a tutti per le belle parole!
@Enzo: l’attuale ripartizione della torta tra stelle e comprimari è frutto di una posizione mediata tra queste due categorie, ambedue rappresentate dalla NBPA (e i secondi prevalgono numericamente sui primi). Senza il contratto collettivo (e quindi i vari tetti salariali determinati dal numero di anni in una franchigia, dalla partecipazione alla Gara delle Stelle, e tante altre variabili) la forbice sarebbe ancor più larga, ovviamente in favore dei Durant, Curry, LeBron.
buon articolo, complimenti!
mi piacerebbe vedere analizzata anche la situazione delle franchigie. 9 squadre in perdita, lo erano anche prima dell’ultimo lockout (vado a memoria). Nonostante la percentuale a favore dei proprietari sia aumentata (a quanto siamo ora? 50-50?), nonostante il rinnovo del contratto televisivo sia stato importante, nonostante la possibilità di sponsorizzazioni sulle maglie…ecc..Ma sono gestite da incapaci??? Ognuno fa la sua parte e i suoi interessi, giocatori e franchigie. Ma con le condizioni attuali i proprietari dovrebbero aver sistemato i bilanci, small markets o meno…sbaglio?
Grande articolo, complimenti. Secondo me si va verso il consumo dei contenuti 100% on demand, cioè è abbastanza probabile che gli abbonamenti vengano sostituiti dagli acquisti dei singoli avvenimenti, a quel punto cambierà veramente tutto perché ogni squadra diventerà “produttrice” di sé stessa e i giocatori saranno gli attori di quello spettacolo.
Allora sì che ognuno potrà dire valgo quei soldi.
I dati non sono disponibili al pubblico, quindi una analisi completa dello stato patrimoniale delle singole franchigie non può essere compiuta. Quel che si può dire è che le squadre devono spendere circa 90 milioni in salari (Salary Floor), e il contratto porta in dote ad ogni franchigia quella cifra. La media salariale NBA è di circa 22 milioni più alta, e poi ci sono i costi per il resto del personale, i viaggi, l’aereo privato, gli alberghi, le infrastrutture. Diciamo che si arriva a 32-34 milioni? Non mi sembra una cifra inarrivabile, tra sponsor sulla maglia, entrate del palazzetto (incluso l’affitto per concerti, esposizioni cinofile, eventuali rodei), TV internazionali, magliette vendute e sponsor locali.
Certo, se uno vuole vincere, alla Dan Gilbert, deve spendere davvero tanto, e forse queste entrate potrebbero non bastare, ma il sistema attuale è il massimo concepibile per creare parità di opportunità.
L’on-demand è quasi certamente il futuro, e staremo a vedere come verrà portato avanti, e con quali conseguenze.