Nessuno si aspettava granché da questa off-season NBA, apparentemente destinata al ruolo di timido preludio ai fuochi d’artificio del 2018; viceversa, abbiamo vissuto un’estate piena di colpi di scena anche clamorosi, come il trasferimento di Kyrie Irving a Boston e quello di Chris Paul a Houston, ma nessuna squadra ha fatto rumore quanto gli OKC Thunder di Sam Presti, un anno fa in procinto di smantellare tutto, eppure capace di sfilare Paul George agli Indiana Pacers, e di raddoppiare con Carmelo Anthony da New York.
Intendiamoci, il General Manager dei Knicks, Scott Perry, non si starà certo stracciando le vesti, perché già da anni Melo, con il suo bagaglio di prestazioni declinanti e la no-trade clause ottenuta nel 2014, erano diventati una spina nel fianco per una franchigia intenzionata a muoverne il contratto per puntare con decisione sul nuovo corso targato Kristaps Porzingis, che lo ha cortesemente definito “un mentore” (e chissà se a NY sono contenti di sentirglielo dire).
Dopo aver rifiutato per anni ogni destinazione sgradita (a lui, e alla signora LaLa Vasquez) ed essere sopravvissuto a Donnie Walsh, Glen Grunwald e Phil Jackson (il cui peccato originale fu di concederla, quella no-trade clause) Carmelo Anthony ha accettato l’idea di traslocare al di là del Mississippi, alla corte di quel Russell Westbrook, che, a 12 mesi di distanza dall’addio di Kevin Durant, si trova nella curiosa (perché inattesa) circostanza di presiedere un potenziale super-team.
A Manhattan Melo non ha certo ottenuto quanto sognava quando forzò lo scambio che lo condusse da Denver alla corte di Mike D’Antoni. Quella mossa fotografa bene la disfunzionalità del club di James Dolan; i Knickerbockers potevano pazientare qualche mese e aggiungere Anthony (in scadenza) ad un nucleo forte di Danilo Gallinari, Jeremy Lin e Wilson Chandler; invece, pur di averlo subito sacrificarono assetti importanti e qualsiasi residua traccia di chimica di squadra.
È una vicenda che non ha vincitori, perché Melo ha certamente guadagnato un sacco di soldi (e ora lascia sul tavolo un trade-kicker da 8 milioni), ma abbandona da sconfitto la sua città (è nato a Brooklyn, e solo in seguito la famiglia si trasferì a Baltimora) con la reputazione a pezzi e la nomea (tutto sommato meritata) di giocatore me-first che non difende mai. I Knicks potranno finalmente dimenticarsi di lui e progettare il proprio futuro, ma alzi la mano chi crede che ci riusciranno, stante la terrificante sequenza di professionisti rispettabili (in panca e negli uffici dirigenziali) triturati da New York in questi anni.
Gli unici a festeggiare sono i giornalisti della Grande Mela, che, dopo aver accusato Carmelo Anthony di ogni male occorso all’umanità nell’ultimo lustro, già lo rimpiangono pregustando pagine e pagine a base di lai strazianti, ipocrita nostalgia per quanto si sarebbe potuto vincere con Melo, “se solo…”, e recriminazioni per la contropartita ottenuta (Doug McDermott, Enes Kanter e la seconda scelta dei Chicago Bulls nel draft ’18), che inevitabilmente non sarà all’altezza delle attese.
Chi ha qualche annetto, ricorderà le ultime stagioni di Patrick Ewing al Madison, contornate da frecciatine sul suo essere ormai in disarmo e accuse di voler bloccare la “linea giovane” di Latrell Sprewell e Allan Houston. Quando venne spedito a Seattle il Daily News gli dedicò un elegantissimo “Good Riddance” (traduciamo liberamente con “che liberazione!”) salvo poi fare marcia indietro a qualche mese di distanza, con Ewing in città per la trasferta ad est dei suoi Sonics, dedicandogli un’altra paginata (“Glad to See Ew” giocando con l’assonanza tra “you” e le iniziali del suo cognome). Insomma, corsi e ricorsi storici.
Lasciamoci alle spalle le beghe newyorkesi, e seguiamo Carmelo nel suo viaggio in Oklahoma, dove troverà una vita notturna leggermente meno movimentata rispetto a Manhattan, ma in compenso, sperimenterà una struttura societaria decisamente più compatta e razionale, plasmata da quel Sam Presti che ha colto abilmente tutte le opportunità sulla sua strada e senza colpo ferire consegna nelle mani di coach Billy Donovan un potenziale squadrone, al cui riguardo però, nutriamo delle riserve.
Russell Westbrook ha messo a referto un’intera stagione in tripla doppia, aggiudicandosi un MVP di pura forza di volontà, complice la pochezza di un roster fatto di comprimari disciplinati ma oggettivamente limitati. Quest’anno l’ex guardia di UCLA e Leuzinger High avrà il problema opposto, dovendo gestire -da leader- un gruppo talentuosissimo, che richiederà un adattamento a giocatori abituati ad un trattamento da prime opzioni offensive.
I trascorsi di Westbrook e Anthony, oltre alle caratteristiche tecniche di tutti e tre gli All-Star, fanno sospettare che quella dei Thunder sia una raccolta di figurine buona per qualche suggestione autunnale e poco più, ma esistono anche argomenti di senso opposto, a patto di mettere da parte ego e cattive abitudini (ed è un “big if” se ce n’è uno!) così da far fruttare i 27 milioni in più in Luxury Tax che Mr. Clay Bennett dovrà sborsare.
Nei suoi 14 anni di NBA Carmelo Anthony ha sempre messo a referto un UsgRt di almeno 28%, ma, tolta la Denver del 2009 e i Knicks del 2013, ha giocato in formazioni con poco talento e ancor meno ambizioni, circostanza che ha contribuito a modellarne il gioco su attacchi post-up e isolamenti al gomito. Non è caratterialmente un “culture changer”, questo è evidente; ha perso atletismo ed è difficile cambiare modo di giocare a 33 anni compiuti, ma ad OKC avrà la prima vera occasione in carriera ad alto livello. È già troppo tardi per invertire la tendenza?
Non pensiamo di ritrovarcelo a difendere come un ossesso (oddio, se c’è riuscito Glenn Robinson ai tempi degli Spurs, può farcela letteralmente con chiunque!) ma pensiamo possa fare un uso più razionale e meno egoista delle sue indubbie qualità. Si tratta di limare la quantità in favore della qualità dei propri possessi, evitando ogni pigrizia e scorciatoia. Se Anthony fosse approdato alla corte di (nome a caso) LeBron James, avremmo avuto pochi dubbi circa l’esito positivo di questo processo di crescita.
LeBron ha la personalità e l’inclinazione (a volte tendente al paternalismo, ma tant’è) indispensabili per trasformare chi lo attornia ed elevare il rendimento della squadra. Il rischio che corrono i Thunder è di non avere un leader che stabilisca al contempo una gerarchia interna allo spogliatoio e un meccanismo virtuoso sul parquet. OKC potrebbe diventare un terzetto di John Coltrane che improvvisano, anziché un trio che suona da uno spartito comune (stiamo citando un famoso esempio jazzistico di Phil Jackson).
L’indiziato principale per il ruolo di top-dog del branco è naturalmente Russell Westbrook, affermatosi durante un 2016-17 spaziale in termini di risultati personali. Russ è un perfezionista ipercompetitivo, che proprio per questo fatica a scendere a patti con chiunque altro. Può darsi che una grande stagione individuale avara però di soddisfazioni di squadra, gli abbia fatto vedere la luce, come capitò a MJ o Bryant.
Il tema della prossima stagione in Oklahoma sarà proprio questo: cosa accadrà a Westbrook con più talento attorno? Regredirà ai tempi di Durant, quando vigeva il più sterile possesso alternato, o evolverà, mettendo il suo cospicuo talento al servizio della squadra? Per completare il quadro di un anno vissuto pericolosamente, a fine stagione i due angeleni Westbrook e George saranno free agent ed è quasi certo che se le cose non andranno come devono, faranno le valigie.
Troveremo le prime risposte circa il valore effettivo di questo gruppo già durante il camp (inizierà domani, senza Westbrook, che sta riprendendosi dai postumi del classico trattamento medico al ginocchio a base di plasma e piastrine) ma comunque vada a finire, possiamo dire sin d’ora che questi scambi hanno aggiunto stelle e talento (che in NBA non è quasi mai una cattiva idea), riducendo però le rotazioni.
OKC ha messo a roster ben tre dei giocatori tra i primi venti per UsgRt nella passata stagione, e questo aiuterà a trovare punti, a dispetto di un roster non profondissimo. Il rischio è che questi canestri non arrivino dal flusso di gioco, ma da situazioni ISO o dal pick&roll ripetuto fino allo sfinimento (degli astanti e dei giocatori), e prevedibili con poco sforzo dalle difese avversarie. In ogni caso, i Big 3 dovranno abituarsi a giocare assieme, e con un numero inferiore di tocchi.
La natura two-way di Paul George aiuterà ad equilibrare la squadra, ma è altresì palese che Anthony e Westbrook dovranno dare una mano in difesa, facendo quel passetto in più per canalizzare meglio la penetrazione dell’avversario diretto. Steven Adams è un agonista eccezionale, ma non è un ombrello sufficiente a coprire due esterni non belligeranti.
Se Westbrook dovrà essere leader nel senso più puro del termine, George (che è molto più completo e atleticamente fresco rispetto a Melo) dovrà diventarne il naturale complemento; dovrà cioè calarsi nel ruolo del giocatore-collante, quello che magari non ne fa 20 tutte le sere, ma porta in dote quello che serve, azione dopo azione, partita dopo partita. Dispone delle qualità necessarie per avere impatto anche lontano dalla palla (ne gioverebbe anche la sua efficiency) e colpire le difese coi suoi tagli, sfruttando lo spazio aperto dai suoi illustri compagni: questa stagione ci dirà molto sul suo valore ad alto livello.
Ormai lo avrete capito, questi Thunder ci sembrano intriganti, perché c’è margine per assistere ad una stagione disastrosa, e allo stesso tempo, non ci stupiremmo nemmeno se li trovassimo in Finale di Conference. Mancano un po’ di comprimari (non ce ne vogliano Alex Abrines, Patrick Patterson, Jerami Grant e Andre Roberson) per poter pensare seriamente di impensierire i Golden State Warriors, ma qualche transfuga alla trade deadline si trova sempre (come insegnano proprio i Dubs e i Cavs); c’è la narrativa del riscatto del campione al tramonto (Melo) e quella dei leoni (Russ e Paul) pronti a mettere le mani sulla NBA, oltre alla mistica dell’ultimo ballo. Che dire, se vi serviva un altro buon motivo per seguire la stagione 2017-18, eccovi serviti!
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
C’é il rischio di una bella impepata di cozze, Russel regista non lo é mai stato, dipenderà molto da Carmelo (sia fuori che dentro il campo), quanto saprà adattarsi lui a Russel. Nel team Usa Anthony era una macchina da canestri piu’ che un mangia palloni, facesse sfuriate cosi’ per poi difendere senza troppe menate, forse…