I nostri racconti di playground ci hanno accompagnato spesso sulla costa atlantica, dalle parti di Manhattan; in quest’occasione invece, faremo una capatina sulle assolate rive del Pacifico, per raccontarvi la storia di Raymond Lewis, uno degli indiscussi sovrani dei campetti di Los Angeles e non solo, un fenomeno cestistico scelto al primo giro del draft ’73, che però non ha mai giocato un minuto da professionista, fermandosi ad un centimetro dalla meta e scivolando nell’oblio.
La città degli angeli è sempre stata una polveriera di conflitti etnici, che nel 1991 avrebbero poi dilaniato la metropoli a causa del famigerato pestaggio di Rodney King da parte dell’LAPD, cui seguirono giorni di paura, incendi e automobili rovesciate; è la Los Angeles degli NWA di Ice Cube, dei Bloods e dei Crips, del consumo di crak e di un Liquor Store ad ogni angolo: un crogiolo di crimine ed emarginazione, nel quale causa e conseguenza, sottosviluppo e crimine, si mescolano alla disperazione.
Nato il 3 settembre del 1952, il giovane Ray iniziò a tirare a canestro nella Los Angeles degli anni sessanta, un luogo e un tempo in cui i neri in cerca di giustizia sociale scandivano a gran voce per le strade dei ghetti le parole “I Am Somebody”, uno slogan non così distante da quel “Black Lives Matter” che purtroppo resta di stretta attualità anche nel 2017.
Era l’epoca dei “fatti di Watts”, dal nome del quartiere teatro delle proteste degenerate in una violenza cieca, che lasciò 34 corpi sulle strade, un migliaio di feriti e danni per 40 milioni di dollari in un’area periferica già disastrata dal degrado e infestata da bande di delinquenti in guerra tra loro. A due passi da Verbum Dei High School, che sarebbe poi diventata l’alma mater di Lewis, c’era Charcoal Alley, così soprannominata perché durante gli scontri era andata completamente bruciata.
Fuori dalle finestre di casa Lewis, che stava proprio a Watts, la folla manifestava per strada, inscenando delle guerriglie urbane che non giovavano certamente alla causa, un po’ come quei teppisti che approfittano dei sit-in contro la violenza della polizia per sfondare le vetrine dei negozi e rubare il rubabile.
Mentre per le strade infuriava la protesta, Lewis dominava i tornei delle High School cittadine con la sua Verbum Dei (piccola scuola privata di impronta religiosa), scaricando valanghe di punti sui malcapitati avversari, impreparati al confronto con una guardia così esplosiva e completa nel suo arsenale, fatto di velocità, palleggi incrociati, finte e controfinte, tiri scoccati all’improvviso che si insaccavano con implacabile dolcezza nella retina.
Ray era figlio di genitori separati; ogni tanto viveva col padre e ogni tanto con la madre, Ella, oppure ancora con i nonni, Rufus e Majestia, tutti in competizione per il suo affetto e pronti a farsi in quattro per consentirgli di pensare solo alla pallacanestro. Quella di Lewis non è una storia d’abbandono, anzi; suo nonno trasformò il cortile di casa in un campo da basket illuminato per far giocare il nipotino prediletto!
Il suo insegnante d’inglese, Padre Thomas James, lo ricorda come un ragazzo timido e non particolarmente studioso: “il basket era il centro della sua vita, e non aveva molta fiducia in sé stesso come persona, ma sul campo da basket era fenomenale; diventava un individuo completamente diverso”. Quella sua insicurezza di fondo però, sarebbe riemersa prepotentemente dinnanzi alle prime, vere difficoltà della vita adulta, come vedremo tra poco.
Lewis era un palleggiatore sicuro, veloce e dotato di gambe esplosive, potenti e capaci di improvvisi cambi di direzione. Il suo tiro era tecnicamente corretto, preciso e affidabile. Re del trash talk, disponeva a piacimento del difensore, spogliandone le debolezze con l’irrisoria facilità di chi sta scartando una caramella. Per giunta, era un atleta promettente anche nel Baseball e nel Football (qualcuno dice persino nel nuoto) ma il suo cuore batteva per i canestri.
In parte, la spiegazione per le sue escursioni sopra quota cinquanta si spiega con la riluttanza (diciamo così…) a passare la palla, ma parliamo di un tiratore con percentuali più che rispettabili, non di un mezzo giocatore che tirava tutto quel che gli passava per le mani. Viene in mente la celebre domanda che Michael Jordan rivolse a Tex Winter: “se non possono marcarmi, perché dovrei passarla?”.
I risultati arrivavano puntuali, come i punti sul tabellone: tre titoli consecutivi dello Stato vinti da Verbum Dei High School dal 1969 al ’71, e i due titoli di miglior giocatore del torneo. Continuò a macinare numeri e avversari anche al college (scelse California State-Los Angeles), quando tenne una media di 38.9 punti (la più alta tra tutte le matricole, davanti a tal David Thompson) con un massimo di 73 in singola partita, contro UC Santa Barbara.
Riuscì a battere la UCLA di coach John Wooden segnandone 40, nonostante nessuno nel roster di Cal State raggiungesse i due metri d’altezza. Dopo un secondo anno altrettanto entusiasmante, decise di passare al piano di sopra, in NBA, convinto dalle sirene di amici e profittatori. Coach Jack Ramsay in persona lo visionò per conto di Philadelphia, e quando, alla fine del primo giro nel draft del 1973, i 76ers chiamarono il suo nome, fecero di lui il più giovane giocatore ad esser mai stato scelto fino a quel momento.
Era scivolato alla 18 a causa della giovane età e per la provenienza da un ateneo di piccole dimensioni, ma se vi fosse capitato di interpellare un qualsiasi scout (da Sonny Vaccaro in giù), vi avrebbe risposto che Ray Lewis era un eccellente giocatore, una guardia che nel giro di qualche mese sarebbe diventata una stella NBA in un backcourt delle meraviglie con Doug Collins, prima chiamata assoluta reduce dalle Olimpiadi del 1972.
La stampa di Philadelphia prese Ray subito in simpatia, parlandone come della seconda venuta di Earl Monroe, e soprannominandolo “fantasma”, perché era lo Steal of the Draft. In realtà, quel soprannome si sarebbe rivelato appropriato, ma per tutt’altri motivi.
Subito dopo la selezione, Don DeJardin (il GM dei Sixiers) ricevette sei o sette telefonate da parte di gente che sosteneva d’essere l’agente di Ray Lewis, che però, disse a DeJardin d’essere l’agente di sé stesso, salvo arrivare a Philly accompagnato da Paul McCraken, un ex giocatore NBA il cui ruolo nelle successive negoziazioni rimase abbastanza oscuro.
Lewis, che evidentemente non aveva in comune con Ray Allen l’acume per gli affari, si ritrovò in mano un accordo al ribasso, che gli avrebbe garantito 25.000 dollari per l’ingaggio, poi, a salire, 50.000 dollari il primo anno, 55.000 il secondo, e 60.000 il terzo anno. Non erano cifre terribili per l’NBA dell’epoca, e comunque Ray se l’era cercata, negoziando in prima persona; con un agente avrebbe quasi certamente potuto spuntare più soldi, ma di certo erano somme che a Watts, California, non guadagnava nessuno.
Dopo averne parlato a suo padre con una telefonata, Ray firmò, ma poi scoprì che quel Doug Collins che batteva ogni giorno in allenamento aveva un contratto da 200.000 dollari l’anno, e tentò di rinegoziare l’accordo, creando una frattura con la franchigia che non si sarebbe mai più ricomposta. Assunse come suo rappresentante Al Ross, che curava anche gli interessi di Spencer Haywood, e la situazione finì fuori controllo, tra capricci e fughe a Los Angeles.
La lite coi Sixiers pose fine alla carriera di Lewis subito dopo il rookie camp, prima di poter scendere in campo in quello che sarebbe stato il suo esordio da professionista allo Spectrum, contro gli Houston Rockets. L’anno successivo Ray Lewis provò a passare in ABA con gli Utah Stars, ma i 76ers, indispettiti, si misero di traverso, bloccando l’accordo quando già Lewis sedeva sulla panchina degli Stars con la divisa addosso, mentre il suo “agente”, Al Ross, lo denunciava per mancati pagamenti e prestiti mai restituiti.
Scornato, Ray tornò a Los Angeles a giocare per strada, incantando il pubblico dei tornei locali della Southern California, come la Drew League, racimolando qualche soldo come poteva, e allora forse –pensiamo noi– tanto sarebbe valso far buon viso a cattivo gioco, accettare d’aver sbagliato firmando un “brutto” contratto, imparando la lezione e andando avanti.
Questa però non era un’opzione per Lewis e per il suo ego, definito senza mezzi termini colossale da chi lo ha conosciuto e visto giocare. Nonostante la retorica sulla dura vita dei ghetti, l’infanzia a Watts non l’aveva preparato a fare i conti con le difficoltà della vita e del mondo “bianco”. Gli avevano fatto credere che tutto fosse dovuto ad un talento come il suo, un po’ come capitò ad Earl Manigault, l’uomo che “poteva girare per Harlem senza un soldo in tasca, e avere tutto ciò che voleva”.
Anche a Cal-State si ripeté il medesimo copione: gli avevano regalato una Corvette fiammante (che sua madre distrusse in un incidente) e una DeTomaso Pantera per convincerlo a firmare la lettera d’intenti, e per due anni lo coprirono di regali, oltre a gonfiarne i risultati accademici, mentre alcuni agenti gli concedevano “prestiti”. Naturalmente tutto questo era ed è illecito, ma non ha senso fingersi scandalizzati: è capitato e capiterà ancora, finché l’NCAA non metterà fine alla finzione dello studente-giocatore o a regolarla in senso più restrittivo.
L’impatto col professionismo lo fece a pezzi: Ray non era pronto ad essere uno dei tanti, e non era abituato a sentirsi rispondere di no. Si mise a fare i capricci, e con sommo dispiacere di coach Gene Shue venne messo alla porta senza troppi complimenti (ma dandogli circa 40.000 dollari). Nel giro di qualche anno, Ray si trovò a vivere in casa dei nonni a Compton con moglie e figlia (cui poi sarebbe seguito il secondogenito, Rashad), dipendendo in tutto e per tutto dell’elemosina altrui. Di cercarsi un lavoro, non c’era neanche da parlarne… Ray ciondolava vicino ai playground, bevendo birra e raccontando le sue storie a chi voleva starlo a sentire.
Quando si dice che sarebbe potuto diventare un cestista del calibro di Oscar Robertson o di Jerry West, ci si dimentica che la testa è una componente importante (certe volte anche più del talento puro) in ogni carriera di successo, ed era proprio la tenuta mentale a far clamorosamente difetto al nostro Ray, che provava disagio a cambiarsi col resto della squadra, passava il proprio tempo solo con una ristretta cerchia di amici, e detestava parlare con gli sconosciuti, fossero anche rappresentati di squadre NBA arrivate in città apposta per lui.
Il nuovo GM dei Sixiers, Pat Williams, provò a recuperare l’investimento, comprando una quota in una squadra della Southern California che disputava una lega estiva al solo scopo d’aiutare Ray a rimettersi in forma per il training camp. Sembrava che tutto andasse bene, ma un giorno Ray sprintò per andare di cherry-picking, non ricevette palla e abbandonò il campo, il torneo e la squadra.
Williams non si scoraggiò, e gli comprò un biglietto aereo per Philadelphia, andandolo ad aspettare in aeroporto. Ray Lewis sbarcò con la Bibbia sottobraccio, chiacchierando con Miss USA 1975 (che gli era capitata come vicina di posto!) e sembrava potesse essere la volta buona. Poi però, fronteggiò in allenamento la nuova guardia della squadra, Lloyd Free (quello che sarebbe poi diventato World B. Free) e la brutta figura rimediata lo spinse a nascondersi dietro ad un presunto infortunio alla schiena.
Lasciò nuovamente la squadra (Williams gli pagò il viaggio di ritorno a Los Angeles) e Philadelphia annunciò che non avrebbe più fatto tentativi per riportare Raymond Lewis in squadra. Lewis giocò la carta del razzismo, secondo quanto riportava un giornale locale di Watts: “Fossi stato bianco, starei giocando e meritandomi i plausi come uno dei più grandi in questo sport”; una frase imbarazzante, visto che parlava di una NBA dominata dai vari Bill Russell, Wilt Chamberlain, Kareem Abdul Jabbar, Oscar Robertson e Tiny Archibald, in cui solo un pazzo avrebbe cacciato un potenziale fenomeno per dar spazio a Doug Collins!
Nel frattempo l’ex GM dei Sixiers che lo aveva ostracizzato, DeJardin, s’era stabilito in California e vi aveva aperto una gelateria; gli capitò d’incontrare Lewis in un parcheggio, e i due allacciarono un rapporto. Don DeJardin disse che “nel 1973 Ray era un ventenne con le emozioni di un quattordicenne; oggi invece (era il 1978, n.d.r.) è un venticinquenne con le emozioni di un trentacinquenne, perché ha dovuto affrontare e superare tempi difficili”. DeJardin pensava di riuscire a rimettere sui binari giusti la carriera di Lewis, ma il destino aveva carte diverse in serbo.
Provò a ritornare in NBA varie volte, come nel ’77, quando ottenne un provino per i New York Knicks, e si preparò partecipando ad una lega di dopolavoristi a Costa Mesa: fece discretamente bene, ma i Knicks avevano tante guardie e non lo firmarono. Ebbe la sua chance a San Diego, da coach Shue, ma finì tagliato prima del training camp autunnale, perché ai Clippers serviva un playmaker classico.
A 32 anni, si lanciò in un ultimo, estremo tentativo, e per poco non fece la squadra con i San Antonio Spurs, allenati da Jerry Tarkanian, suo estimatore della prima ora; la leggenda vuole che Ray ne abbia addirittura segnati 67 in una partita di Summer League! Non era più il ragazzino arrogante che umiliava gli avversari col trash talk; quel giovane convinto della propria invincibilità era scomparso, lasciando il posto ad un uomo provato, stanco e deluso.
Era ancora un tiratore temibile, un atleta forte e senza paura, e questo contribuisce ad accrescere il rimpianto per quella che sarebbe stata con ogni probabilità una grande carriera se solo Ray non fosse stato al contempo così fragile e presuntuoso. Continuò a raccontare a tutti i falliti che stazionavano per le strade di Compton che i giocatori NBA avevano paura di lui, ma era semmai vero il contrario!
Nondimeno, Raymond Lewis è diventato una leggenda dei Playground da Crenshaw ad Alameda, da Walnut Park a Inglewood, tanto che sua figlia, Kamilah, dice che a South Central c’è gente che vuole stringerle la mano per il semplice fatto d’esser figlia del grande Ray, e anche giocatori NBA come Andre Miller (che ha frequentato Verbum Dei prima del college a Utah) Kiki Vandeweghe, Reggie Theus e David Greenwood sono cresciuti ascoltando storie su Ray Lewis e le sue imprese. C’è anche chi, come coach Lorenzo Romar (che ha allenato Markelle Fultz a Washington e ora è assistente ad Arizona) venne preso sotto l’ala protettiva di Lewis.
Tanti “old timers” ricordano quando, nel 1983, segnò un cinquantello in faccia a Michael Cooper, una delle migliori guardie difensive di tutti i tempi; altri ne hanno fatto un principe di stoico vittimismo contrapposto alla prepotenza dei bianchi, e poco importa se poi quasi tutte le persone che provarono ad aiutarlo erano, di fatto, bianche e per giunta parte di quell’establishment che, secondo i cospirazionisti, lo voleva boicottare per qualche recondito motivo.
Ray è morto a Los Angeles nel 2001, a 48 anni, in seguito alle complicazioni susseguite all’amputazione di una gamba infettatasi mesi prima. Non si è mai davvero misurato con i grandi giocatori cui si paragonava sempre, e quindi sarebbe ingiusto dar credito alla sua Leggenda. Allo stesso tempo, è inevitabile provare empatia per un grande giocatore fin troppo umano nelle sue debolezze, uno che, in ultima istanza, è stato divorato dai demoni interiori e dal dubbio di non esser davvero così forte come tutti dicevano.
https://youtu.be/IyQf_HUpKYw
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.