Il destino è una strana trappola, che imprigiona solo chi ci crede. I Los Angeles Clippers sono stati a lungo l’emblema cestistico della Legge di Murphy, per cui, se qualcosa può andar male, inevitabilmente lo farà. Parecchie cose erano cambiate nelle ultime stagioni; Chris Paul, Doc Rivers e Steve Ballmer hanno alterato la percezione di una franchigia eternamente derelitta, ma quando Paul ha annunciato il proprio addio, molti addetti ai lavori hanno dato per scontato che l’esperienza dei Clips ad alto livello fosse giunta al capolinea, scontando l’ennesima stagione al di sotto delle (elevate) attese.
Stante questa diffusa sensazione d’insoddisfazione (ma a ben vedere, negli ultimi quattro anni solo 3 franchigie hanno vinto più partite) sull’estate 2017 aleggiava il presagio di un fuggi-fuggi generale, assistito dalla coincidenza delle scadenze contrattuali di Chris Paul, Blake Griffin e JJ Redick, e perfettamente coerente con il destino storico di questa franchigia senza requie, che tra Buffalo, San Diego e Los Angeles, ha accumulato ben poche soddisfazioni, a fronte di disfatte epiche.
Persino in quest’ultimo lustro (autentico zenit qualitativo dei Clippers) ci sono state troppe eliminazioni sanguinose, critiche ai leader del gruppo, frizioni sopite e mai dimenticate, per pensare che la ditta Griffin-Paul-Rivers potesse sopravvivere indenne alle mille tentazioni della free agency. Il ritorno dei Clippers-barzelletta pareva davvero dietro l’angolo, alla faccia di un monte salariale da 114 milioni, il terzo di tutta l’NBA.
Fiutando una facile preda, i Phoenix Suns di coach Earl Watson erano andati alla carica per DeAndre Jordan, offrendo in cambio un pacchetto in fondo non male (Tyson Chandler e la quarta scelta assoluta) in vista di uno smantellamento, sentendosi però rispondere picche da una dirigenza arricchita della presenza ormai mitologica di Jerry West, a caccia di nuovi stimoli dopo aver agito da consigliere per Larry Riley e Bob Myers a Oakland.
Mr. Logo (è l’omino che palleggia sullo stemma della NBA) è probabilmente il miglior General Manager di tutti i tempi, oltre ad essere stato una delle migliori guardie ad aver mai calcato il parquet; West ha contribuito a costruire i Los Angeles Lakers degli anni ottanta, e nel 1996 ha portato in gialloviola Kobe e Shaq; ha dato rispettabilità ai Memphis Grizzlies, e compiuto l’ennesimo capolavoro sulla Baia di Frisco, contribuendo a costruire la “cultura” dei Dubs, facendo sfoggio di un eclettismo e un’apertura mentale che tutti vorrebbero avere, alla verde età di 79 anni!
West è una figura che mancava nel front-office angeleno, dominato dalla presenza di Doc Rivers, affiancato da Lawrence Frank e dalla squadra del nuovo GM, Dave Whol (con lui lavorano Gary Sacks e Gerald Madkins). L’uomo da West Virginia ha immediatamente innalzato il livello qualitativo delle decisioni dirigenziali di una franchigia che è riuscita a trasformare un potenziale disastro (l’addio dei big) in un’opportunità per ricostruire il roster senza tankare.
Nel 2013 Donald Sterling (poi travolto dal ben noto scandalo) offrì a Glen “Doc” Rivers le chiavi del regno e un ruolo da plenipotenziario, pur di convincere quello che all’epoca era considerato il miglior allenatore della pista a lasciare Boston e cucire un’identità forte per una franchigia con tanti di quei complessi d’inferiorità, da poterci riempire lo Staples Center –dove Rivers chiese appunto di far coprire le immagini e i vessilli dei Lakers, che facevano bella mostra di sé anche quando giocavano i rosso-blu.
La rivoluzione culturale del club era già iniziata grazie all’arrivo di Chris Paul –propiziato da David Stern– e all’inedita attitudine di Sterling ad aprire il portafoglio (lui che per anni s’era rifiutato di rifirmare i giocatori alla scadenza del contratto da rookie), per costruire ad esempio il modernissimo centro sportivo di Playa Vista, che tuttora possiede e affitta alla franchigia (fino a quel momento i Clips s’erano allenati in una normalissima palestra aperta al pubblico, come una squadra di dopolavoristi!).
Doc ereditò da coach Vinnie Del Negro una formazione sbarazzina, giovane, promettente e difensivamente mediocre; nel giro di un anno la trasformò in un gruppo tignoso, svoltando la carriera di DeAndre Jordan (fino a quel momento, un atleta abbastanza fine a sé stesso) e rivisitando il suo infinito playbook in funzione di Paul e Griffin, con tante ricezioni dal post medio, pick-and-roll e soluzioni mutuate dagli attacchi “corna”, con due blocchi sulla linea di fondo.
Questi successi però, vanno a braccetto però con l’incapacità di tradurre i progressi tecnici in vittorie ai Playoffs, dove si è raggiunto il secondo turno in appena due occasioni, e per una gestione manageriale mediocre, che non ha mai completato la rotazione (alternando veterani bolliti reduci dal ciclo dei Celtics e scommesse, quasi tutte perse) e tantomeno trovato un’ala piccola degna del quintetto base di una contender.
L’insoddisfazione di Chris Paul nei confronti di questo roster e di coach Rivers (qualcuno ha tirato in ballo il trattamento riservato ad Austin Rivers, il figlio del coach, ma sono voci e come tali le trattiamo) lo hanno spinto a traslocare in Texas (sarà contento il Governatore, il repubblicano Greg Abbott, che non perde occasione di sottolineare ogni piccola vittoria del Lone Star State sulla odiata California) accasandosi a sorpresa agli Houston Rockets.
L’idea di schierare contemporaneamente due guardie dominanti sul pallone e con la tendenza ad “andare corte” nei Playoffs è intrigante (e spericolata), quindi seguiremo con interesse questo nuovo progetto di Daryl Morey e Mike D’Antoni, ma eravamo convinti che Paul avrebbe scelto la franchigia più logica, stante la sua età e la voglia di vincere: i San Antonio Spurs, che oltretutto, avevano proprio bisogno di un nuovo play titolare, in attesa di capire quando (e come) Tony Parker tornerà in campo.
I Clippers, che la notte del Draft non avevano scelte e hanno acquisito i diritti per Sindarius Thorwell (e ci fa molto piacere, visto che ne avevamo scritto entusiasticamente in “Road to the NBA” qualche giorno prima), selezionato alla 48, hanno esteso il contratto di Blake Griffin (quinquennale da 173 milioni) e preso atto della decisione di Chris Paul di salutare tutti e trasferirsi alla corte di James Harden.
Paul e i Clippers si sono andati reciprocamente incontro, con un’operazione che ha consentito a tutti di uscire elegantemente da una situazione potenzialmente spinosa. Trovato l’accordo con il club, l’ex playmaker di Wake Forest (che sarebbe diventato free agent solo esercitando una clausola contrattuale) non è uscito dal suo vecchio accordo, venendo di fatto scambiato.
È una mossa che consentirà a Paul di passare alla cassa tra un anno, per riscuotere un contrattone oltre i 200 milioni di dollari (che gli sarebbe stato precluso, se avesse firmato da free agent “puro”), e che al contempo ha consentito ai Clippers di ricavare qualcosa dalla sua cessione.
Naturalmente Sam Dekker, Patrick Beverley, Lou Williams, DeAndre Liggins, Darrun Hilliard, Montrezl Harrell, Kyle Wiltjer, e una prima scelta 2018 (protetta top-3) non sono una contropartita adeguata per una stella di prima grandezza come Chris Paul (pur trentaduenne), ma costituiscono un patrimonio di asset potenzialmente utili ad una franchigia intenta a reinventarsi senza perdere competitività.
Il terzo anno Sam Dekker, dopo una prima stagione difficile era riuscito a guadagnare minuti nell’attacco di D’Antoni, perdendo il posto in rotazione solo a causa di un infortunio occorso alla vigilia dei Playoffs. L’ex Wisconsin non è uno starter NBA, ma ha potenziale per allungare la rotazione nel delicato spot di ala piccola.
Lou Williams, veterano con punti nelle mani al suo meglio in uscita dalla panchina, dovrà sostituire un po’ Jamal Crawford e un po’ JJ Redick –finiti rispettivamente a Minneapolis e Philadelphia– dividendosi i minuti col confermatissimo Austin Rivers.
Pat Beverley, che ha ringraziato la città di Houston e la franchigia, avrà il compito di tenere alta l’intensità difensiva nella posizione di point-guard, con un contributo a base di intensità e giocate di sacrificio, al netto di un tasso tecnico evidentemente meno qualitativo rispetto a Chris Paul.
Los Angeles però non si è fermata qui, facendo onde sul mercato dei free agent, firmando Milos Teodosic (alla sua prima esperienza NBA, dopo anni e anni di gloria in Eurolega) e Danilo Gallinari, che ha detto addio ai Denver Nuggets in favore della vita in riva al Pacifico e di una franchigia ambiziosa.
I Clippers hanno operato così bene, accrescendo il tasso di talento medio della squadra, da far sorgere il dubbio: e se, perdendo CP3, si fossero migliorati? Non abbiamo la sfera di cristallo e non possiamo predire se tutte le scommesse messe sul tavolo da Whol e West avranno successo, ma Los Angeles si è trovata costretta a fare delle scelte, e ha agito con raziocinio e coraggio, uscendone rafforzata dalla sensazione di non essere solo un’accozzaglia di talenti, bensì un’organizzazione capace di ragionare andando oltre agli interpreti.
I nuovi Clippers non avranno una point-guard così dominante, e allora, nelle parole di Rivers “serve usare una attacco di movimento con versatilità” tutto da scoprire, e che costringerà lo stesso Doc a rivedere le proprie convinzioni offensive in funzione di un quintetto a cavallo tra Europa e USA, che dovrà trovare un terreno d’incontro a metà tra la motion-offense e gli isolamenti o i giochi chiamati dalla panchina ed eseguiti pedissequamente.
Con Teodosic a gestire il pallone, e Gallinari come playmaker “aggiunto”, Los Angeles ha tutto per far bene in attacco (compreso un realizzatore come Griffin), ma potrebbe incontrare qualche difficoltà nella metà campo difensiva, dove ci saranno tantissimi centimetri a disposizione (la front-line sarà composta da Jordan, Griffin e Danilo!) ma pochi difensori d’alto livello (DeAndre e Patrick Beverley). Doc Rivers dovrà essere bravo a trovare l’alchimia giusta, anche perché, nonostante sia Presidente del club, una stagione negativa potrebbe convincere Ballmer a cambiare direzione tecnica.
Sarebbe stato più semplice smantellare tutto, scaricare la colpa su Chris Paul e iniziare una lenta ricostruzione a base di cinismo e sabermetrica (così da tenere al sicuro il posto di lavoro per qualche annetto), “vendendo” al pubblico pagante la prospettiva di una squadra competitiva giusto in tempo per l’inaugurazione del nuovo impianto (in fase di progettazione e programmato per il 2024, quando scadrà l’accordo con lo Staples; sorgerà ad Inglewood, vicino al Los Angeles Stadium dei Rams e dei Chargers della NFL).
I Clippers invece hanno scelto d’investire sei milioni annui su di un rookie trentenne come il grande Milos, e 20 su un’ala italiana incline agli infortuni ma d’indubbio talento offensivo come il figlio di Vittorio Gallinari. Se il “nostro” Gallo è sostanzialmente una scommessa sicura (resta da capire se avrà minuti anche da stretch four, il ruolo probabilmente più naturale per lui nel basket NBA moderno), tanto del futuro di L.A. dipenderà dal rendimento in terra americana di Teodosic.
Il serbo è un talento sopraffino, ma arriva in NBA molto tardi, e abbiamo già assistito ad esperimenti di questo genere conclusi anzitempo con una crisi di rigetto (Antoine Rigaudeau a Dallas, e soprattutto, Sarunas Jasikevicius a Indiana). Va detto che rispetto ai tempi dell’ex virtussino e del play di Kaunas, oggi c’è più apertura mentale verso gli europei, e che il CSKA è quanto di più affine ad una franchigia NBA si possa trovare al di fuori del nord America, ma Teodosic dovrà comunque lavorare per adattarsi ai tempi (specialmente quelli difensivi) NBA.
Se le qualità offensive di Teodosic non possono essere in alcun modo discusse, resta da verificarne la tenuta difensiva, anche se Patrick Beverley sarà pronto a lavorare per due (Pat che, peraltro, usa “Teodosic” come alias negli alberghi sin dal 2010, e che nutre stima incondizionata verso quello che definisce “forse il miglior passatore di tutta la NBA”).
I nuovi Clippers sono una squadra profonda –anche se non talentuosissima– tra gli esterni, e le parole di Austin Rivers (si è detto certo di giocare in quintetto) sembrano eccessive e premature, con Teodosic, Beverley, Williams e Thorwell a contendergli un posto sia nello starting-five, che in rotazione (mentre Liggins appare oggettivamente destinato a non vedere il campo).
La posizione di ala piccola appare saldamente nelle mani di Gallinari (tanto più che l’eccellente Luc Mbah a Moute ha seguito Paul ai Rockets, perdendo clamorosamente la scommessa con la free agency e accontentandosi di un contratto al ribasso) con Dekker alle sue spalle, mentre ovviamente l’ala forte titolare sarà Blake Griffin, chiamato ad una maggior leadership e ad un ruolo da superstar assoluta, dopo troppe annate fatte di alti ed altrettanti bassi, specialmente comportamentali.
Dietro di lui lotteranno per un po’ di spazio Brice Johnson (positivo in Summer League, dopo essersi ritrovato ai margini nel corso del suo anno da rookie) e Montrezl Harrell, che parte favorito. Anche la posizione di centro ha un titolare indiscusso: DeAndre Jordan, che non avrà più a che fare con la leadership e le ramanzine di Paul, e si divertirà a ricevere gli alley-hoop anche da Teodosic. Alle sue spalle, è arrivato l’ex Heat Willie Reed, un journeyman intenso, firmato al minimo per i veterani (1.5 milioni) e che porterà legna in cascina.
La Summer League di Las Vegas è servita a Jawun Evans (play da Oklahoma State) per mettersi in mostra; la 37esima scelta dei Sixiers s’è guadagnata un posto al training camp di settembre. Farà la spola con la G-League (adesso la D-League si chiama così, portate pazienza…) lavorando su selezione e meccanica di tiro, aiutato magari da Jamil Wilson, suo compagno d’avventura che, dopo l’esperienza torinese, è riuscito a sbarcare in NBA.
Hanno mostrato buone cose anche il neo-acquisto Wiltjer, Isaiah Hicks (anche lui sarà al training camp con il suo atletismo da stoppatore e schiacciatore) e Jaron Johnson, tutti agli ordini di coach Sam Cassell, davvero convincente nei panni del capo-allenatore un po’ linguacciuto (non avevamo dubbi, conoscendo Sam-I-Am) e carismatico.
Nessuno pensa che i Los Angeles Clippers edizione 2017-18 vinceranno il titolo, ma sono una realtà intrigante e destinata a sorprendere i tanti appassionati che li considerano spacciati, convinti che nel destino dei Clippers ci siano solo disfatte. Per la prima volta nella loro storia, i Clips non si sono arresi agli eventi, ed è un cambio di passo che potrebbe aiutare la franchigia a trovare autostima e consapevolezza del proprio valore, in campo e fuori.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.