Se vi piacciono talento e sregolatezza, oppure i racconti di vite da rock-star vissute pericolosamente, potete interrompere qui la vostra lettura. Se invece, contrariamente a quanto scrisse Tolstoj nel più bell’incipit della storia della letteratura mondiale, pensate che la felicità familiare possa assumere connotati diversi, Jayson Christopher Tatum, la nuova ala dei Boston Celtics, potrebbe fare al caso vostro.
Jayson è figlio di Justin Tatum, un insegnante d’educazione fisica e di pallacanestro alla Christian Brothers College high school di Saint Louis, e dell’avvocato Brandy Cole, fidanzatini alle scuole superiori, che non hanno mai vissuto sotto lo stesso tetto. Completano la famiglia Jaycob e Kayden, avuti da una nuova e più recente relazione di Justin con la sua nuova compagna, Maria. Quella dei Tatum è dunque una famiglia allargata e moderna, come tante nella placida St. Louis e nel resto del mondo, ma Jayson è cresciuto senza dover affrontare la fame o altre situazioni estreme, purtroppo non così rare nella comunità afro-americana a stelle e strisce.
Non che i Tatum-Cole si siano ritrovati una vita agevole servita sul piatto d’argento, tutt’altro: la signora Brandy rimase incinta a 19 anni, e lo scoprì quando tra lei e Justin era già finita. Brandy non era però il tipo da riporre i sogni nel cassetto in attesa del “momento giusto” che non sarebbe mai più ripassato. Non poté giocare nella squadra di pallavolo di Tennessee, ma decise di iscriversi ugualmente all’università, dividendosi tra studio, lavoro, e le esigenze del piccolo Jayson; quando nonni e babysitter non erano disponibili, si portava il marmocchio in classe alla Saint Louis University, e pazienza se qualcuno la guardava perplesso.
Brandy ha fatto ogni genere di lavoro pur di pagarsi gli studi, dal pulire i bagni pubblici a incartare regali alla cassa; ha fatto la commessa e la donna delle pulizie: tutto, pur di mantenersi e pagarsi un’istruzione. Una volta, quando Jayson aveva 2 anni, la chiamarono i pompieri, dicendole che casa sua era andata in fiamme mentre lei era a lavoro. Jayson era col nonno, quindi tutto sommato andò bene, ma in quell’incendio persero tutto quel che possedevano; “Sapete quei completini per neonati che la gente tiene da parte in un cassettone? Oppure una copertina, insomma, qualche ricordo? Abbiamo perso tutto, ma poteva finire peggio; sarebbe potuto capitare di notte”.
Dopo tanti sacrifici, riuscì a laurearsi in Giurisprudenza mentre Justin, il padre di Jayson, imbastiva una modesta carriera professionistica in Olanda al termine degli anni di college a SLU. Justin tornò in America nel 2006, e riallacciò i rapporti con il figlio, allenandolo a livello AAU coi Saint Louis Eagles fino al 2012, quando Jayson iniziò le scuole superiori, tenendo fede al patto con mamma Brandy: va bene impegnarsi a fondo col basket, ma non a scapito della scuola, o dell’impegno col volontariato.
Iscrittosi alla Chaminade College Preparatory High a Creve Coeur, in Missouri, Tatum diventò rapidamente la stella della squadra di basket, fregiandosi anche del titolo di prospetto a cinque stelle (numero uno nazionale, per ESPN’s 60), scrutinatissimo dai principali college del Paese. Chaminade è un collegio esclusivamente maschile, dal quale sono usciti anche David Lee e la stella dei Washington Wizards, Bradley Beal, divenuto amico della famiglia Tatum e confidente di Jayson.
Da Freshman Tatum mise a referto 13.3 punti di media, ma le sue cifre erano destinate ad impennarsi nell’anno da Sophmore, quando segnò 26 punti a gara, con 11 rimbalzi di media. Nell’anno da Junior, arrivò a 25.9 e 11.7 rimbalzi, per poi finire l’anno da Senior con 29.6 punti, 9.1 rimbalzi, ben sei quarantelli e il titolo statale nella sua categoria, guadagnandosi i galloni per partecipare all’immancabile McDonald’s All-American Game, chiuso come miglior marcatore della formazione dell’Est, con 18 punti.
Tatum è un figlio d’un allenatore e ha la proprietà tecnica che ci si aspetta da questa classe di giocatori, ma, a differenza di molti altri, il signor Justin non l’ha voluto allenare a tutti i costi (magari usandolo per lucrare una panchina prestigiosa), lasciando che si iscrivesse ad una scuola diversa dalla sua CBC high, che, tra le altre cose, è anche la sua alma mater, essendosi ivi diplomato nel 1997, quando evoluiva con il suo miglior amico, tal Larry Hughes, dinnanzi agli spalti gremiti dello Scottrade Center.
I due Tatum si ritrovarono (malvolentieri) uno contro l’altro nel corso del campionato Statale, continuando una rivalità familiare per cui Justin rivendica i suoi tre titoli del Missouri (uno da giocatore, due da coach), e Jayson risponde con l’argenteria vinta con le giovanili di Team USA (due ori, uno a Dubai nel 2014, e uno in Grecia, nel 2015): “Lui ha vinto le sue contro lo Stato, io ho conquistato le mie contro il mondo”.
Nessuno metterebbe mai in dubbio che l’influenza principale nella vita di Jayson Tatum sia stata quella della madre, con la quale ha una relazione evidentemente molto salda. È lei ad avergli trasmesso grande attenzione per la comunità e senso di responsabilità rispetto al suo ruolo di “figura pubblica”, ed è a lei che Jayson ha promesso di laurearsi, perché i soldi della NBA aiutano, ma è meglio avere anche due o tre nozioni su come spenderli in modo sensato. Anche per questa ragione, Jayson non ha seguito i consigli di Larry Hughes e di suo padre, che spingevano per restare in Missouri, vicino a casa.
Nella gara per accaparrarsi questo prospetto con chiaro potenziale da NBA (c’erano tutti, da Arizona a North Carolina, tanto che Jayson dovette prendersi un telefono apposito per i reclutatori), Duke è stata aiutata dalla reputazione di ateneo solido, che coltiva le menti dei propri studenti (persino dei jocks, gli atleti), e che non si è trasformato in un allevamento di polli in batteria, anche grazie ad un Mike Krzyzewski che ha promesso alla signora Cole che il pargoletto avrà la sua maglia numero zero ritirata solo quando passerà da Durham per incassare il suo titolo di studi.
Nel corso delle sue 29 partite in maglia Blue Devils (Coach K lo ha schierato in quintetto in 27 occasioni), Tatum ha vissuto la delusione di una prematura eliminazione nella March Madness, ma ha collezionato cifre ragguardevoli, con 16.8 punti di media, 7.3 rimbalzi e il 45.2% dal campo, guidano la squadra fino al secondo seed nel torneo NCAA, conclusosi con la disfatta contro la Cenerentola South Carolina (nell’occasione, 15 punti, 5 palle perse e 5 falli per Tatum).
Jayson è sempre stato molto alto rispetto ai coetanei (a sedici, aveva già superato i due metri), ma questo non gli ha impedito di costruirsi sin da subito una buona dote di movimenti lontano da canestro, oltre che un ragguardevole range di tiro. Galeotta fu la passione sconfinata per Kobe Bryant, idolo d’infanzia sul quale ha cercato di modellarsi –tra un jumper in allontanamento, uno spin-move e una finta con la testa– nelle partite giocate in cortile contro suo padre e Hughes, che, prima di distruggersi le ginocchia, era stato una guardia d’ammorbante eleganza e talento.
Tatum è diventato un giocatore molto diverso rispetto al Black Mamba: non ha la stessa cattiveria nello spogliare il difensore, ma in compenso vanta uno stile da educato da scorer che farà molto comodo ai Celtics e che si abbinerà bene con Gordon Hayward, molto più a suo agio da point-forward rispetto a Jayson. Il Gm di Boston, Danny Ainge lo ritiene il giocatore più forte del draft 2017, andando in controtendenza rispetto a chi preferisce il talento grezzo, come se quest’ultimo fosse automaticamente sintomo di un “tetto” più alto.
Tatum è sicuramente un giocatore più pronto rispetto a Markelle Fultz (appena battuto in Summer League con tanto di tiro della vittoria, per quel che vale), dal gioco più definito rispetto a Lonzo Ball, e infinitamente più maturo rispetto a Josh Jackson, e questo, assurdamente, gioca a suo sfavore, come se imparare a stare in campo più rapidamente implicasse un margine d’apprendimento più limitato!
Semmai è vero il contrario, perché non è detto che i giocatori più grezzi abbiano il talento e le risorse mentali per colmare quel divario che si è già creato, e che potrebbero non colmare mai. È assurdo presumere che chi possiede risorse atletiche e talento, imparerà a fare tutto, mentre chi ha già un buon bagaglio tecnico, non potrà mostrare miglioramenti, anche significativi.
Chump, com’è chiamato in famiglia, porta in dote a coach Brad Stevens (sempre che non venga coinvolto nella trade per Marc Gasol che pare sia nell’aria, e che dovrà ben comprendere una qualche contropartita tecnica diretta a Memphis) una buona dose di competitività e di talento al servizio della squadra, come si conviene a chi è passato dal Cameron Indoor e dagli allenamento di Krzyzewski.
È un eccellente atleta (e potrà migliorare curando di più l’alimentazione, a partire dall’eliminazione delle Imo’s Pizza (una catena di St. Louis che sforna un prodotto abbastanza rivedibile anche per gli standard USA) di cui è ghiottissimo, ma già così, è un atleta bello da vedere, elegante, compatto, con una piena padronanza dei fondamentali, potente e sotto controllo.
Durante gli anni dell’high school Jayson ha lavorato tutti i giorni, prima e dopo le lezioni, con Drew Hanlen (un allenatore locale dall’ottima reputazione anche tra i pro), rifinendo il suo stile di gioco, incurante dei commenti postati sui social media, spiacevoli effetti collaterali di una celebrità giunta prestissimo, almeno negli Stati Uniti. A 15 anni, Jayson Tatum s’è dovuto abituare agli sproloqui dei soliti idioti che passano la vita a criticare quella degli altri, ed è un adattamento che, con la pubertà cavalcante e tutte le fragilità annesse e connesse, richiede grande maturità.
La famiglia, complice la presenza di Hughes e Bradley Beal, l’ha gradualmente abituato all’impatto dei media (Brandy lo “intervistava” a tradimento nei momenti più disparati, per abituarlo ad avere la risposta pronta) e col mondo NBA (a 8 anni, Hughes lo portò a prendere i rimbalzi per LeBron James) ma d’ora innanzi, Tatum dovrà camminare con le sue gambe, adattandosi in fretta alla vita del professionista, con la pressione-extra data dal giocare per una franchigia con tante ambizioni nel breve periodo.
Da un punto di vista fisico, Tatum è perfetto per fare l’ala NBA; misura 205 centimetri, e la sua apertura di braccia ammonta a 210 cm, ha spalle e torace largo, ottima mobilità e buona velocità, che sfrutta benissimo in contropiede (in NBA non avrà lo stesso impatto a rimbalzo, ma al college catturava il pallone e si lanciava con movenze feline) anche senza palla, e che gli consente di arrivare al ferro dalla linea del tiro da tre con un singolo palleggio. Ha gambe un po’ magre e poco potenti, ma su questo lavorerà con lo storico trainer biancoverde Ed Lacerte.
Ha una buona meccanica di tiro (84.9% quest’anno) ed è cresciuto anche nei piazzati, che un tempo non erano esattamente il suo “pane e burro” (tutt’ora tira da tre col 34.3%). Palla in mano, è un realizzatore temibile dalla media distanza, grazie al lavoro di piedi e ai centimetri, che lo rendono difficile da contestare, ma non è solo una macchina da isolamenti (1.03 punti per possesso in situazione di post-up), per quanto debba certamente lavorare molto per imparare a riconoscere le situazioni in cui viene raddoppiato, e per imparare a scaricare la palla coi tempi giusti.
Dovrà rinforzarsi fisicamente, ma nulla lascia supporre che non possa imparare a sfruttare centimetri e coordinazione anche nei pressi dei verniciati NBA, situazione cui peraltro oggi si ricorre prevalentemente per sfruttare il miss-match. Non è tremendamente esplosivo quando parte da fermo, e questo in NBA può fare la differenza tra trovare il verniciato sguarnito, o già pattugliato dal difensore in aiuto, e dovrà migliorare nell’arresto dal palleggio andando a destra.
Uscendo dalla sfera realizzativa, il resto del suo gioco non è altrettanto progredito e raffinato, ma ha 19 anni, e tutto il tempo per migliorare anche in termini di playmaking e di difesa, dove sa esibirsi in intercetti spettacolari, grandi recuperi sul tiratore (se l’attaccante ha l’accortezza di fintare e penetrare, Jayson tende però a farsi sorprendere), ma dove può maturare in termini di costanza, possesso dopo possesso.
Non regala la sensazione di voler fermare il proprio uomo, e per questo, non lo definiremmo un difensore naturale, ma può lavorare sul suo approccio e crescere in un sistema come quello di Boston, che premia l’impegno (e non può permettersi un secondo difensore dedito solo a cacciare la palla o agli intercetti oltre a Isaiah Thomas). Per questo motivo, e per la non completa maturazione fisica, Jayson faticherà assai come stretch-four in difesa, dove rischia di subire la fisicità delle ali NBA, anche perché a volte, da l’impressione di evitare i contatti come la peste.
Non è e non sarà probabilmente mai un palleggiatore tremendamente creativo (è il motivo per cui talvolta si ritrova a tirare col floater o col fadeaway) e tantomeno un playmaker aggiunto, ma è un cestista intelligente, un lavoratore indefesso che continuerà a ad aggiungere movimenti e soluzioni al suo arsenale tecnico. Anche il tiro, che non ha particolari difetti meccanici, dovrà diventare più veloce, ma lo ribadiamo, stiamo scrivendo di un diciannovenne già molto NBA-ready rispetto a tanti coetanei.
Non è chiaramente l’ideale per un playbook di stretta osservanza pace-and-space, perché non è continuo nel tiro pesante, e tende a fermare la circolazione di palla, ma è un grande talento, capace di creare situazioni di vantaggio nell’area di campo che oggi le difese tendono a lasciare sguarnita, e cioè lo spazio che va dalla linea del tiro da tre al verniciato. Opportunamente convogliato e addestrato a non infilarsi in possessi d’isolamento fine a sé stesso, Tatum può trasformasi in una risorsa preziosa nella faretra dei Boston Celtics.
In ottica NBA, Jayson Tatum è un prospetto di stella, ma quanto brillante, lo scopriremo solo seguendone l’evoluzione; come sempre, dipenderà dalla sua voglia di lavorare, ma la base di partenza è, in tutta onestà, entusiasmante, e saremmo davvero molto delusi se tra qualche stagione non diventerà una presenza fissa al All-Star Game.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Mi ricorda Grant Hill
Hill è un paragone impegnativo, però ci può stare, soprattutto per l’eleganza e per le doti dalla media distanza, posto che Grant Hill giocava in un contesto diversissimo, e che era nettamente più evoluto quanto a costruzione di gioco per i compagni. D’altronde, parliamo di un All-Star di primo piano, mentre Tatum deve ancora compiere vent’anni!