A Lepanto, Arkansas, i fratelli Monk sono degli eroi. Sono cresciuti nel playground noto come The Woodz, uno dei più duri del circondario, che Malik si è persino tatuato sul petto: quando gli chiedono che lezione ha imparato da ragazzo su quel campo, risponde “a non cadere sul cemento”.
Ma è stato Marcus, il maggiore, a estendere la fama della famiglia in tutto lo stato, e oltre. Quattro anni di football e basket nei Razorbacks, un’autentica celebrità nel campus di Fayetteville, poi qualche stagione da wide receiver in NFL: quando gli infortuni l’hanno fermato, si è riciclato come giocatore di pallacanestro nel campionato tedesco.
Per questo, quando il giovane Malik, prospetto a cinque stelle in uscita dalla high school, snobbò l’alma mater del fratello per cedere all’aggressivo recruiting dei soliti Kentucky Wildcats di John Calipari, molti se l’ebbero a male. Gridarono al tradimento – persino la sua pagina su Wikipedia viene di tanto in mano manomessa da qualche buontempone, con l’accusa espressa a chiare lettere.
In odore di una chiamata tra le prime 10, o magari prime 5, al prossimo draft, è facile scommettere che i confini di Malik Monk si apriranno presto oltre quelli dello stato natale.
Tiratore dagli istinti purissimi, guardia con gambe esplosive e mani buone, go-to-guy nell’anno da freshman per uno dei programmi più titolati e competitivi della nazione, realizzatore con pochissimi paragoni nel mondo collegiale: i suoi 47 punti contro North Carolina restano ineguagliati a Kentucky, e anche le prestazioni da 34 contro Ole Miss e 37 sui Georgia Bulldogs non sono da meno.
Se ha spazio per prendere slancio, Malik Monk decolla grazie a gambe potentissime. La parte superiore del corpo però è molto più esile e non gli permette di assorbire i contatti nel pitturato – converte appena il 50.9% delle conclusioni al ferro e preferisce affidarsi al floater (11-25 in stagione, con un bello stile).Anche per questa ragione il suo gioco si sviluppa sul perimetro: nel volume totale dei suoi tiri il 79.4% è costituito da jumper, e il 30% da tiri da tre punti. Il repertorio balistico, in effetti, è assai vario.
Si comporta alla grande in uscita dai blocchi: mette i piedi a posto in un attimo, poi grazie all’elevazione tira sopra le mani dell’avversario in recupero. Dispone anche del talento e della sensibilità nelle dita per infilare a canestro i tentativi ben difesi, con scarso equilibrio: segna col 39% in stagione.
Tutt’altro che un cecchino limitato a situazioni di spot-up, Monk è perfettamente in grado di crearsi il proprio tiro dal palleggio: segna 1.01 punti per possesso quando lancia un pull-up jumper, un ottimo dato. Dalla media distanza è un artista di finte e controfinte, suggellate dallo step-back per separarsi dal difensore.
In NBA lo dissuaderanno dall’operare in tale zona del campo, poco fruttuosa, ma ci sono ampi margini perché possa arretrare il proprio raggio d’azione oltre la linea dei tre punti: il range di tiro si estende oltre i 7 metri e già adesso è letale nel punire il difensore che passa dietro il blocco.
Proprio la gestione del pick and roll è una delle note che piace agli scout. Ai Wildcats l’ha giocato poco, con De’Aaron Fox saldamente in controllo delle operazioni, ma come portatore di palla si è dimostrato capace di effettuare letture semplici sulla difesa: scoccare il tiro se smarcato, servire il rollante con un lob, riaprire sul lato debole. Non è cosa da poco, se consideriamo che Malik Monk non è una point guard e, verosimilmente, non lo sarà mai.
C’è nell’aria la preoccupazione che sia una shooting guard troppo “pura” per il gioco di oggi, dove si preferiscono posizioni ibride. Lui si professa una combo guard, sulla scia dei giocatori che più ammira – come Damian Lillard – però mani e testa non sono al livello dei migliori nel ruolo.
Quando si stringono gli spazi accumula errori e palle perse, e come tutti i tiratori è un po’ troppo innamorato del canestro. C’è del potenziale, però, perché si evolva in un portatore di palla secondario: quando attacca la difesa in movimento ha ottimi istinti nel pescare il compagno libero.
Lo stile di gioco di Monk rappresenta un dilemma se abbinato al fisico di cui dispone. Esplosivo ma esile, con un margine ridotto per crescere e un’altezza – 191 cm – tutt’altro che impressionante per lo spot di 2. Sul tiro da tre costruirà un’intera carriera, può proporsi da subito nella ristretta cerchia dei migliori, ma per non ridursi a un ruolo da specialista deve imparare a contribuire in qualche altro modo.
Nella propria metà campo rischia di soffrire la fisicità degli avversari: è attivo sulle linee di passaggio e veloce negli spostamenti laterali, ma spesso si distrae. Per diventare un realizzatore completo – pur considerando che nell’NBA attuale un semplice scorer che mette 40 punti one night stand non basta più – deve migliorare l’efficacia in avvicinamento a canestro.
Come creatore di gioco lamenta lacune piuttosto evidenti, ma un sistema creato ad hoc potrebbe fare meraviglie per le sue prospettive di combo guard. Ricordiamo poi come il sistema Kentucky, pur con tutti i meriti che spettano a una fucina di top 5, non brilli nel mostrare al mondo le reali capacità di un giocatore.
John Calipari trova ogni anno la quadratura del cerchio adattando un roster costruito come un album di figurine, senza un’idea tecnica alle spalle: poi quando Karl-Anthony Towns arriva al piano di sopra scopri che è in grado di tirare da 3, difendere sul perimetro e correre in contropiede, e che Devin Booker può segnare 70 punti in una dozzina di modi diversi.
Il talento a Malik Monk non manca, e gli spasimanti neanche. I Magic potrebbero assicurarsi i servizi di Monk già con la scelta numero 6, e in Florida c’è un disperato bisogno di un punto di riferimento offensivo che non sia lo statico Vucevic.Non è da escludere che Sacramento lo preferisca a Jayson Tatum, se fossero entrambi disponibili al momento della pick numero 5, mentre i Knicks lo accoglierebbero volentieri qualche scelta più in basso – al netto di trade o di un forte interesse per Dennis Smith Jr.
Nei giorni scorsi si è fatto un gran parlare del triangolo proposto negli schemi d’attacco a New York, finora fallimentare, che però troverebbe in Monk un interprete capace anche nella posizione di point guard. Nel peggiore dei casi ci troveremmo davanti a un JR Smith 2.0, un po’ più cerebrale possibilmente, ma si può fare di meglio: chissà cosa gli stanno augurando in Arkansas, e se avranno mai voglia di perdonarlo.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.