È già successo in passato e il fenomeno si ripete. Ogni volta che crediamo di aver collocato i Golden State Warriors al posto che gli spetta nella storia del gioco, arriva qualcuno che si sforza di farci cambiare idea.
Ci riferiamo ai Cleveland Cavs, che con un colpo di spugna riducono le ricorrenze dell’hashtag Best Team Ever sulla mappa della stampa e dei social network.
I Dubs guadagnano la possibilità di festeggiare l’anello in casa, con conseguenti introiti paperoneschi, ma arrivano in ritardo all’appuntamento con la storia; quella che gli chiedeva di consolidare col 16-0 una post season costellata di record.
Addentrandoci nei fatti, gara 4 ha mostrato un andamento del tutto simile alla partita precedente. Questo è un grande merito dei Cavs, a forte rischio demoralizzazione dopo che le loro tattiche, seppure ben congegnate, non avevano riscosso successo.
Ripartono invece come se nulla fosse compromesso: idee chiare e più attenzione in difesa – al netto delle consuete amnesie a cui ti costringe un attacco come quello dei Warriors -, Irving in isolamento e LeBron a controllare il ritmo del gioco.
Una chiave di lettura, banale eppure vera, è quella delle percentuali. Se in gara 3 i Cavs avevano sparato a salve dall’arco, fallendo nel convertire anche un buon bottino di tiri smarcati, stavolta scatenano un’autentica pioggia di triple nel canestro di Golden State, una prestazione che marca a sua volta più di un record.
Lo stesso Irving, già acceso di furore agonistico nella partita precedente, trova ulteriori modi per evadere dalla marcatura di Klay Thompson e si sblocca dall’arco.
Che colpe si possono imputare, in tutto questo, agli uomini di Steve Kerr? Di sicuro non molte, perché già presentarsi nell’ultimo quarto intorno ai dieci punti di distacco assomiglia più a un merito, vista la prestazione degli avversari.
Si tratta di dettagli, che tuttavia incidono molto sul risultato di una partita; questo ci fa capire quanto l’equilibrio della serie, comunque sbilanciato verso la baia sia per il punteggio che per motivi tecnici, sia più sottile di quanto non suggeriscano le mere cifre.
Non è un mistero che i tentativi da tre punti, che hanno un ruolo centrale nell’NBA odierna e influenzano a cascata altre situazioni tattiche, siano un’arma ad alta varianza da cui scaturiscono punteggi elevati, scarti elevati e parziali da 10/20 punti in rincorsa.
Innanzitutto, Golden State esce dagli spogliatoi con meno mordente rispetto alle tre sfide precedenti. Era ampiamente prevedibile; meno pronosticabile invece l’aggressività dei Cavs, che infatti primeggiano nelle palle contese e riescono persino a mettere in azione Tristan Thompson ai tabelloni offensivi, non tanto per un cambiamento di strategia ma per la mancanza di quell’extra effort da parte dei californiani.
Se in gara 3 avevamo lodato la disponibilità al sacrificio dei Warriors, con Steph Curry che si cosparge il capo di cenere e percorre il fatidico miglio in più – nello specifico, la distanza che separava il blocco di Love dal tiro di Korver per il close out che ha negato il game winner ai Cavs – stavolta Golden State smette di preoccuparsi del gioco avversario e si concentra sull’imporre il proprio.
Non ci sarebbe nulla di male, non fosse che i Cavs si avventano su questo spiraglio e lo sfruttano per raggiungere quella perfezione finora solo sfiorata (rating offensivo di 148 con LeBron in campo).
Ci sono alcune sinistre ricorrenze col 3-1 da cui partì la rimonta dello scorso anno, e che avranno tormentato i sogni dei Warriors sul volo di ritorno verso San Francisco.
Le partite anonime di Klay Thompson e Steph Curry, soprattutto il secondo – da cui il mito che vuole il secondo più celebre nativo di Akron scomparire nei momenti più caldi – belli da vedere ma poco incisivi. In particolare, nella coriacea difesa individuale di Klay inizia a serpeggiare la stessa frustrazione del 2016 ora che Kyrie ha trovato la giusta mamba mentality per prevalere.
Poi il nervosismo di Draymond Green, vicino ai massimi storici, che rispolvera per l’occasione un paio delle mosse da kung-fu che tanto piacciono a chi somministra flagrant foul e sospensioni. La vicinanza di Zaza Pachulia, degno partner in crime, non lo aiuta a mantenere la flemma e il suo rendimento in campo stavolta ne risente.
Sul fronte Cavaliers si è discusso tanto, sia alla vigilia che in corso d’opera, sul ritmo partita. Rallentarlo agli estremi, come nel 2015 e in parte nel 2016, o giocare in velocità come predicato da Tyronn Lue?
Ci sono volute quattro partite per intravedere una soluzione al dilemma, ma sembra d’intuire che la chiave stia nella qualità anziché nella quantità. Invece che limitare gli Warriors a un certo numero di possessi, una quest che difficilmente può essere completata senza danneggiare allo stesso tempo i meccanismi dei Cavs, per vincere occorre infangare quel flow che è vanto dei Dubs.
La partita ruvida, agevolata da un arbitraggio farraginoso, e il clima ostile dell’Ohio hanno giocato a favore dei Cavs, ed ecco che tra le continue interruzioni (31 tiri liberi per James e soci, 22 nel solo primo quarto) i Warriors non hanno tempo di ripartire in transizione né stabilire una circolazione di palla efficace, raffreddandosi di conseguenza al tiro (1-11 degli Splash Brothers nei tiri non contestati, “solo” 26 assist su 39 tiri realizzati).
Nel secondo tempo il pace scende da 108, affine ai gusti dei Warriors, a 91. Aumentano invece le soluzioni individuali, come tra terzo e quarto periodo di gara 3. Se tolta dal contesto dinamico in cui fiorisce, la cultura dello small ball mostra i suoi limiti; per ampi tratti di partita i Cavs apparivano più alti, forti e veloci, come giocassero con un uomo in più, da cui anche la ritrovata verve nel pitturato di Tristan Thompson.
Cos’è successo quindi? I Warriors edizione 2017 non hanno più diritto di cittadinanza nella discussione sulle squadre migliori di sempre? La risposta migliore ha i torni sarcastici che Steve Kerr ha scelto nei giorni scorsi per punzecchiare certi critici, in particolari i nostalgici dell’epopea Bulls degli anni ’90.
Come accennavamo anche noi su queste pagine, in un contesto competitivo ci si evolve continuamente, adattandosi per battere la concorrenza. Se anche LeBron James ha eletto quello dei Dubs a “miglior attacco che abbia mai affrontato”, forse ci possiamo fidare.
Le qualità e i limiti dei Warriors sono figli del loro tempo, del tutto estranei alla pallacanestro di vent’anni fa; quel che li rende unici è che si collocano in anticipo sullo sviluppo del gioco, dettando agli altri un modello da seguire. Se i Cavs li hanno spodestati, almeno per una sera, è perché anche gli uomini di Tyronn Lue giocano a livelli altissimi.
Il risultato di gara 4 è interessante non tanto perché rimette i Cavs su un aereo per la California, quanto per le prospettive che riapre sulla serie, simili per certi versi a quanto visto nel 2016.
Come detto, però, il microcosmo della Quicken Loans Arena ha influenzato il risultato in più modi: coi Warriors che recupereranno il loro flow tra le mura amiche, difficile che i Cavs si esprimano con lo stesso grado d’intensità e ripetano le strabilianti percentuali al tiro.
Nel caso gli animi si accendessero più del dovuto e si tornasse a sporcarsi le mani, Golden State potrà comunque contare sull’impassibile Kevin Durant, un uomo solo al comando della serie, perfettamente in grado di colpire sia dentro che fuori dal flow. Da notare poi come, con James in panchina, pur nel trionfo della notte scorsa Cleveland abbia subito un parziale di -11.
Solo il tempo, nello specifico quello che ci separa dalla sirena finale di gara 5, saprà dirci se la vittoria dei Cavs sarà stata un sacrificio degno di Sisifo, buono solo per ispirare tatuaggi di dubbio gusto a qualche tifoso, o l’inizio di un’impresa ancor più titanica.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.