Per la sorpresa di esattamente nessuno, i Cavs raggiungono Golden State in finale.
Per quel numero 1 alla casella sconfitte che macchia il cammino di Cleveland, a fronte di quello immacolato dei Warriors, c’è da incolpare la pigrizia di LeBron James e soci in gara 3, più che il valore dei comunque coraggiosi Celtics protagonisti di una rimonta coronata dal buzzer beater di Avery Bradley.
Boston si afferma come prima nel gruppone degli inseguitori, quantomeno a est; un risultato mica da poco, considerando che secondo i piani di Danny Ainge la franchigia doveva trovarsi ancora in un comodo rebuilding mode.
Al tempo stesso, l’esito della finale di Conference palesa una volta di più la profondità del solco scavato dalle prime delle classe nei confronti della concorrenza. C’è un presagio di sventura che aleggia sul lato orientale del Mississippi: finché c’è LeBron in giro, a est non si vince.
Forse Danny Ainge ha prestato orecchio a questo oracolo, quando ha deciso di non spingere sul tavolo verde tutte le sue chips per aggiungere al roster una superstar. Ma sulle scelte dirigenziali di Boston torneremo a breve.
Cleveland vince perché è semplicemente la squadra più forte, sotto tutti gli aspetti. Non lascia agli uomini di Brad Stevens, che pure di qualità ne hanno, nemmeno un appiglio tecnico a cui aggrapparsi. Tra Smart, Brown e Crowder Boston ha chili da vendere sugli esterni – aggiungiamo all’equazione pure Bradley, che gioca come se non fosse un piccolo.
Ma Cleveland non si fa intimorire sul piano atletico perché LeBron James assorbe gran parte delle energie avversarie, lasciando i comunque muscolari JR Smith e Iman Shumpert a contrastare i pari ruolo: Kyle Korver non è un atleta d’eccezione, ma gioverà ricordare che vanta una stazza invidiabile per il ruolo di guardia ed è un difensore disciplinato.
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Giocando in scioltezza, Cleveland individua i punti deboli degli avversari e li colpisce per inerzia, senza insistere. Così Kevin Love approfitta dei limiti in pitturato dei Celtics, specie a rimbalzo e in fase difensiva, accumulando statistiche degne degli anni in Minnesota: sempre in doppia cifra a rimbalzo, con 17 in gara 5 e 32 punti in gara 1.
Coach Stevens si rassegna ad alzare bandiera bianca, come già fatto contro i Wizards, scegliendo Kelly Olynyk per aggiungere una minaccia in attacco, ma Lue non si scompone e non rinuncia all’apporto di Tristan Thompson trattenendosi dallo schierare il quintetto piccolo: quando hai LeBron James, sempre più a suo agio nell’operare nei pressi del canestro quando la situazione lo richiede, puoi permetterti questo e altro.
Privo di Isaiah Thomas, Stevens non ha potuto nemmeno giocare la carta dell’uno contro uno per sbloccare il suo attacco, uno dei più frizzanti e belli da vedere della lega, assai preciso nel tiro dalla distanza nella serie contro Washington.
In verità Cleveland, come fa da novembre, non si è dannata l’animo in fase difensiva. Puoi concedere all’avversario 100 punti abbondanti, se tu scollini oltre i 130 in due occasioni. E quando, per pigrizia, gli uomini di Lue s’inguaiano da soli, ci pensa Kyrie Irving. In gara 4 gioca come se si fosse portato il pallone da casa e ne mette 42 in 22 tiri.
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Alla fine di una stagione, è quasi un cliché affermare che una squadra si trovi a un bivio. Per i Boston Celtics il crocevia è ben più complesso, tante sono le risorse a disposizione di Danny Ainge e i segnali incoraggianti che i verdi si portano in vacanza. Non accadeva dal 1982, allora furono i Lakers, che una squadra col miglior record della Conference detenesse anche la prima scelta al draft – cortesia dei soliti Brooklyn Nets.
Più passa il tempo e più quella pick perde valore, ma a questo punto si fa strada l’idea che i Celtics tengano la scelta per assoldare Markelle Fultz. Lo scopo è duplice: aggiungo un giocatore capace di contribuire nell’immediato, pur con dettagli tecnici da smussare, e mi coltivo un franchise player per i giorni – non è dato sapere quanto lontani – in cui parleremo al passato dell’epopea LeBron James.
Al Horford e Thomas sono un nucleo solido ma non giovanissimo, e lo stesso Thomas presenterà una decisione difficile alla dirigenza già dai prossimi mesi. Prolungare o non prolungare il contratto in scadenza nel 2018? In altre parole: per quanto emozionante sia il giocatore, si può vincere un anello con Isaiah Thomas? Molto, se non tutto, dipenderà dagli altri movimenti di mercato.
Boston ha infatti la rara possibilità di percorrere sia la strada della free agency che quella della trade. Nel primo caso, c’è spazio salariale per firmare una stella in uscita e il nome di Gordon Hayward è per forza di cose il più gettonato, soprattutto alla luce della sua esclusione dai quintetti All-NBA, riconoscimento che avrebbe arricchito l’offerta dei Jazz di parecchi milioni. Il prodotto di Butler ha un’ovvia connessione con coach Stevens e sarebbe un complemento perfetto al gioco dei Celtics alleggerendo il carico di Isaiah Thomas.
Sul versante trade, tornano con prepotenza i nomi già analizzati lo scorso febbraio, Paul George e Jimmy Butler, ma se siglasse un accordo con Hayward o un altro free agent di lusso Ainge potrebbe decidere di lavorare di fino, accaparrandosi magari un animale da pitturato per affiancare Horford e mettere una pezza sull’annoso problema dei rimbalzi.
Anche qui, la dirigenza di Beantown si fa ricca grazie all’ottimo lavoro di coach Stevens. Brillando della sua luce riflessa, le quotazioni dei vari Crowder, Olynyk e Smart schizzano alle stelle. Questo rende impensabile trattenerli tutti, perché esigeranno stipendi più alti, ma li trasforma in perfette pedine di scambio. Indiziato numero uno è proprio Jae Crowder, che in passato ha lasciato trapelare un certo malcontento.
Per Avery Bradley e Jaylen Brown vale un discorso diverso: il primo è un gradino sotto ai leader della squadra ma un gradino sopra a tutti gli altri, preziosissimo terzo violino ma da valutare in ottica infortuni; il secondo ha un potenziale di cui ancora non si intravedono i limiti, già spinti in avanti nel corso di una stagione di graduale miglioramento. Stevens l’ha persino svezzato come LeBron stopper: i risultati sono stati poveri, ma la dichiarazione di fiducia è di quelle che non si dimenticano.
L’impatto di Fultz, qualora fosse scelto al draft e restasse in maglia Celtics, è da mettere a sua volta sotto la lente d’ingrandimento. Si presenta come una guardia versatile, capace di occupare gli spot di 1 e 2, e si professa desideroso di dividere il parquet con Isaiah Thomas: quanto di tutto ciò corrisponderà al vero?
L’estate 2017 promette di sciogliere il nodo intorno a cui i tifosi di Boston si scervellano da tempo. Con la pick numero uno in tasca non si può più temporeggiare, o il rischio di finire ridicolizzati in una puntata di Game of Zones sarebbe troppo alto.
In fin dei conti, Danny Ainge deciderà secondo la data di scadenza che vorrà stampare sul proprio progetto. Il matrimonio con Brad Stevens è a lunghissimo termine; d’altra parte, parliamo di uno i cui schemi sono tra le letture preferite di Gregg Popovich. Ma se si lasciasse convincere dalle parole della profezia, si ritroverebbe a fare i conti col tempo: finché c’è LeBron in giro, a est non si vince.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.