Mentre a Roma si giocano gli Internazionali d’Italia, Celtics e Wizards terminavano la loro partita di tennis al tie-break, senza che nessuna delle due squadre cedesse il servizio.
Una delle serie più equilibrate di questi playoff, in rispetto dei pronostici: Boston con la nomea di first seed poco credibile e una reputazione tutta da costruire in maggio, Washington con un finale di stagione in crescendo e una vittoria arrembante sugli Hawks.
Le sette partite ci hanno offerto spazio per ammirare il meglio e il peggio delle due squadre; nello specifico, attacco e difesa. Nelle vittorie, Boston sfonda quota 120 punti – fermandosi “solo” a 115 nello spareggio decisivo – e ne concede quasi altrettanti agli Wizards.
Punteggi ben più alti di quanto suggerisse quell’aura da nineties che sembrava avvolgere la serie, caratterizzata da gioco maschio fin da gara 1: a rimetterci il dente di Isaiah Thomas – poco male, specie per il portafogli del dentista – e la caviglia di Markieff Morris – poi rimessa in sesto per gara 2.
C’è da dire che i Wizards si sono divertiti a indossare il mantello nero del villain, a partire dalle disquisizioni di Wall e Beal sulla filosofia del trash talk per concludere con l’assalto all’arma bianca di Kelly Oubre sull’omonimo Olynyk.
Anche l’assetto in campo rispecchiava due mentalità diverse: Washington i bulli della situazione, Boston a colpire di fioretto. I Wizards vincono la battaglia a rimbalzo in ogni partita, compreso un 43-31 nella pur perdente gara 7; i Celtics si affidano al tiro dalla distanza sfiorando il 50% di conversione in occasione delle vittorie.
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Una delle storie più interessanti di questi playoff porta il nome di John Wall, che ha finalmente gettato la maschera su un palcoscenico d’eccezione.
La serie ci ha mostrato quanto l’intera squadra graviti intorno a lui, e come la guardia da Kentucky sia incontenibile quando la partita prende la direzione che desidera, ma non altrettanto abile a lavorare di fino per modificare il ritmo di gioco secondo i suoi gusti.
Abbiamo negli occhi i canestri in faccia all’impotente Isaiah Thomas e le cavalcate in transizione, dove un solo difensore in verde non bastava mai a trattenerlo, spesso nemmeno due: 25 punti in contropiede in gara 4, prima che Brad Stevens ripagasse gli avversari con la stessa moneta sveltendo le operazioni offensive nelle ultime sfide.
Al tempo stesso, certi frangenti della serie di John Wall ricordavano battaglie contro i mulini a vento di sapore westbrookiano: contenuto a difesa schierata, col pestifero Bradley ad alternarsi tra lui e Wall, si incaponiva in soluzioni difficili e, di riflesso, smarriva la concentrazione in difesa.
Si noterà lo 0-11 con cui ha chiuso gara 7, ma oltre alle mani fredde Wall si è eclissato dal gioco nei minuti finali. Anche la prestazione al tiro di gara 6 va messa sotto la lente d’ingrandimento: se non fosse entrata la tripla da 8 metri per la vittoria, in molti avrebbero incolpato il suo 9-25 che concedeva il match-point ai Celtics. Di Bradley Beal, dopo queste sette partite, si apprezzano più le luci che le ombre.
Meno versatile del compagno, ma forse meglio calato nel proprio ruolo. Con 33 e 38 punti in gara 6 e 7 ha messo sotto scacco la difesa Celtics, muovendosi con grande intelligenza sugli schemi disegnati da Scott Brooks. Non solo triple, ma una buona dose di midrange game; si chiama “prendere quello che la difesa ti concede”, ed è servito il miglior Marcus Smart per tenerlo a bada nei minuti finali.
Sulla sponda Beantown c’è da gioire per la consacrazione di Isaiah Thomas. Al di là dei tabellini – dove spiccano comunque il 29+12 dell’atto finale e i 53 all’overtime di gara 2 – si apprezza una differenza sostanziale con i playoff dello scorso anno, dov’era Isaiah contro tutti.
Di fronte ai Wizards, Thomas ha contribuito senza monopolizzare il pallone, colpendo spesso da bloccante per favorire i mismatch con i lunghi avversari. Una volta acquisito vantaggio dal palleggio, i meccanismi dell’attacco di Brad Stevens gli offrivano sempre almeno una soluzione valida: tagli backdoor a sorprendere la pigra difesa Wizards, Horford a far girare la palla in punta, Bradley e Crowder in angolo, o magari un Marcus Smart in tagliafuori per aprire una direttrice a canestro.
Un movimento di uomini e pallone tra i più armonici della lega, e tra i più efficaci nel generare tiri smarcati: questo permette di fare la differenza nelle conclusioni da tre punti senza vantare a roster un gran numero di tiratori “puri”.
L’aggiunta di Horford ha sensibilmente cambiato il gioco dei Celtics, anche se non sempre la cifra degli assist rende giustizia al suo operato. L’ex Hawks mette mano in ogni azione e ha libertà di scegliersi la zona di campo dove agire per punire gli aggiustamenti avversari. Nelle prime partite, quelle più fastidiose per i Celtics sorpresi dai parziali Wizards in apertura, ha fatto la voce grossa dominando lo scontro diretto con Gortat – 21+9+10 in gara 1.
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Brad Stevens vince anche il duello delle panchine. Le sue rotazioni lunghe fanno storcere il naso ad alcuni, specialmente quando mischia gli starting five senza motivi palesi: chiedere a Gerald Green, finito in fondo al pino in breve tempo, o ad Amir Johnson che assomiglia sempre più all’odd man out della situazione.
Si può criticare il coach di scuola Butler per gli aggiustamenti non proprio fulminei, ma i risultati lo premiano di tutti i minuti concessi alle riserve: se tieni in campo Jaylen Brown e Kelly Olynyk anche quando sembrano fuori luogo, costruisci in loro la fiducia necessaria per segnare rispettivamente 9 e 26 punti in gara 7 – 48 bench points per i Celtics e partita della vita per il lungo da Gonzaga, più che mai idolo del Garden.
A corollario del fatto c’è la serie di cui è stato protagonista Avery Bradley. La solita sostanza in difesa, ma anche il carattere per ergersi a primo terminale offensivo in gara 4 e 5 – 27 e 29 punti a referto. Stiamo parlando di un giocatore vessato da numerosi infortuni, specialista della difesa ma del tutto privo di un gioco perimetrale all’arrivo nella lega, che adesso tira da tre in stagione col 39%.
Il sistema Stevens, di chiaro stampo collegiale, funziona perché trae il massimo dalle risorse a disposizione mettendole sullo stesso piano, e nasconde i difetti di un Bradley e di un Crowder. Forse anche per questo Danny Ainge non si è ancora deciso a muovere i pezzi sulla scacchiera e tentare una trade, teme di rovinare questo equilibrio.
In attesa dell’estate e di tutto ciò che scaturirà dalla scelta numero 1, fresca fresca dalla lottery per cortesia dei soliti generosissimi Nets, c’è una finale di conference tutta da godersi. Ironia della sorte, i Celtics la disputeranno con gli ampi sfavori del pronostico nonostante il vantaggio del fattore campo, tanto merita rispetto lo stato di forma dei Cavs.
Alla fine della fiera, la Eastern Conference rimane il regno di LeBron; per occupare il trono bisognerà prima convincerlo a scendere. Se non quest’anno, i Celtics hanno la cavalleria adatta per riprovarci in futuro.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.