Gli Houston Rockets hanno chiuso la Regular Season 2016-17 con 55 vittorie e 27 sconfitte, compiendo un bel balzo in avanti rispetto al misero e inconcludente 41-41 nella passata stagione; la sconfitta contro i San Antonio Spurs è stata netta, ma questo è il dato dal quale occorre ripartire, per cercare di collocare l’epilogo dei Playoffs all’interno di una cornice più ampia, che tenga conto dei presupposti dai quali è sorto il nuovo progetto tecnico guidato da coach Mike D’Antoni e ideato dal GM, Daryl Morey.
Nel corso dell’estate Houston ha salutato (senza troppi rimpianti, per la verità) Dwight Howard, accasatosi in quel di Atlanta, mentre l’assunzione di D’Antoni era stata accolta da parte dell’opinione pubblica locale, Houston Chronicle incluso, con un misto di scetticismo e speranza; alcuni erano addirittura convinti si trattasse dell’ultimo chiodo nella bara di un gruppo al capolinea emotivo, prima ancora che tecnico.
In questo senso, il 2016-17 dei Rockets si è chiuso con un bilancio largamente positivo, simboleggiato dal riscatto di quel James Harden che chiude l’annata con 29.1 punti di media, 11.2 assist (miglior dato NBA), 8.1 rimbalzi e il 44% dal campo. Il Barba era diventato l’epitome della disfunzionalità dei razzi texani, mentre quest’anno, calatosi con convinzione nel ruolo di playmaker dantoniano, ha ottenuto risultati sorprendenti.
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Se però l’obiettivo a lungo raggio dei Rockets resta il titolo NBA (e così ha sempre dichiarato il proprietario, Leslie Alexander, entusiasta di D’Antoni), allora, una volta archiviate le luci della scintillante Regular Season, è opportuno soffermarsi anche sulle ombre emerse nel corso dei Playoffs, chiusi con un bilancio di 6 vittorie e 5 sconfitte.
L’eccellente lavoro di Morey ha armato la faretra di D’Antoni con tanti giocatori ideali per il suo sistema, quello mutuato tanti anni fa, a Treviso (era l’epoca di Maurizio Gherardini, quando il Palaverde, che oggi fa il pieno per i Playoffs di A2, era il punto di riferimento europeo per la NBA) e poi a Phoenix, negli anni belli di Steve Nash e Amar’e Studemire.
I due candidati in pectore a Sesto Uomo dell’Anno, Eric Gordon e Lou Williams, si sono rivelati ideali compendi di back-court per Harden, e in più, sono “tiratori di striscia” capaci di metter palla per terra e inventarsi qualche canestro in proprio. Ryan Anderson e Nene hanno risposto alla grande, ritagliandosi un ruolo –rispettivamente– da stretch-four, e da centro d’esperienza, per dare il cambio allo svizzero Clint Capela, stoppatore, giocatore intenso, e ideale ricevitore delle alzate di Harden.
Se il primo turno di Playoffs contro gli Oklahoma City Thunder non ha lasciato spazio ad una serie combattuta tra candidati all’MVP (Harden e Russell Westbrook, dioscuro di OKC), le Conference Semifinals hanno viceversa esposto una formazione che non si è rivelata pronta all’impatto con una realtà più navigata, profonda e strutturata: i San Antonio Spurs di coach Pop e di Kawhi Leonard.
Gregg Popovich ha costruito le sue venti stagioni consecutive con record positivo (pensateci: vent’anni di vittorie…) grazie all’abilità tattica e alla gestione dei propri giocatori, che scendono sempre in campo con degli “assegnamenti” ben chiari in testa. All’interno del nostro orizzonte d’esperienza, abbiamo visto solo un altro allenatore altrettanto scaltro nell’esporre le altrui manchevolezze: Phil Jackson (11 titoli dal 1991 al 2010, tra Chicago e Los Angeles).
Il Grande Capo Triangolo (nomignolo appiccicatogli da Jeff Van Gundy) citerebbe Sun Tzu, “le battaglie sono vinte prima d’esser combattute”; altro che la storiella dei maghi della lavagnetta che adottano mosse e contromosse a partita in corso; Pop ha esposto con incredibile nitore tecnico tutti i difetti del ventisettenne Harden e del gioco dantoniano, preparando la serie in modo eccezionale.
Lo scontro tra le due franchigie texane è stato ovviamente confezionato a mezzo stampa secondo la logica della tenzone tra “culture” cestistiche, intese come filosofie di gioco: da un lato, gli Speroni dal gioco controllato e interno, con due lunghi sempre in campo (anche al netto di Dewayne Dedmon in “panca puniti” fino a data da destinarsi), e dall’altro, i Rockets a base di corsa e tiri da tre veloci.
Nulla di più falso, ovviamente, e in questo senso, il 4 a 2 finale non sancisce la superiorità di una filosofia sull’altra, ma solo l’egemonia dell’esecuzione degli Spurs su quella di Houston. Lo abbiamo già detto a più riprese, ma il punto è fondamentale: non è questione di tirare tanto o poco da tre, o di schierare un lungo, due, o nessuno.
Il nocciolo tecnico del basket contemporaneo è che le difese sono così abili nello “stringere il campo” con l’aiuto in verniciato e il recupero sul perimetro (shrink the floor, nel playbook di Tom Thibodeau), che occorre muovere rapidamente la palla per creare un vantaggio (battere l’uomo dal palleggio costringe all’aiuto, il pick-and-roll costringe all’aiuto, e via dicendo, come esplicato nel video da Boris Diaw ai tempi delle Finals ’14).
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Quel vantaggio si trasforma tipicamente in un buon tiro grazie ad un passaggio-extra che consolida il vantaggio iniziale, punendo la difesa in aiuto, privandola del tempo necessario a recuperare. Il buon tiro non è quindi necessariamente da tre, quanto piuttosto quello che nasce dopo aver mosso la difesa; se poi è una bomba da dietro l’arco, tanto meglio (per questioni matematiche piuttosto evidenti, a parità di “buon tiro” quello da 3 vale più di quello da 2).
Il difetto del gioco dantoniano (o almeno, di questa versione, figlia del personale a disposizione) è che s’affida troppo ad un palleggiatore principale e alle sue letture dei movimenti dei compagni. Quando il palleggiatore (leggi: James Harden) non riesce a costruirsi un vantaggio, i tiri degli Houston Rockets tendono a diventare triple costruite con una circolazione perimetrale che non impegna la difesa.
Il problema offensivo di Houston non è l’uso marcato del tiro da dietro l’arco, quanto piuttosto l’essere costruita come una one-man-band, per cui basta fermare “El Chapo” (autore di 28.5 punti, 5.5 rimbalzi e 8.5 assist nei Playoffs) per innescare un effetto domino visto dipanarsi nel corso della serie, con nessun altro giocatore capace di arrivare a 14 punti di media.
Gli Spurs si sono presentati all’appuntamento dopo lungo e accurato studio dei movimenti swipe (o rip-through) tanto cari al Barba, uscendosene con una difesa volutamente esagerata nella postura, tenendo le braccia sempre larghe, per evitare il più possibile i viaggi in lunetta dell’irsuto californiano.
Popovich ha chiesto ai suoi di negargli triple e conclusioni al ferro, concedendo piuttosto i tiri dalla media (che nella cultura-Rockets non sono buoni tiri), lasciando Pau Gasol a presidiare il verniciato e gli altri 3 difensori incollati ai tiratori appostati sul perimetro. È un piano-gara molto semplice (lo stesso dei Thunder al primo turno) ma i San Antonio Spurs l’hanno eseguito alla perfezione, complicando la serie di Harden e bagnando le polveri al resto dei Rockets, da Rhino Anderson al redivivo Sam Dekker, reduce dall’infortunio che l’aveva fatto scivolare fuori dalle rotazioni alla vigilia dei Playoffs.
Questo ha limitato l’efficacia offensiva di James Harden e dunque di tutta Houston, che non ha altre fonti di gioco vere e proprie, a meno di considerare tali le zingarate di Trevor Ariza e Pat Beverley, ragazzi dal cuore enorme, ma non certo due novelli Stockton; lo stratagemma di coach Pop ha generato tonnellate di palloni persi in modo banale, figli di cattive letture del Barba o dei deragliamenti di Gordon, Beverley, Williams e Ariza, con buona pace della “palla che deve trovare energia”.
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Esistono quindi dei motivi tecnici atti a giustificare le difficoltà di Harden e la sconfitta di Houston, ma sono argomentazioni che lasciano intatte le perplessità sull’approccio dell’ex Arizona State (2-11, 10 punti, 7 assist e 6 palle perse nell’ultimo episodio della serie), anche perché sembra proprio che a lui piaccia questo tipo di basket.
The Beard chiude i Playoffs con un net rating negativo (-0.6) e la bellezza di 5.4 palle perse ad allacciata, che contribuiscono ad un pessimo rapporto assist/TO di 1.54 (John Wall perde un pallone ogni 2.37, Chris Paul uno ogni 3.67, Mike Conley 3.50). Molti turnover di Harden non sono figli di forzature dettate dalla voglia di spaccare il mondo, bensì di pause mentali inaccettabili per un giocatore che aspira ad essere il migliore di tutti.
Sul 2 pari dopo 4 partite poco combattute, la cruciale Gara 5 è stata vinta dai San Antonio Spurs negli ultimissimi possessi del supplementare, con tanto di stoppata dell’arzillo nonnetto Manu Ginobili proprio ai danni di James Harden, che ha chiuso il quarto periodo e l’overtime con 1-6 dal campo e 4 sanguinose palle perse. Gara 6, tra le mura amiche del Toyota Center, poteva essere l’occasione giusta per uno scatto d’orgoglio che invece non s’è visto, chiudendosi con un impietoso -39 nel punteggio finale.
Houston è scesa sul parquet nel piattume generale (incluso quello del pubblico, presentatosi con 15 minuti di ritardo ad un elimination game) senza mai trovare un singolo spunto per impensierire i nero-argento, pur privi di Tony Parker e, quel che più conta, senza lo scavigliato Kawhi Leonard, teoricamente il miglior difensore one-on-one su Harden, oltre che la principale fonte di gioco dei nero-argento.
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Forse anche per questo gli Spurs hanno giocato come se avessero le spalle al muro, mentre il numero 13 rosso –sempre più avulso dal gioco– fermava la palla per dei soliloqui in punta utili solo a rallentare il ritmo, favorendo così l’inerzia di San Antonio, che si sarebbe potuta ribaltare unicamente con giocate logiche e intense, non con spingardate senza senso, occhiatacce ai compagni e palle perse superficiali.
Il risultato? Appena 75 punti sul tabellone (il minimo stagionale), il 28.6% dal campo e una partita scivolata inesorabilmente verso la sirena finale senza un sussulto o un tentativo di ribellarsi al copione vergato sulla lavagnetta dello staff tecnico dei San Antonio Spurs, ugualmente crudele nello spogliare gli attaccanti e nell’esporre i difensori.
Houston ha difficoltà in single-coverage sugli esterni, per giunta protetti malissimo dai lunghi (Capela eslcuso): s’è visto con le tonitruanti schiacciate in penetrazione a difesa schierata di Jonathon Simmons, Leonard, Dejounte Murray e, addirittura, del buon vecchio Manu; allo stesso tempo, la squadra di D’Antoni ha subìto le Torri Gemelle texane, con LaMarcus Aldridge capace di segnarne 34 nella partita decisiva e Gasol in doppia-doppia (10 e 11 per il catalano), mentre un tremebondo Ryan Anderson annaspava senza costrutto. I due lunghi hanno garantito secondi possessi, negandoli agli avversari (60 rimbalzi e 62 punti in verniciato per gli speroni, e 37 con appena 18 punti per i razzi, peraltro orfani di Nene Hilario).
I Rockets hanno messo poca pressione sulla palla e sui ricevitori, regalando punti facili e giocate scolastiche a San Antonio, che ha messo a segno 32 canestri assistiti contro i 14 di Houston, la metà dei quali è passata per le mani di Harden, giusto a ribadirne il peso nell’economia dell’attacco dei Rockets, e, allo stesso tempo, la prevedibilità di questo meccanismo così estremo nei propri concetti al punto da sembrare quasi stereotipato.
Se giudichiamo negativamente la serie di Harden, e in particolare la sua Gara 6, non è perché ci attendessimo 50 punti, o il canestro della vittoria; lasciamo a Tracy McGrady questo tipo di ragionamenti (T-Mac, uno che ha passato il primo turno di Playoffs solo una volta, standosene seduto in panchina, si è permesso di definire “imbarazzanti” le prestazioni di Harden).
Quello che manca a James Harden è la capacità di soffrire e di fare giocate intense; può darsi che questa sconfitta lo aiuti a capire che un leader non conduce la squadra alla vittoria solo con punti e assist, quanto con l’esempio e l’impegno, la cura per i dettagli e la voglia di sporcarsi le mani portando blocchi, battendosi a rimbalzo, buttandosi per agguantare una palla vagante.
Non è cioè questione di output finale, ma di approccio, non solo e non tanto in attacco; i limiti di Harden riguardano la pretesa di giocare sempre e comunque in punta di fioretto, battendo l’avversario di pura astuzia e talento, inclusa l’incessante ricerca di contatti fallosi. È un modo di stare in campo “stiloso” ma assai penalizzante per la squadra, anche perché in difesa Harden rappresenta una tassa da pagare sempre e comunque.
La cattiva difesa complessiva di Houston non è solo colpa del Barba, intendiamoci, ma se il leader della squadra non fa nemmeno finta di provarci, perché gli altri cattivi difensori del roster dovrebbero piegare di più le ginocchia? James Harden è perfettamente in grado di difendere (glielo abbiamo visto fare, e bene, ai tempi di OKC) ma non vuole farlo, il che intrica ancor più l’impervio compito di Jeff Bzdelik, il defensive coordinator dei Rockets (un po’ come fare il guardiano del Palaghiaccio nel Sahara!).
La non belligeranza difensiva del Barba ha costretto Mike D’Antoni a dirottarlo sui lunghi avversari (David Lee e Pau Gasol) nel tentativo di nasconderlo in marcatura su giocatori poco mobili, ai quali rende centimetri ma non forza fisica. Harden ha però continuato nella sua obiezione di coscienza, senza mai provare a stare davanti per negare la ricezione, limitandosi, al più, a quelle spinte fallose che l’hanno messo nei guai in Gara 6 (confermando un trend delineato dai suoi 3.9 falli di media nei Playoffs).
Houston si regge sul compromesso tra Harden –capace di mettersi la squadra in spalla in attacco– e il resto del gruppo, che, in cambio, lo avrebbe protetto in difesa. Nel momento delle avversità però, serve capacità d’adattamento: può capitare che occorra una mano in difesa, o che si debba reinventare il modo di attaccare, mentre i Rockets non si sono schiodati di un centimetro dai loro principi fondativi e si sono ritrovati sotto di 19 all’intervallo senza colpo ferire, con Harden fermo a due tiri tentati.
In estate Daryl Morey proverà a migliorare l’attacco della squadra (magari munendosi di un vero e proprio secondo creatore di gioco), ma solo James Harden può convincere sé stesso a girare due viti in difesa e a cambiare l’atteggiamento incomprensibile che tiene da troppi anni, con un linguaggio del corpo che comunica distacco (vero o apparente?) e sprezzo per una serie di compiti che tuttavia pertengono ad ogni giocatore degno di questo nome, e non solo ai role-player.
È normale che un atleta ventisettenne chiamato ad essere decisivo in ciascun possesso offensivo per 82 partite a 36.4 minuti di media, abbia bisogno di tirare il fiato; l’eccezione sono i super-uomini alla Michael Jordan o alla LeBron James, che a trent’anni continua a giocare quaranta minuti senza pagare dazio. Peraltro lo stesso MJ imparò a mimetizzarsi nella parte finale della propria carriera in maglia Bulls, dosando le forze e, all’occorrenza, esplodendo con 4-5 minuti di difesa furiosa.
Pur non avendo le stesse doti atletiche di LBJ o Michael, Kobe Bryant era stato un sensazionale difensore sulla palla durante gli anni del three-peat d’inizio millennio. Con l’aumentare degli anni e delle responsabilità Kobe iniziò a giocare a zona, marcando sistematicamente l’esterno meno pericoloso, ma capitava che, per mandare un messaggio ai compagni o agli avversari, si prendesse in consegna la stella avversaria.
Persino un difensore deficitario come Dirk Nowitzki aveva un atteggiamento molto più attivo di Harden, che oltretutto è un atleta straordinario e non può certo accampare come scusa i limiti fisici di uno Steve Nash! Quest’atteggiamento da casellante in vacanza è apparentemente ininfluente quando tutto funziona a dovere nella metà campo offensiva, ma basta una serata storta al tiro per rendere Harden completamente deleterio per gli equilibri dei Rockets.
Un giocatore completo può rimediare alle cattive percentuali lavorando in difesa e facendo tante piccole giocate che passano sotto al radar delle statistiche ma che aiutano la squadra a restare in linea di galleggiamento, come ha fatto John Wall nella sua Gara 6 contro Boston: nonostante un primo tempo da 1-9 con 3 punti a referto, il playmaker degli Wizards è rimasto in partita continuando a fare giocate logiche, fidandosi di uno splendido Bradley Beal e prendendo buoni tiri fino a ritrovare ritmo. Wall ha anche segnato il canestro della vittoria, ma anche se l’avesse fallito ci sarebbe stato ben poco da rimproverargli, e, nonostante la sconfitta di Gara 7, è uscito ingigantito da questi Playoffs.
Alla stessa stregua, il già menzionato Bryant disputò una difficilissima Gara 7 durante le Finals ’10, sempre contro Boston. Continuò a prendere buoni tiri (che finivano sul ferro) ma nel frattempo si concentrò sull’unica cosa che gli riusciva: andare a rimbalzo. Ne accatastò 16, prima di ritrovare la via del canestro negli ultimi minuti, quando la difesa dei Celtics, a sua volta stremata, calò impercettibilmente.
Non ci affascina l’epos del grande giocatore che vince sempre o che segna valanghe di punti nelle partite decisive; siamo viceversa convinti che ogni giocatore –stella e panchinaro non importa– mostri i suoi “veri colori” quando lotta contro le avversità, siano esse un infortunio, una partitaccia, o gli avversari sopra di venti.
Perdere è parte del gioco, quel che conta è il modo in cui si affronta la tenzone ed eventualmente la sconfitta. Quando il gioco si è fatto duro, Harden è semplicemente scomparso dal campo, riapparendo a tratti solo per perdere inopinatamente qualche pallone o per riprendere i compagni, rei a suo dire di aver sbagliato le rotazioni difensive (seriously?).
Il futuro di Houston e il retaggio di Harden passano per la presa di coscienza che quel che è stato fatto sin qui va bene, è un ottimo risultato, ma non è materiale da leggenda. James Harden ha dinnanzi un’intera estate per scavare dentro sé stesso e trovare le motivazioni necessarie per mettere ordine alle proprie priorità, perché essere in lizza per l’MVP è bello e importante, certo, ma la Storia di questo Gioco splendido e crudele viene vergata solo durante i Playoffs, quando la pressione monta e non ci si può nascondere.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
Bellissimo articolo, però forse un po’ ingeneroso per la stagione di Harden. Io non lo voglio difendere, però ci sono delle precisazioni che vorrei fare: intanto ha 27, deve ancora raggiungere la maturità mentale… Non dimentichiamo che il Wunder Dirk che tu citi, dopo le finali del 2006 era stato bollato come un perdente, salvo poi essere consacrato a campione assoluto nel 2011, dopo essere maturato per 5 anni e aver raggiunto la consapevolezza.
Harden deve ancora capire che una superstar deve esserlo sui due lati del campo è anche fuori dal campo… ma ha fatto grossi passi avanti dalla persona arrogante che era 2 anni fa e se continuasse questo trend potrebbe davvero maturare nei prossimi 2-3 anni!
Tecnicamente è un giocatore che riesce ad essere efficace solo palla in mano (non è un Wade, per dirne uno, che può essere pericoloso anche coi tagli dal lato debole) ma nello stesso tempo non è un play puro, quindi non è adatto a tutte le modalità di gioco; però D’Antoni gli ha ritagliato un ruolo da combo guard perfetto per lui. Ora la sfida sta nel farlo riposare di più, perché un giocatore così massiccio fatica a stare sul terreno di gioco per più di 30 minuti a quel livello, allungando le rotazioni, fidandosi magari di qualche rinforzo che arriverà in estate!
Grazie mille!
Secondo me la differenza, rispetto alla vicenda-Dirk, è che nessuno poteva eccepire sull’impegno, sul coinvolgimento del tedesco. Andò in difficoltà emotivamente, e si vedeva. Forse Harden ha una “faccia da poker” migliore, ma non mi ha dato la sensazione d’aver lasciato il suo “everything” sul campo. E questa secondo me, è una caratteristica difficilissima (se non impossibile) da apprendere. Spero per Harden di sbagliarmi!