Quelle appena trascorse sono state due settimane di rara tensione emotiva per i Boston Celtics.
Come un sasso che increspa l’acqua di uno stagno, il lutto che ha colpito Isaiah Thomas all’immediata vigilia di gara 1 ha scatenato tutte le insicurezze degli uomini in verde.
Perché quando si è una squadra, e quello di Stevens è un gruppo particolarmente unito, la sofferenza di uno è la sofferenza di tutti e diventa difficile separare la sfera umana da quella professionale.
Il risultato è che nelle prime due partite i Celtics scendono in campo spenti, incapaci di difendere il parquet del Garden contro dei Bulls più tosti del previsto.
I media non si soffermano troppo sull’esito delle partite; il tema caldo è se Isaiah Thomas abbia fatto bene a scegliere di giocare poche ore dopo aver perso la sorella Chyna, mentre le immagini della sua commozione, col compagno e amico Avery Bradley che lo consola, scorrono senza sosta.
Gli osservatori più critici però si lasciano andare ai primi “ve l’avevo detto”. Boston sembra davvero il number one seed meno credibile di sempre, una di quelle squadre che vince in regular season ma fatica ai playoff, e rischia di fermarsi al primo ostacolo.
Invece, due settimane dopo, stiamo parlando di un gruppo che ha appena operato il reverse sweep con tre vittorie in trasferta, l’ultima con grande autorità. Non ha superato i propri limiti, perché sono strutturali, ma ha recuperato l’identità smarrita.
In mezzo ci sono le solite magie di Brad Stevens. Dopo i primi, disastrosi tentativi di contenere Robin Lopez sotto le plance, cede il controllo dei rimbalzi (i Bulls vinceranno questa voce statistica in tutte e sei le partite) e rinuncia all’inservibile Amir Johnson per rilanciare la small ball.
Il next man up è un redivivo Gerald Green, a cui l’aria del Massachussets piace perché i momenti migliori della carriera coincidono proprio con le annate in maglia Celtics.
In gara 4 è decisivo con 18 punti e 4 canestri da tre. Intanto l’ex coach di Butler ha intuito che il numero giusto per scardinare la difesa dei Bulls è il 42 di Al Horford, ed ecco che il gioco passa sempre più spesso per le sue mani educate, con Olynyk e Jerebko come compagni di reparto per aggiungere pericolosità dall’arco.
Nelle vittorie il tabellino è quello bilanciato che ci siamo abituati a vedere in regular season, indice di un attacco equilibrato. Il sigillo lo imprime Avery Bradley con due prestazioni, 23 e 24 punti nelle ultime due partite, che reclamano a gran voce rispetto per un giocatore spesso trascurato, complici i frequenti infortuni.
Si preannuncia un’estate delicata la sua, con la dirigenza che dovrà decidere se il suo futuro sarà ancora a Beantown, e lui intanto cerca di convincere i piani alti con una serie da protagonista.
Autentico two-way player, preciso in attacco e sempre impegnato in difesa su Butler o Wade, leader anche vocale nei momenti in cui Thomas aveva bisogno di supporto.
A proposito di Isaiah; non sono queste le sei partite giuste per formulare un giudizio su di lui. Abbiamo assistito ai soliti exploit offensivi che gli sono valsi una candidatura a MVP (33 punti in gara 4 e altrettanti, inutili, nella commovente gara 1), ma anche cattive prestazioni al tiro con la difesa che lo ingabbiava.
Ancora non sappiamo se la sua pallacanestro può adattarsi alla ruvidità dei playoff, ma di sicuro quest’anno ha al suo fianco strumenti migliori. Vedremo come saprà sfruttarli, se e quando avrà recuperato la forza e la pace che gli mancano.
Per i Bulls, finisce qui un esperimento cominciato male e proseguito peggio, ma che si è trascinato fino all’ottava piazza nella Conference e a una partenza da 2-0 al primo turno.
Chicago, in effetti, è stata costruita in estate pensando a situazioni come questa: veterani come Wade e Rondo respirano aria di casa quando scattano i playoff, e infatti è proprio l’ex-playmaker dei Celtics a fare da mattatore nelle prime due sfide.
Si può discutere ore sul suo carattere problematico e sull’effetto buco nero che coinvolge ogni spogliatoio in sua presenza, ma le doti tecniche non si dimenticano e la mente cestistica resta una delle più brillanti in circolazione.
Dopo la tripla doppia sfiorata in gara 2, l’infortuno al pollice segna il declino dei Bulls che perdono smalto.
Le alternative sono modeste: tra Isaiah Canaan, Jerian Grant e Michael Carter-Williams, coach Hoiberg preferisce dare palla in mano a Wade e Butler. Nonostante le dichiarazioni d’amore reciproche, i due faticano a condividere il campo.
Dwayne Wade si esibisce nel ruggito del leone coi 26 punti e gli 11 rimbalzi di gara 6, ma a trent’anni suonati il rendimento non può essere costante. Per Butler il tabellino recita 33+9 assist in gara 4, con la bellezza di 23 viaggi in lunetta, ma ci sono serate dove la difesa lo costringe a difficili soluzioni in isolamento.
Quando Boston si rimette in carreggiata e inizia a fare buona guardia anche sulle seconde linee, finiscono i momenti di grazia dei vari Portis e Zipser, incendiari al tiro nelle vittorie dei Bulls.
Le loro prestazioni però sono incoraggianti, un ulteriore spunto di riflessione per i prossimi mesi quando i Bulls dovranno decidere cosa fare di un roster che sembra muoversi in due direzioni opposte, e di un coach bloccato tra due fuochi.
Per i Celtics c’è l’appuntamento con la squadra più in forma della Conference, i Washington Wizards, titolari di un backcourt esplosivo ideale per esporre le carenze difensive di Isaiah Thomas. Avery Bradley è chiamato a ripetersi, su entrambi i lati del campo, mentre Al Horford cercherà di rappresentare il valore aggiunto in un duello insidioso con Marcin Gortat.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.