Difficile trovare una serie dal pronostico più chiuso di Portland-Golden State, e non solo per la differente caratura tecnica dei quintetti, o per il diverso tasso d’esperienza, quanto per il pessimo accoppiamento tra la difesa dei Trail Blazers e l’attacco dei Dubs –dotati peraltro di difensori individuali e di un sistema (made in Ron Adams) capace di limitare il più possibile C.J. McCollum e l’ex Weber State Damian Lillard.
Portland può recriminare per l’assenza del bosniaco Jusuf Nurkic, visto brevemente e reduce da una frattura al perone, decisamente lontano dalla miglior condizione, ma G-State, pur priva di Kevin Durant in Gara 2 e 3 (e con Mike Brown a sostituire Steve Kerr sul pino), ha comunque giocato sul velluto, chiudendo con un net rating di 18.3 (non a caso, hanno il miglior rating difensivo e offensivo della lega), giusto per ribadire l’assunto della superiorità di una formazione sull’altra.
QUI PORTLAND
Portland ha fatto del suo meglio, portandosi a +17 in Gara 3 e battendosi persino in Gara 4, quando l’impressionante quarto d’apertura degli Splash Brothers (45 punti…) avrebbe spinto molti a cedere alla tentazione di togliere le mani dal manubrio e iniziare a pensare alle vacanze. Non di meno, al netto delle magate di Lillard, intento in un derby personale con la squadra della sua città, la serie non è mai stata in discussione.
Nella quieta Portland, città di biciclette, verde pubblico e gente cordiale, a gettare il sasso nello stagno è stato l’opinionista John Canzano, dalle pagine dell’Oregonian. Canzano si è scagliato contro la “cultura” paranoica del club, molto poco incline a quel confronto che viceversa fa la fortuna dei Warriors. Si tratta di accuse un po’ superficiali cui il GM Neil Olshey ha risposto duramente, che però celano una parte di verità, inclusa una certa allergia alle critiche.
Portland era stata costruita sull’asse composto da Lillard e da LaMarcus Aldridge; l’addio di quest’ultimo, accasatosi a San Antonio due anni orsono, aveva fatto preconizzare un fuggi-fuggi generale seguito da annate di puro tanking. Invece i Blazers sono riusciti a qualificarsi per i Playoffs sia nel ’16 che quest’anno, ma per riuscirci hanno dovuto strapagare alcuni giocatori, caricando il monte salariale all’inverosimile.
Nelle exit interviews, Olshey è tornato sui contrattoni elargiti a destra e a manca, usandoli per sottolineare come Portland tratti bene i proprio giocatori, un ragionamento che non può non ricordare (sinistramente) il modo di ragionare di Jim Buss a Los Angeles, che, a forza di spendere e spandere per non subire lo smacco di farsi soffiare i free agent, si è ritrovato a spasso, licenziato dalla sorella Jeanie.
Portland ha rifirmato il suo numero zero con un quinquennale, e oggi si ritrova col secondo monte salariale della NBA, complici anche il rinnovo di Crabbe, i 16 milioni di Turner, e i contrattoni di Myers Leonard e Mo Harkless, in una distribuzione di dollari a pioggia (approvata dalla proprietà) che ha lasciato molte caselle vuote nello scacchiere tattico di Stotts.
L’anno prossimo entrerà in essere il nuovo contratto di C.J. McCollum (che partirà da 23.962.000 dollari, a salire fino ai quasi 30 milioni del 2020-21) portando il monte salariale della squadra oltre i 140 milioni di dollari, in pieno territorio di Luxury Tax, impedendo così movimenti in sede di free-agency che vadano oltre la Tax-Payer Mid-Level Exception.
In questo senso, il lavoro di Olshey è certamente criticabile -non ci si può però dimenticare dell’infortunio estivo che ha tolto di mezzo Festus Ezeli (destinato a lasciare Portland) per tutta la stagione– ma qual era l’alternativa? Perdere Lillard, lasciarsi sfuggire McCollum e ripartire dal draft, con tutti gli incerti annessi e connessi a questa scienza inesattissima?
L’arrivo di Jusuf Nurkic, scaricato da Denver per regalare più spazio a Jokic, ha aggiunto una dimensione in più ai Blazers (il centro bosniaco ha accumulato 15 punti di media e 10 rimbalzi nelle 20 partite giocate per la franchigia di Paul Allen), ma non è certamente l’addizione che, da sola, potrà portare questo gruppo allo stesso livello dei Warriors o degli Spurs, e forse nemmeno a quello dei Rockets.
Il bosniaco ha restituito un profilo più logico al roster, anche rispetto a quelle che sono le caratteristiche di giocatori come Al-Farouq Aminu, Allen Crabbe o Noah Vonleh, che possono essere role-player importanti in un contesto vincente, e, a tratti, l’hanno dimostrato anche in questa serie, ma sono tutti giocatori peculiari e non sono adatti a gestire responsabilità eccessive all’interno del meccanismo di Stotts.
Portland è stata esposta in modo impietoso, come una squadra che vive e muore delle creazioni dei suoi esterni più talentuosi. Damian Lillard però, nonostante le doti balistiche e il talento che si porta appresso, non è un vero creatore di gioco (né in senso classico, né tantomeno alla John Wall) e McCollum è una guardia pura. Una volta isolati loro due, il gioco è fatto.
I Blazers sono l’ultima squadra tra le qualificate ai Playoffs per punti su 100 possessi (appena 96.3), hanno tirato col 32% da tre, e si ritrovano ultimi nella percentuale di assist su 100 possessi (14.9 e fanno quasi il paio con le palle perse, che sono 14.5). I Trail Blazers sono giovani e atletici, catturano tanti rimbalzi (44 ad allacciata, buoni per 14.8 second chance points) ma non hanno l’intensità difensiva necessaria per forzare palle perse e correre in contropiede, e allo stesso tempo, non sono così forti in attacco da poter giocare a ritmo blando.
Dopo Gara 4, Olshey ha detto che Portland si prepara ora a far fruttare al meglio le sue tre scelte (la 15, la 20 e la 26) usandole come esche per qualche scambio, oppure per aggiungere talento al roster. Tutto può succedere, nel senso che queste scelte e i giocatori in rosa costituiscono materiale sufficiente per provare a migliorare la squadra in modo anche consistente; staremo a vedere se alla lunga, l’unilateralismo di Olshey pagherà dividendi.
QUI GOLDEN STATE
Inserite le marce alte, e archiviata senza sforzo la pratica-Blazers, i Warriors possono godersi qualche giorno di riposo, utile a recuperare Shaun Livingston e Kevin Durant (rientrato in Gara 4, ha chiuso con 10 punti e 4-7 in 20 minuti d’impiego durante i quali è sembrato in buone condizioni) in attesa di sapere se al prossimo turno troveranno gli Utah Jazz o i Los Angeles Clippers.
Se solo Lillard pensava davvero che questa serie potesse essere un’upset (Blazers in 6, è stata la sua ottimistica previsione), i problemi per i Warriors si sono materializzati lontano dal campo: coach Steve Kerr si è infatti dovuto fermare, lasciando la responsabilità della lavagnetta a Brown, per l’acutizzarsi dei problemi alla schiena che lo tormentano da ormai due anni, quando, dopo aver vinto il titolo, si sottopose ad un intervento chirurgico dall’esito nefasto.
Secondo quanto riportato dai giornali della Baia, Kerr riesce a malapena a muoversi (e chi ha sperimentato problemi alla schiena, non può che solidarizzare) ed è soggetto a dolorose fitte, tali da rendergli impossibile la concentrazione necessaria per lavorare decentemente. Le ultime notizie lo danno in miglioramento, ma Kerr ha già detto di voler tornare solo quando sarà sicuro di poter accompagnare la squadra per il resto dei Playoffs, e cioè quando i medici dello Stanford Medical Center avranno scovato e guarito la lesione della Dura Madre spinale che lo attanaglia da ormai 20 mesi.
Nessuno sa esattamente se e quando Kerr potrà tornare ad occupare il suo posto in panchina tra Ron Adams e Mike Brown, l’uomo arrivato ad Oakland a luglio, proprio per prendere il posto di Luke Walton come vice-allenatore, sfruttando le sue doti umane e il rigore difensivo. Di contro, Brown è sempre stato un po’ dogmatico nei suoi credo, e non è altrettanto bravo con gli aggiustamenti offensivi, un dettaglio che potrebbe incidere non poco quando il gioco si farà duro.
Intanto però, i Warriors hanno vinto con agio una serie che si sarebbe potuta complicare, se la concentrazione non fosse stata quella giusta, e se Stephen Curry non fosse in condizioni atletiche infinitamente migliori rispetto a quelle, precarie, degli scorsi Playoffs, quando si trovò con le polveri bagnate nel peggior momento possibile della stagione.
G-State ha smazzato 27.3 assist a serata, tirando con un ottimo 48.4% dal campo, divertendosi anche in difesa, con 41 stoppate in 4 partite, 8.3 rubate, 21 “deflections” e 46.5 rimbalzi di media, cifre che non dicono tutto, ma indicano il pantagruelico appetito di un gruppo diviso tra giocatori in cerca di rivalsa dopo Gara 7 con Cleveland, e nuovi arrivati, che si stanno gustando ogni istante del loro dominio tecnico sugli avversari.
Golden State ha metabolizzato alla perfezione gli innesti estivi; Kevin Durant è nato per giocare questa pallacanestro, sia in attacco che in difesa, dove il suo contributo resta largamente sottovalutato. Zaza Pachulia non sarà mai un fine dicitore, ma ha l’intelligenza cestistica per rendersi sempre utile, così come David West, che porta più qualità in senso assoluto rispetto al predecessore Speights. JaVale McGee, opportunamente dosato, è diventato un fattore difensivo e un’arma in più in attacco.
Tutto questo fa sì che Klay Thompson, Iguodala, Draymond Green e Curry si ritrovino con più spazio di manovra e più soluzioni disponibili, facendo oltretutto meno fatica rispetto allo scorso anno, quando il drive-and-kick era diventato una fatica immane, e capitava che i Warriors costruissero tiri sul perimetro, anziché attaccando il canestro per poi riaprire (in questa serie, i Dubs hanno segnato 44.5 punti in verniciato originati dai tagli, anziché dalle penetrazioni dritto per dritto).
In attesa di test più probanti rispetto ai malcapitati Blazers, G-State si gode lo stato di grazia, con 325 passaggi effettuati a partita (e da questi passaggi, nascono 65.3 punti ad allacciata), un’esecuzione ormai precisissima di un sistema offensivo che richiede intensità e che si nutre del movimento senza palla, e la generale sensazione di un gruppo unito per un obiettivo più grande…
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.
A pensare male si fa peccato ma ci si indovina sempre …
2011 – Chris Paul ai Los Angeles Lakers : NBA Commisioner Block !!!
Poteva essere una dinastia vincente ed almeno il 6° anello per Kobe Bryant
2016 – Kevin Durant ai Golden State Warriors : NBA Commisioner where are you ???
Può essere una dinastia ed il 1° Anello per Kevin Durant
Anche negli USA vale il concetto : 2 pesi e 2 misure.
sei serio???
Charlotte era di proprietà della lega
ops volevo dire New ORLEANS