Finalmente ci siamo, dopo una stagione regolare lunghissima e zeppa di colpi di scena, da sabato 15 andranno in scena dei Playoffs destinati a dirci tutta la verità su tante franchigie e giocatori, una serie dopo l’altra, fino a disvelare vincitori e sconfitti, oltre al nome della squadra che sarà campione NBA 2017.

Molti osservatori preconizzano la terza finale consecutiva tra le due superpotenze, Cleveland e Golden State, favorite da un pronostico che però è atteso alla prova del campo, e che dovranno superare le mille insidie poste da tante formazioni agguerritissime, dai giovani Boston Celtics, sino ai solidissimi veterani di San Antonio.

Per di più, questi Playoffs saranno il banco di prova per due giocatori ormai assurti al rango di stelle di primissima grandezza: James Harden, deus-ex-machina degli Houston Rockets, e Russell Westbrook, che si è iscritto negli annali come il secondo giocatore di sempre (l’altro è The Big O, Oscar Robertson) a viaggiare ad una tripla-doppia di media.

Gli dei del basket hanno voluto che Rockets e Thunder si incontrassero al primo turno, regalandoci una sfida “for the ages”. Insomma, può darsi che la Finale sia scontata (stiamo a vedere…) ma questo non toglie nulla al gusto di una post-season che si preannuncia entusiasmante e intensa, sin dalle prime battute.

-HOTS-

GOLDEN STATE WARRIORS

L’anno scorso i Warriors fecero la fine di Icaro, volando troppo in alto per superare il record dei Chicago Bulls del ’96, per poi pagare le troppe energie spese nel corso di una Finale nella quale si trovarono a condurre per 3-1, prima di sfracellarsi al suolo in Gara 7. I nuovi Dubs non hanno mai parlato di record e traguardi, inserendo Kevin Durant nei loro meccanismi (offensivi e difensivi) con irrisoria facilità.

Le cose si erano complicate con l’infortunio patito da KD, che ha esposto le rotazioni corte dei ragazzi di Oakland (e non poteva essere diversamente, avendo sacrificato Harrison Barnes e Bogut sull’altare di Durantula). Per assurdo, la distorsione al legamento mediale di Durant si è rivelata una benedizione sotto mentite spoglie, scacciando i fantasmi di una “normalizzazione” di Curry, che, in contumacia-KD, viaggia a 26.9 punti di media, con il 47% dal campo, il 41% da tre e 7.1 assist.

G-State vive sempre sul pericoloso crinale della tenuta mentale di Draymond Green, ma quest’anno sembra una formazione meno logora dell’anno scorso, fragile negli spot di guardia, ma con più fisicità, grazie a Matt Barnes e David West, e con più velocità sotto le plance, con la death-lineup e con JaVale McGee. Basterà per tornare in Finale, e vincere?

BOSTON CELTICS

Isaiah Thomas è stato davvero sfortunato, perché la sua miglior stagione, che in altre annate sarebbe certamente valsa una seria candidatura a MVP, è capitata in concomitanza con le prestazioni epocali del Barba e di Westbrook (senza dimenticare Kawhi Leonard e LeBron James, ad abundantiam).

Entrare nel discussione per l’MVP (come si dice in America) dovrebbe essere sufficiente per un giocatore scelto alla 60, ma non è così che ragiona Isaiah, un leader vero, forgiato dalle avversità, a capo di una formazione che nel corso della stagione si è scoperta all’altezza della propria gloriosa storia, fatta di trionfi e di basket celestiale.

I Celtics arrivano ai Playoffs (incontreranno Chicago) con il vento in poppa, dopo aver rischiato di vanificare la rimonta sui Cavs con uno scontro diretto perso malamente. Al Horford si è rivelato il giocatore-collante auspicato al momento della firma, mentre i giovani sono cresciuti, ricavandosi un ruolo negli (splendidi) schemi di coach Brad Stevens.

I dubbi sui Celtics riguardano un tasso d’esperienza relativamente modesto a questi livelli, e un roster di diffuso talento, ma (tolto il Piccolo Grande Uomo, che “io la pressione proprio non la sento”) privo di giocatori capaci di portare a casa una partita complicata da soli. Attenzione però, perché quando la partita sarà in bilico, la differenza potrebbe farla la Beautiful Basketball Mind di Brad Stevens.

I Celts sono qui per restare e hanno un futuro luminoso, dal playmaker di Seattle, giù-giù fino a Marcus Smart e Jaylen Brown, e questa Post-Season sarà importante per accumulare esperienza oltre che per testarsi ai massimi livelli. Chissà che Boston non sorprenda tutti…

SAN ANTONIO SPURS

La sconfitta patita per mano di Noah Vonleh a Portland ha raffreddato qualche ardore, ma gli Spurs si accingono a disputare i Playoffs per la ventesima stagione consecutiva (e per la prima volta senza Tim Duncan), e lo fanno con il look sinistro e serio di una formazione da titolo.

Gregg Popovich ha di recente detto che “ci sono stati anni in cui credevo avremmo vinto e non l’abbiamo fatto, altre volte non lo pensavo possibile e invece abbiamo vinto”. A settembre c’erano molte perplessità circa l’ingaggio di Pau Gasol e la sua convivenza con LaMarcus Aldridge, eppure Pop ha dimostrato ancora una volta la propria maestria, costruendo impronosticabili equilibri.

In tutto questo, passa quasi in secondo piano il ruolo di Kawhi Leonard, conclamato uomo-franchigia, e miglior giocatore two-way dell’orbe terraqueo, con buona pace di Paul George e persino di LeBron James. La taciturna ala da San Diego State padroneggia ormai una mole di movimenti offensivi da scorer di razza, senza cedere un centimetro in difesa. Chapeau.

San Antonio non è una squadra sexy, ma è una formazione ad assetto variabile, esperta e molto ben allenata. Il suo principale difetto? La rotazione delle guardie è fragile, corta e costretta a coprire un Tony Parker al lumicino. Gli Spurs potrebbero pagarla specialmente se l’immortale Manu Ginobili non dovesse tenere il passo rispetto ad una Regular Season nella quale ha centellinato magnificamente le sue perle.

TORONTO RAPTORS

Toronto arriva ai Playoffs con alle spalle un percorso meno netto di quello del 2016, ma da l’impressione d’essere un gruppo migliore, meno “miracolato” e più solido, puntellato dall’aggiunta di Serge Ibaka, e con il miglior DeMar DeRozan di sempre, un attaccante completissimo e più maturo rispetto a 12 mesi fa.

L’infortunio di Kyle Lowry (free agent in estate), leader tecnico ed emotivo del gruppo, ha tolto abbrivio e impedito a Toronto di frequentare i piani più alti della Eastern Conference, ma allo stesso tempo, ha consentito ad altri giocatori del roster di esplorare meglio il loro potenziale, accrescendone la fiducia nei propri mezzi e le risorse nei momenti di difficoltà (vedere Delon Wright per credere!).

Lowry è rientrato (era fermo dal 19 febbraio) con 27 punti e 10 assist nella vittoria di una settimana fa contro i Pistons. Toronto è una squadra difensivamente tignosa, ma ha più risorse offensive rispetto ad un anno fa, quando, giova ricordarlo, arrivò alla super-sfida con i Cavs menomata dai tanti infortuni. L’Ontario si prepara ad una primavera caldissima, e non è solo questione di riscaldamento globale!

HOUSTON ROCKETS

La terza potenza ad Ovest accede ai Playoffs con più dubbi di quanti sarebbe lecito attendersi, visto e considerate le 55 vittorie accumulate, i plausi per coach Mike D’Antoni (tornato finalmente ad allenare da par suo, dopo le tristi parentesi a Los Angeles e New York). I Rockets vivono del talento di James Harden, l’uomo al centro del progetto del GM Morey e degli schemi dell’ex Baffo del West Viriginia, che ha estremizzato ulteriormente i concetti cestistici elaborati ai tempi dei Phoenix Suns di Steve Nash.

D’Antoni non si è occupato solo di Harden: Trevor Ariza è tornato a dare il meglio di sé, così come Pat Beverley, mentre i nuovi (Lou Williams, “Rhino” Anderson ed Eric Gordon) sono stati sul pezzo, contribuendo a trasformare Houston in una macchina da triple e tiri ad alta percentuale. Se dobbiamo scegliere un giocatore che più di tutti ci ha sorpreso, facciamo il nome di Nene Hilario. Il lungo brasiliano si è riciclato alla grandissima, in un contesto teoricamente non ideale, giocando con la passione di un ragazzino e con la presenza di un consumato veterano del proscenio NBA, quale, in effetti, è.

Houston non è però una formazione a prova di proiettile, e pensiamo che i ritmi e certi avversari della Regular Season possano aver mascherato criticità destinate ad emergere nel corso di una serie di Playoffs. Partiti 31-10, i Rockets sono calati, proseguendo con un più normale 27-17 figlio forse di un’amministrazione controllata, in vista di sfide più probanti. Il basket di D’Antoni ha il pregio d’essere estremamente intenso, ma ha sempre faticato contro formazioni capaci di controllare il ritmo e i tabelloni.

Questa Houston è, storicamente, una formazione generosa, capace di slanci che consentono d’andare oltre il mero dato tecnico, come nel 2015, quando approdarono alle Conference Finals, ma l’altra faccia della luna è un’instabilità di fondo difficile da governare. OKC, al primo turno, sarà un test utile a capire la maturità tattica del gruppo, mentre al secondo turno, con ogni probabilità, D’Antoni avrà la Grande Chance di vendicare i suoi Suns contro Gregg Popovich e gli Spurs.

-NOTS-

CLEVELAND CAVALIERS

Da quando la gioiosa macchina bellica ha iniziato a scricchiolare, ciascuno si è costruito la propria opinione sulla sconcertante afasia di una Cleveland dall’attacco celestiale e dalla difesa più porosa di una spugna. Data inizialmente per ovvia e inevitabile titolare del primo seed della Eastern Conference, la squadra di LeBron James si è viceversa fatta rimontare dai Celtics di un immaginifico Isaiah Thomas, finendo testa di serie numero due.

È normale che le squadre campioni si amministrino, o che stentino addirittura a trovare motivazioni all’interno di un’interminabile Regular Season da 82 partite senza nulla in palio, ma i ragazzi di coach Ty Lue hanno decisamente esagerato, trasformandosi un gruppo totalmente imprevedibile, capace di sbancare il Garden di Boston, e poi di perderne inopinatamente due di fila contro gli Atlanta Hawks.

I Playoffs ci diranno qual è la vera Cleveland, a partire dal primo turno, con i Pacers di Lance Stephenson, vecchia conscenza di LBJ. Peraltro, Kyrie Irving e soci dovranno pigiare sull’acceleratore prima del solito; Channing Frye ha di recente detto che vorrebbe avere un’altra decina di partite a disposizione per sistemare quel che non funziona, ma salvo sorprese, i Cavs incontreranno Toronto già al secondo turno per poi (eventualmente) vedersela con i fiammanti Celtics della ditta Thomas-Horford.

Insomma, contrariamente alle abitudini, costeggiare i Playoffs della Eastern Conference non sarà possibile, e se LBJ vorrà raggiungere la sua settima (ebbene sì, settima) Finale consecutiva, allora le stringhe delle sneakers dovranno essere ben allacciate sin dalla prima palla a due.

King James ha a disposizione una pletora di fantastici tiratori da armare, un secondo violino in grado di dipingere pallacanestro come Irving; il problema per questa squadra è tutto nella metà campo difensiva, dove i tiratori, da Kevin Love a Channing Frye, pagano dazio.

I Cavs sono vulnerabili, è chiaro; ma contro Boston sono apparsi capaci di accendere a comando: quali sono i veri Cavaliers?

WASHINGTON WIZARDS

Reduce come sono da una stagione al di sopra delle aspettative, può sembrare ingeneroso collocare i Wiz tra i “Nots”, ma la squadra di coach Scott Brooks non arriva ai Playoffs nella miglior condizione.

Dopo la pausa per l’All-Star Game, il loro rating difensivo si è inabissato, tanto da essere appena migliore di quello dei Cavaliers, dei quali abbiamo appena parlato. Esistono delle scusanti per questo inopinato calo (Bojan Bogdanovic e Brandon Jennings si sono dovuti calare nella parte, inoltre Gortat e compagni hanno giocato in casa appena 10 partite delle ultime 27 gare).

John Wall ha comunque disputato una stagione sensazionale, e Bradley Beal è un autorevole candidato al MIP, ma è chiaro che il modello difensivo di Brooks, basato su una difesa che protegge il verniciato (e dettato dalle caratteristiche dei suoi non velocissimi lunghi), paga solo finché gli esterni riescono a tenere in uno-contro-uno i palleggiatori.

Washington ha armi offensive sottovalutate (a partire dalle qualità di Wall, del quale non si parla abbastanza) ma la chiave di volta per gli Wiz non può che essere la difesa. Riusciranno ad accendere quando più conta? Il primo turno, contro Atlanta, ci darà subito molte risposte sull’effettivo valore della franchigia della Capitale.

LOS ANGELES CLIPPERS

Doveva essere l’anno giusto per tirare le fila delle mille trame che coinvolgono i Clippers, e spremere risultati dal talento di Blake Griffin, DeAndre Jordan e Chris Paul, i tre demiurghi che, con Doc Rivers al comando, hanno dato credibilità ai fratelli meno nobili dei Lakers.

In realtà, il ’17 dei Clips è l’ennesima stagione buona ma non buonissima, che, in concomitanza con le scadenze contrattuali di Paul, Griffin e financo di JJ Redick, potrebbe coincidere col canto del cigno di questo gruppo, che ha raggiunto il proprio miglior momento nel 2015, quando eliminò gli Spurs campioni in carica.

Da quel momento, infortuni assortiti, panchina corta e i problemi comportamentali di Blake Griffin hanno impedito a L.A. di accedere all’autentica élite NBA, quella delle franchigie con la fila di free-agent pronti a saltare a bordo per poter vincere un anello. I Clippers hanno dinnanzi un primo turno non scontato, contro Utah, ma più che gli ottimi Jazz, il vero avversario di Chris Paul e compagni, saranno i fantasmi interiori.

OKLAHOMA CITY THUNDER

OKC arriva ad una Post-Season che non era scontata a luglio, quando Kevin Durant fece armi e bagagli in direzione della Bay Area; in questo senso, la loro stagione non è stata affatto deludente, specie considerando l’annata epica vissuta da Russell Westbrook. L’arrivo dei Playoffs però (che vedranno i Thunder contrapposti ai Rockets dell’altro candidato MVP, Harden) costringerà a constatare la pochezza di un roster pieno di giocatori adatti a fare i role-player, ma che senza Westbrook farebbero pressapoco la fine degli Orlando Magic.

Questo non può che contribuire a magnificare la stagione di Russ, che chiude con 10.4 assist, 10.7 rimbalzi e 31.9 punti ad allacciata. C’è chi, come Zach Lowe, ne ha criticato i numeri, ritenendo gonfiati i suoi rimbalzi, perché di fatto Steven Adams e compagni tagliano fuori per consentirgli di catturare più palloni, ma si tratta di un ragionamento incompleto, perché anche i numeri di Oscar Robertson erano “gonfiati” dal ritmo altissimo dell’NBA di quegli anni.

Ha ragione Lowe, non si può sostenere la candidatura all’MVP di Westbrook solo in base ai numeri, ma lo stesso dovrebbe valere quando James Harden legittima la propria candidatura in virtù di un record migliore (di otto partite). Russ darà tutto nella serie contro il suo grande rivale, ma avrà bisogno dell’aiuto di tutto il roster (a partire da Adams, in calo, e dall’ondivago Oladipo), e anche per questo motivo, l’esito della serie non potrà in alcun modo sancire la superiorità di una stella sull’altra.

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