Dopo un inizio stagione preoccupante (2-8) che aveva lasciato presagire il riesplodere dei problemi legati alla coesistenza tra John Wall e Bradley Beal (e un’annata di passione per il neo-allenatore Scottie Brooks), il 2016-17 dei Washington Wizards ha conosciuto una brusca inversione di tendenza; da quel momento infatti, i Wiz sono 32-14 e hanno iniziato a giocare con tutt’altra lena, imponendosi all’attenzione dei media nazionali.
La vita a Washington D.C. non è facile per i Wizards, complice il continuo andirivieni tipico di una metropoli amministrativa, costruita attorno alle strutture del potere federale e soggetta a cambiamenti legati alle tornate elettorali, tali da impedire il consolidamento di una base di appassionati duratura e fedele, che anzi, si sta erodendo, stagione dopo stagione.
Il Verizon Center, impianto da 20.000 posti e casa dei Wizards dal 1997, è un’arena a volte fredda e distratta, perché le classi agiate di Washington (quelle che possono permettersi i biglietti NBA) sono composte in gran parte da politici, lobbisti e affini (il 30% della popolazione lavora direttamente per il Governo!) che vanno alle partite con poca voglia di urlare o incitare, e non sono parte di una vera e propria comunità cittadina, come avviene invece a Boston o a Oklahoma City.
Persino l’ex Presidente Barack Obama (appassionato di pallacanestro al punto da far costruire un campo alla Casa Bianca) non si è mai sbottonato in uno slancio di autentico trasporto per la squadra locale, che, invero, in passato aveva concesso ben pochi spunti per entusiasmarsi, e anzi, aveva spinto i pochi appassionati a vociare il loro discontento.
Oggi però, la musica è cambiata, e se il primato di franchigia più amata della città resta saldamente in mano ai Washington Redskins (che pure, non raggiungono il Superbowl dal 1991) John Wall e compagni si sono faticosamente costruiti una credibilità e un seguito convinto, dopo le false partenze del “terzo ritorno” di Michael Jordan e dello sconclusionato Gilbert Arenas.
Washington è cresciuta grazie al buon lavoro di Ernie Grunfeld e di coach Randy Wittman, l’artefice della difesa che i Wizards esibiscono da anni, tuttavia cacciato al termine della scorsa stagione, quella che avrebbe dovuto convincere Kevin Durant della bontà del progetto, e invece ha minacciato di deragliarlo definitivamente sulla scorta di problemi interni, infortuni e prestazioni insoddisfacenti, tanto che KD, nativo di D.C., non ha nemmeno voluto incontrare i rappresentanti della franchigia.
Ernie Grunfeld, ebreo d’origini rumene cresciuto nel Queens, a metà anni settanta formava con Bernard King il ”Ernie and Bernie Show”, lo strepitoso backcourt dell’università di Tennessee. Tra i professionisti, Grunfeld non ha conosciuto lo stesso successo di King, ma, al termine di una discreta carriera, è diventato un General Manager NBA.
In otto anni a New York, Grunfeld ha ottenuto un buon record nei Playoffs (61-44) e in regular season (63.6% di vittorie), ma l’amico (?) Dave Checketts lo declassò a semplice consulente sulla scorta dei risultati negativi di inizio 1999, quando, ironicamente, sarebbe bastato attendere poche settimane per veder maturare i frutti delle sue operazioni di mercato.
Latrell Sprewell (preso in cambio di un John Starks all’ammazzacaffè) e Marcus Camby (ottenuto tra mille polemiche in cambio del veterano Charles Oakley) divennero colonne di una formazione capace di raggiungere le Finali, traguardo mai più raggiunto nel post-Grunfeld.
Nella sua successiva esperienza coi Bucks (dei quali ha vestito la maglia da giocatore, proprio come dei Knicks) Ernie contribuì a costruire un gruppo che ha anticipato i tempi di un decennio abbondante. Coach George Karl giocava a quattro esterni e ricorreva a tanto tiro da tre, sulla scorta delle qualità balistiche di Ray Allen, Glenn Robinson, Sam Cassell e Tim Thomas.
Ai Wizards dal giugno 2003, Grunfeld ha faticosamente costruito un’identità attorno ad una franchigia derelitta, spesso in predicato di trasloco verso altri e più verdi pascoli. Dopo le alterne fortune dell’era targata Arenas, Washington è passata per le bizzarie di Nick Young, Andray Blatche e JaVale McGee, risalendo la china grazie alla prima scelta assoluta 2010, John Wall, ormai assurto al rango di stella di primissimo rango nel firmamento NBA.
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Ottenuta carta bianca dal proprietario Ted Leonsis, Grunfeld ha assemblato un gruppo intrigante, passando per alcuni errori di percorso, Jan Vesely su tutti. Se è corretto ricordare gli errori di un dirigente, è altresì giusto rilevare come non esistano General Manager NBA senza scheletri nell’armadio, Jerry West e R.C. Buford inclusi. Grunfeld non è un genio del draft, certo, ma nemmeno un incapace. Con il senno di poi è tutto molto facile, ma, come cantava Jannacci, se me lo dicevi prima…
Dopo aver scelto per anni giocatori dall’etica lavorativa discutibile, creando un’atmosfera in spogliatoio votata al disastro, Grunfeld ha cambiato registro, portando in squadra Paul Pierce, che, in una singola stagione, ha davvero aiutato i giovani a cambiare passo e mentalità.
Washington vanta un quintetto eccellente, completo, talentuoso e maturo, capace di battagliare in modo convincente ai vertici della Eastern Conference, sulla scorta dell’esplosione di Otto Porter e grazie alla ritrovata salute di Bradley Beal, due fattori che però da soli non sarebbero stati sufficienti, non senza John Wall.
Pensare che, non più di due stagioni orsono, uno scrittore e giornalista stimato come John Feinstein (autore del libro A Season Inside, sulla stagione NCAA 1989) lo definì “il quarto miglior giocatore della squadra“, dietro a Beal, Gortat e Nene!
Senza arrivare a tanto, molti commentatori si sono spesi per censurarne l’atteggiamento e i limiti tecnici.
Il nativo di Raleigh non è il classico playmaker, ma non può neppure essere ascritto tra le combo-guard che creano assist solo grazie alla capacità di penetrare e attirare il raddoppio. Wall vede il gioco in modo unico, e questo talento (unito all’esplosività atletica) gli consente di costruire angoli di passaggio dal nulla, anticipando il movimento dei difensori e dei suoi compagni, con una particolare predilezione per il “martello polacco”, il trentaduenne Marcin Gortat, col quale ha un’intesa quasi telepatica.
Dotato di mani forti per ricevere e di tocco per finire, Marcin è un giocatore sui generis, come spesso capita ai ragazzi che crescono lontani dalle grandi scuole di basket. Ex portiere di calcio, il palestratissimo Gortat è arrivato in NBA tardi, mettendosi in luce per i blocchi granitici e per l’intelligenza tattica che gli consente di farsi trovare al posto giusto, nel momento giusto.
Sottostimato a causa della scarsa verticalità (arriva comunque a 1.2 stoppate di media in carriera), è viceversa il perno interno della difesa e dell’attacco dei Wizards, un leader vocale –molto vocale!– che porta in dote 11.9 punti con il 59% dal campo, e 11.4 rimbalzi (il 18.6% di quelli disponibili).
Quest’anno il suo UsgRt si è inabissato (dal 18% abbondante delle sue prime tre stagioni in maglia bianco-rossa, al 14.4% attuale), mentre è cresciuta la percentuale di attacchi “usata” da John Wall, assestatosi ad un 30.6% diviso tra conclusioni personali al ferro, jumper dalla media, e assistenze per i compagni (il 46.6% dei canestri di Washington è frutto di un suo passaggio!).
Lo strepitoso 2016-17 di John Wall non è figlio di una crescita tecnica, quanto piuttosto di una maturazione personale che, a 26 anni, l’ha trasformato in un vero uomo-franchigia. Reduce da due interventi chirurgici di pulizia alle ginocchia, John mette in campo le stesse doti di sempre (velocità, potenza, letture di gioco e difesa) ma quest’anno si è messo al servizio del gruppo, elevandone il rendimento ben oltre i limiti individuali del roster.
Wall non diventerà mai un grande tiratore (dagli angoli segna con appena il 21.1%) ma sa far leva sui propri punti di forza, prediligendo conclusioni ravvicinate, oppure i long-two quando la difesa si chiude e gli concede spazio (li converte con un onesto 42.1%). Soprattutto, sembrano dimenticate le incomprensioni con Bradley Beal, il suo alter-ego cestistico e partner di back-court, col quale ha imparato a lavorare di concerto.
Se Wall, con 22.9 punti e 10.7 assist, si sta levando l’etichetta di giocatore eternamente sottovalutato (mentre altri, come Damian Lillard, che non difendono nemmeno per sbaglio, diventano invece i beniamini del pubblico e degli addetti ai lavori), Beal è diventato quel “real deal” preconizzato dal suo soprannome (e nickname di Twitter, naturalmente).
In luglio ha firmato un’estensione contrattuale da 127 milioni in 5 anni che era sembrata un azzardo, visti i suoi ricorrenti infortuni. In realtà, il ventitreenne Beal ha ritrovato condizione (cambiando dieta e lasciando perdere i dolci) e ritmo, passando dal 44.9% dal campo dello scorso anno, al 47.7% di questa stagione, imparando a giocare negli spazi aperti da Wall, e stando alla larga dai problemi fisici (34.6 minuti d’impiego, in 52 partite).
A dispetto della presenza di una coppia di guardie d’élite Washington non è una formazione a trazione posteriore: Beal e Wall portano in dote 45.5 punti di media e il loro Usage cumulativo sfiora il 60%, certo, ma Washington lavora di squadra, cercando di mettere tutti in condizione di dare il meglio, con una front-line che non è mai semplice spettatrice, e sa capitalizzare le opportunità create dagli esterni.
Otto Porter è diventato un’ala piccola moderna, improntata al 3 and D (45.9% da tre), e non avrebbe senso chiedergli di palleggiare troppo, o di isolarsi sul lato. Lo stesso discorso vale per Markieff Morris, e, a fortiori, sarebbe puro autolesionismo chiedere a Gortat di ricevere staticamente, spalle a canestro.
Coach Scott Brooks, reduce dall’anno sabbatico dopo la fine della sua lunga esperienza con i Thunder, si è insediato tra lo scetticismo dei più; la sua presenza non è servita a reclutare Durant, ma dopo un inizio stentato, ha messo in campo una squadra ordinata, con un sistema offensivo non particolarmente elegante ma funzionale alle caratteristiche del personale, oltre ad una difesa impeccabile.
Washington ha atleti di primissimo piano tra gli esterni, che lavorano bene in marcatura individuale e sulle linee di passaggio orizzontali. La presenza di due lunghi non particolarmente esplosivi o veloci nei close-out, ha spinto Brooks a mettere in campo una difesa che mira a occupare gli spazi sconsigliando la penetrazione, anziché a forzare un meccanismo di aiuto-e-recupero che, con Morris e Gortat, sarebbe votato all’insuccesso.
Porter, bravissimo ragazzo che sta racimolando il career high per punti, rimbalzi, percentuale dal campo, da tre, e per minuti giocati, è l’ago della bilancia di Washington: grazie alle sue braccia interminabili, flotta tra il proprio uomo e l’aiuto, e lavora da rimbalzista aggiunto, supplendo ai limiti di Markieff Morris (Otto cattura 6.7 rimbalzi, appena 0.1 in meno del gemello di Marcus).
Ventisette anni, carattere non facile formato tra le strade di Philadelphia delle quali cantava Bruce Springsteen, Markieff è un perfetto role-player, difensivamente affidabile e arcigno, ma dotato del talento e delle nozioni cestistiche necessarie per non pagare dazio in attacco, dove segna 14.9 punti col 45.8% e un buon 36.7% da dietro l’arco, visto che oltretutto parliamo di un vero stretch-four (cioè un 4 col tiro) e non di un’ala piccola riadattata, alla Draymond Green o alla Jared Dudley.
Se i Wizards non compaiono tra le candidate alla Finale NBA, il motivo risiede principalmente nella panchina, incomparabile non tanto con Warriors e Cavs (che, salvo svolte impreviste, giocano un campionato a parte), quanto con le dirette rivali, vale a dire Raptors e Celtics.
Lo starting-five di Washington sta in campo per 20.1 minuti a partita (solo il quintetto di Minnesota tiene il parquet per più tempo) proprio per cercare di mascherare le deficienze di una seconda unità non all’altezza della situazione, incapace di gestire un vantaggio e tantomeno di crearlo.
Non avere una panchina affidabile comporta una pluralità di conseguenze: Brooks ha poche alternative tattiche, e deve quasi sempre cavalcare i suoi starter, che rischiano di arrivare ai Playoffs con la spia della riserva accesa, o infortunati.
Il ventunenne Kelly Oubre Jr. è un progetto di guardia-ala in divenire (tra lampi promettenti e passaggi a vuoto che vogliamo ascrivere alla giovane età) ma non può essere lui il sesto uomo di una squadra con ambizioni che vadano oltre il primo turno dei Playoffs, eppure è lui, con 20 minuti d’impiego, il primo uomo in uscita dal pino.
Anche per questo motivo, Grunfeld si è mosso prima della trade deadline, acquisendo dai Brooklyn Nets Bojan Bogdanovic (e il giovane Chris McCullough), che riempie la casella di stretch-four alle spalle di Morris, e contribuirà ad allargare il campo con il tiro, mentre ci sarà da lavorare sulla sua difesa individuale e di squadra.
Per ottenerlo i Wizards hanno sacrificato il deludentissimo Andrew Nicholson e Marcus Thornton –e fin qui, benissimo– oltre alla prima scelta 2017, che non sarà altissima, ma sarebbe stato utile tenersi stretta.
Oltre a Bogdanovic e Oubre, la panca di Washington annovera Trey Burke, guardia perennemente in procinto di esplodere, che continua a cercare una sua dimensione nel Distretto di Columbia, Ian Mahinmi (sotto contratto fino al 2020 a 15 milioni l’anno, e ancora in fase di rodaggio dopo l’infortunio al ginocchio) e Tomas Satoransky, guardia praghese proveniente dal Barcellona, destinata, grazie agli ottimi istinti cestistici, ad una bella carriera da facilitatore NBA.
Chiaramente, una rotazione composta da Bogdanovic, Mahinmi, Burke, Satoransky e Oubre non è materiale da Finali di Conference (anche Gortat, senza peli sulla lingua, ha definito la panchina “attualmente una delle peggiori della NBA”), ma questa post-season sarà comunque importante per valutare il valore dei singoli e della squadra nel complesso. Per giunta, in estate Grunfeld dovrà rifirmare sia Otto Porter che Bogdanovic, il che aggiunge ulteriore carne al fuoco.
Insomma, il futuro è ancora tutto da scrivere e non mancano insidie e problemi, ma per la prima volta da molti anni, i Washington Wizards guardano al domani con un pizzico di fiducia.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.