Da giocatore, il cinquantunenne Stephen Douglas Kerr ha vissuto l’All-Star Game solo in veste di specialista del tiro da tre (vincendo l’edizione di Cleveland, nel 1997), mentre nella sua breve carriera in panchina (che segue alla fugace esperienza da General Manager a Phoenix, e ai successi dietro il microfono di ESPN) si è imposto come un fuoriclasse assoluto, capace di creare il clima giusto per lavorare in modo innovativo con il suo staff e con un gruppo di giocatori al quale, nel 2014, non tutti pronosticavano un roseo futuro da dominatori.
In carriera, Kerr è stato un’utile pedina in uscita dalla panchina sullo scacchiere di Gregg Popovich (due titoli vinti assieme) e di Phil Jackson (tre anelli), e proprio Jax, nella sua veste di Presidente dei New York Knicks, l’avrebbe voluto sul pino del Madison Square Garden. Steve ascoltò la proposta del suo vecchio coach, ma preferì l’opportunità offerta dai Warriors all’ombra del Golden Gate, e pochi mesi più tardi, nel febbraio del 2015, tornò al MSG per allenare l’Ovest, forte del miglior record di tutta la NBA, cui sarebbe seguito il Larry O’Brien Trophy conquistato in giugno contro i Cleveland Cavs.
Nella scorsa stagione, complici i problemi alla schiena che continuano a tormentarlo, Kerr ha allenato poco, subentrando al suo vice, Luke Walton, solo quando quest’ultimo aveva già accumulato un record di 39-4 (Kerr ha definito “ridicolo” che quelle vittorie siano ascritte a lui e non a Walton, e ha voluto condividere con l’attuale coach dei Lakers l’onore del premio di Allenatore dell’Anno), per poi chiudere la Regular Season con il miglior bilancio di sempre, e una sanguinosa sconfitta in Gara 7 di Finale, dopo essersi fatti rimontare da 3-1.
Per tanti versi, Kerr è un allenatore jacksoniano, un uomo acculturato, capace di entrare nella testa dei propri giocatori e di costruire un gruppo empatico, prima ancora che una squadra vincente (il suo record è 178-31!). Attenzione però a non derubricarlo a “santone della panchina”, tutto apparenza e poca sostanza. Al contrario, Kerr conosce il gioco e ha una preparazione tecnica davvero rara, mentre il suo zest for life (in italiano, “gioia di vivere”) è stato forgiato nella tragedia: suo padre, Malcolm Kerr, accademico e presidente dell’università americana di Beirut (dove Steve è nato), fu assassinato dalla Jiihad Islamica quando Steve aveva 18 anni.
Quell’evento lo segnò profondamente, rafforzandolo (e ce ne vuole di forza, per segnarne venti, piangendo, mentre dagli spalti alcuni ragazzi della tua stessa università inneggiano agli uccisori di tuo padre!) senza però fargli perdere lo spirito positivo e ironico con il quale ha sempre affrontato la vita e il suo sport preferito, prima da giocatore, e ora, come coach dei vice-campioni NBA, rappresentati, nella selezione dell’Ovest, da ben quattro giocatori (non capitava dai tempi degli L.A. Lakers del 1998, con Shaq, Kobe, Eddie Jones e Nick Van Exel).
Steve ha già detto che troverà qualche minuto per farli giocare tutti assieme, offrendo al pubblico dello Smoothie King Center l’immagine rara di una squadra di club schierata all’All-Star Game, e che ci lascia con una curiosità: chi sarà il quinto Beatle?
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.