Parlare di Earvin Magic Johnson come del giocatore-simbolo dei Los Angeles Lakers sarebbe riduttivo: la guardia da Michigan State è stata motore e artefice di uno stile di gioco memorabile e ineguagliato, quello dello Showtime anni ottanta. In questo senso, Magic incarna i Los Angeles Lakers.
Nessun giocatore ha contribuito quanto lui al mito della propria franchigia e alla sua mistica vincente, fatta di spettacolo, star-system e competizione. Neppure Jerry West, nemmeno Kobe Bryant. Magic era l’uomo dei passaggi no-look, il leader dal sorriso capace di illuminare le arene di tutta America, la stella che faceva risplendere i compagni, e che, nel novembre del 1991, fece versare lacrime a tanti appassionati, annunciando la propria sieropositività, quando ancora l’HIV era sinonimo di emarginazione sociale, ed equivaleva ad una sentenza di morte.
La vita dopo il basket è stata generosa con Johnson, tanto quanto quella sul parquet; è riuscito a salvare il matrimonio con la moglie, la mitica Cookie, e si è trasformato in un uomo d’affari di successo, in un supporter del Partito Democratico e in un mecenate della lotta ad AIDS e HIV, concedendosi anche un breve ritorno in NBA, nel 1996, quando, con una panza da dopolavorista, tornò a dispensare magie.
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Proprietario di minoranza dei giallo-viola dalla metà degli anni ’90 fino al 2010, cinque anni fa Johnson ha preso possesso dei Los Angeles Dodgers (con una cordata composta da Guggenheim Partners, Peter Guber e Stan Kasten), ottenendo buonissimi risultati anche in MLB. Magic possiede anche quote delle L.A. Sparks, e del Los Angeles Football Club (cui va tutta la nostra simpatia per non essersi chiamato “soccer club”).
Lo scorso giugno Johnson abbandonò il ruolo di vice-presidente onorario dei Lakers; voci vicine alla franchigia sostenevano che il passo indietro fosse stato richiesto dalla famiglia Buss, e fosse dipeso dall’uso disinvolto che Magic faceva di Twitter; Johnson non ha mai lesinato frecciate alla sua franchigia e ai suoi rappresentanti, creando un certo imbarazzo nella compagine azionaria.
La distanza tra Lakers e Magic non è però durata molto a lungo, poiché giovedì scorso la presidente Jeanie Buss lo ha nominato suo consigliere (e rimarchiamo: suo, non del front-office); è un ruolo il cui contenuto effettivo (e la cui influenza) si delineerà con i fatti, anziché desumendoli dalla vaga lista di compiti scritti su carta intestata.
Quel che è certo è che Jeanie ha tenuto una posizione attendista per più di un lustro, concedendo con riluttanza al fratello Jim la chance che il patriarca Jerry Buss voleva concedergli, ma l’ex ragazza-copertina di Playboy è ormai pronta a riprendersi le redini della franchigia (pare che anche il Commissioner, Adam Silver, l’abbia sollecitata in tal senso).
La nomina di Magic è stata dunque interpretata da molti osservatori come la prima mossa di Jeanie in vista del possibile (probabile?) licenziamento di Jim, responsabile operativo delle decisioni sportive, inviso al pubblico angeleno, e reduce da sei anni non esattamente esaltanti sul piano dei risultati sportivi e delle pubbliche relazioni (curate, come sempre, dall’incolpevole Mr. Black).
La squadra allenata da Luke Walton –17-35 al momento di scrivere– si avvia a mancare per il quarto anno consecutivo l’accesso ai Playoffs della Western Conference (evento inaudito nella storia della franchigia), con un bilancio complessivo che non esitiamo a definire sportivamente tragico.
Nel 2011 Jim Buss ereditò un roster sconfitto 4-0 dai Dallas Mavericks (poi campioni NBA) ma capace, nei tre anni precedenti, di raggiungere tre Finali, vincendone due. Era una formazione matura, espertissima e talentuosa, che, opportunamente puntellata, sarebbe rimasta “in contention”, regalando forse un epilogo diverso alla carriera di Kobe Bryant, condannato invece ad un ruolo da mesto portabandiera, tra le macerie della gloria passata.
Dal 2011, i Lakers hanno imboccato la strada sbagliata a ogni bivio (unica, felice eccezione, il Draft, dove L.A. ha sempre scelto molto bene), passando da contender a formazione derelitta, senza sostanza e direzione, sempre alla ricerca di una svolta improbabile e invariabilmente disattesa.
Due anni fa il clima attorno alla franchigia si fece tanto teso da spingere Jim Buss a legare il proprio destino professionale a una malaccorta promessa: se i Lakers non fossero tornati “rilevanti” entro il 2017, si sarebbe fatto da parte, mantenendo la propria quota azionaria, ma rinunciando al titolo di Executive Vice-President of Basketball Operations.
L’auspicio collettivo dei fans giallo-viola è che Buss tolga quanto prima il disturbo, mentre i più giacobini vorrebbero tagliare i ponti anche con il General Manager, il sessantaduenne Mitch Kupchak, a lungo delfino di Jerry West, e poi protagonista, nel bene (cinque titoli, sette Finali) e nel male di questi ultimi venti anni.
Magic ha sempre avuto parole dolci per Mitch Kupchak, tanto da aver più volte invitato Jim Buss a delegargli le scelte relative al personale, accontentandosi di fare il proprietario, come suo padre. È probabile quindi che il destino di Mitch (che Magic vuole incontrare al più presto) non sia quello di seguire Jim Buss, ma di restare nella Lakers Family, forse con un ruolo diverso da quello di General Manager.
Insomma, il futuro sembra scritto: la pietra angolare dei nuovi Lakers (in attesa di mettere alla porta Jim Buss) è coach Luke Walton, un allenatore moderno, preparato, che, almeno nelle intenzioni, traghetterà i lacustri nella modernità cestistica capitanata dai Golden State Warriors, dei quali è diretta emanazione.
Come conciliare, però, l’avanguardismo di Walton con la nomina di Magic, che strizza l’occhio al passato ormai remoto della franchigia, incarnato da un uomo le cui idee sono più simili a quelle di Byron Scott (espresse con altro carisma, certo) che a Steve Kerr o Brad Stevens?
Magic è tornato per aiutare Jeanie a determinare la strada giusta per la crescita e il successo della franchigia: forse non diverrà mai un pretoriano degli analytics, ma siamo convinti che sacrificherà volentieri le sue idee in favore della causa (oltretutto, le stagioni con i Dodgers gli hanno mostrato i pregi della Sabermetrica), perché è un vincente, uno che ha spalle così robuste da saper ammettere d’aver torto.
Johnson sarà la longa manus di Jeanie, l’uomo che identificherà per lei la strategia complessiva, e che, quando verrà il momento, si sporcherà le mani risolvendo il problema presentato da Jim Buss; in passato lo ha sbertucciato a più riprese in pubblico, criticandone il ruolo, la pretesa di far tutto da solo, e l’ego ingombrante (la risposta di Buss è stata emblematica: “Mio padre ti ha quasi reso miliardario, da dove arrivano queste accuse?”).
Magic non sarà direttamente a coinvolto con lo staff tecnico, anche se si è detto disposto a lavorare con i singoli giocatori (un po’ come fece Kareem Abdul-Jabbar, poi epurato da Jim Buss), parlando in particolare di D’Angelo Russell, la giovane stella che quest’anno ha mostrato miglioramenti rilevanti, e della quale Magic vorrebbe diventare mentore.
Per maturare e imparare a fare la differenza, i giovani Lakers, da Russell a Brandon Ingram (senza dimenticare Julius Randle, Jordan Clarkson, Larry Nance jr. e Ivica Zubac) hanno bisogno di una guida come la sua, dotata dell’autorevolezza e del carisma di chi ha dominato e vinto ai massimi livelli.
Vedere Magic aggirarsi ad El Segundo, poterci interagire, sono fattori destinati a creare nei giovani Lakers la consapevolezza del retaggio che la maglia giallo-viola comporta; un conto è vedere le foto dei grandi del passato appese nei corridoi, o le loro maglie gloriose far bella mostra sui gonfaloni, e un altro è parlarci ogni giorno, ascoltarne le opinioni e assorbirne la mentalità.
Magic potrebbe essere solo la prima delle leggende della franchigia a far ritorno all’ovile: anche Kobe Bryant ha dato la propria completa disponibilità alla famiglia Buss, dichiarando che qualunque cosa dovesse servire (un portavoce, qualche consiglio o delle dritte allo staff) lui è pronto a dare una mano, senza ricoprire alcuna carica nell’organigramma societario.
Come ha detto coach Walton, “Magic è un giocatore per il quale il rispetto è automatico, anche senza conoscerlo personalmente, per quello che ha fatto sul campo e per il modo in cui vedeva il gioco”. Difficile stabilire fin d’ora se basterà questo per invertire la rotta allo Staples Center, e portare ordine e chiarezza ad El Segundo, ma guardando quel sorriso, è difficile non essere ottimisti.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.