La storia di Carmelo Anthony con i New York Knicks (21-28 dopo la sconfitta con gli Atlanta Hawks al quarto overtime) sembra ormai giunta all’epilogo: che vada o no in porto lo scambio a tre imbastito da Doc Rivers (ci torneremo in seguito), Melo ha chiaramente le valigie pronte davanti alla porta del suo appartamento nell’Upper West Side, mentre il Presidente Phil Jackson ha dato mandato ai suoi sottoposti di trovare una trade, e il GM Steve Mills ha già bussato alla porta dei Boston Celtics e dei Cleveland Cavaliers.
Il matrimonio tra Anthony e i Knicks è nato sotto una cattiva stella: era il 22 febbraio 2011 quando il proprietario James Dolan si fece prendere dalla smania d’averlo subito in squadra, e, anziché attendere la free agency, quando Melo sarebbe uscito dal contratto con i Denver Nuggets, preferì forzare uno scambio alla trade deadline, mandando in frantumi l’equilibrio faticosamente costruito da Donnie Walsh, coach Mike D’Antoni, Jeremy Lin, Wilson Chandler e Danilo Gallinari.
Sono passati sei anni, e New York ha visto la luce dei Playoffs appena tre volte, superando il primo turno solo in occasione della cavalcata di coach Mike Woodson (quella dei vecchietti terribili, Jason Kidd e Pablo Prigioni), risoltasi poi nell’ennesimo fuoco di paglia di una franchigia che sembra strutturalmente incapace di resistere alla tentazione della scorciatoia miracolosa, tanto che anche con Phil Jackson al timone, i Knicks continuano inesorabilmente a darsi la zappa sui piedi come se a comandare fossero ancora gli Scott Layden, i Glen Grunwald o gli Isiah Thomas.
Carmelo, cresciuto a pane e Knicks tra i palazzoni popolari di Red Hook (protagonisti anche di un lungometraggio datato 2012 di Spike Lee), ha visto così il sogno di vestire una maglia arancio-blu trasformarsi in un incubo, tanto da aver recentemente tracciato un parallelo tra la propria parabola e quella di Patrick Ewing, leggendario centro giamaicano degli anni ottanta-novanta, spesso criticato dai media locali, e poi messo sbrigativamente alla porta quando la Grande Mela s’infatuò di Sprewell e Houston, sulla scorta della Finale persa nel 1999.
Marcato strettissimo dai giornalisti newyorkesi, ai quali non è parso vero di poter mettere le mani su un giocatore così controverso, oltretutto sposato alla showgirl LaLa Vasquez, Anthony è da anni sotto assedio, secondo la logica per cui le stelle dei Knicks vanno trattate come bersagli anziché come icone, ed è difficile trovare qualcuno disposto a raccontarne la parabola all’ombra del Gardenin modo imparziale.
Anthony ha idealmente raccolto l’eredità di ali piccole come Glenn Robinson o Glen Rice, realizzatori potenti, balisticamente temibili, il cui stile però è oggi irrimediabilmente demodé; da un punto di vista statistico, Carmelo ha fatto tutto quel che si potrebbe chiedere ad una superstar, ma le cifre occultano un modo di giocare tendente all’isolamento che nell’NBA del 2017 non ha più diritto di cittadinanza. In più, Melo ha perso esplosività, come confermano le sue cifre ai liberi: a Denver nel 2010 ne tentava 8.9 a partita, ora siamo scesi a 5.2.
Qualcuno parla di egoismo, ma è più probabile che Melo stia semplicemente continuando a giocare come sa, costretto sulla difensiva dall’inesorabile trascorrere degli anni e da un ambiente (i giornalisti, ma anche il pubblico, che fischia senza ritegno e spesso senza cognizione di causa –vedi Gallinari e Porzingis-) storicamente incline a grandi innamoramenti seguiti da cocenti delusioni (ne fecero esperienza anche Latrell Sprewell e Allan Houston), e che spinge chiunque transiti per il MSG ad arroccarsi sulle proprie posizioni.
L’arrivo dello Zen Master aveva lasciato uno spiraglio alla speranza di convertire l’ala di Brooklyn ad una pallacanestro di squadra, ma Phil Jackson è ormai anziano, ed è arrivato al Madison per fare il presidente, non l’allenatore. Il suo rapporto con Melo non è mai stato (ne poteva essere) quello avuto con Michael Jordan o Kobe Bryant.
Il fallimento di quest’ultima versione dei Knicks va ascritto anche all’ex fidanzato di Jeanie Buss; gli head-coach da lui nominati si sono rivelati inadatti, e fu proprio Jackson a rifirmare Carmelo Anthony (con tanto di clausola no-trade, che consente al giocatore di mettere il veto su eventuali scambi, e che hanno solo lui, LeBron e Dirk Nowitzki) nel luglio del 2014, evitando gli strali della stampa, ma ingessando la situazione salariale e rendendo New York troppo forte per tankare, ma troppo debole per fare la differenza ai Playoffs.
Se la scelta al draft di Kristaps Porzingis è stata certamente azzeccata, tante altre mosse non si sono rivelate all’altezza, e, quel che è peggio, non lasciano intravedere una strategia chiara e un’analisi lucida del valore dei giocatori, quanto piuttosto un continuo barcamenarsi tra le proprie idee, e l’esigenza di ammansire Daily Mail, Post e compagnia: solo così si spiegano scelte azzardate come la firma di Joakim Noah e Brandon Jennings, o lo scambio per Derrick Rose, attualmente separato in casa e a sua volta destinato a fare le valigie.
Appurato che il traballante coach Jeff Hornacek non è riuscito a rigenerare Rose –avrebbe però senso chiedersi se l’ambiente è quello giusto per tentare un’operazione di questo genere– Jackson ha tratto le inevitabili conclusioni, e sta tentando con forza di liberarsi di Carmelo per azzerare e ripartire, ma può farlo solo spedendolo presso una franchigia gradita al giocatore (complice la no-trade clause), e scordandosi una contropartita tecnica all’altezza: nessuno gliela offrirà, vuoi per l’età del trentaduenne Carmelo, vuoi perché i GM NBA hanno fiutato l’odore del sangue, e nessuno farà follie per una stella che peserà 29,363,544 dollari (oltre ai 24 milioni di contratto, c’è un trade-kicker del 15%) sul cap.
Nella sua veste di plenipotenziario dei Clippers, Doc Rivers si è lestamente proposto come acquirente, forte della piazza angelena, che fa gola a Melo (e alla influentissima signora LaLa…), dicendosi però indisponibile a privarsi dei suoi “giocatori chiave”. Phil Jackson e Steve Mills hanno comunque intavolato una trattativa che ruota attorno a Austin Rivers e Jamal Crawford, tradendo l’intenzione di sbarazzarsi di Anthony indipendentemente dal valore della contropartita.
Al momento di scrivere, la trade è in ghiaccio, perché Jackson non vuole sobbarcarsi il contratto di Crawford (37 anni e quasi 30 milioni garantiti per le prossime due stagioni), così, mentre Doc Rivers cerca una terza squadra da coinvolgere per chiudere il cerchio, Danny Ainge di Boston valuta il da farsi: il GM biancoverde, interessato anche a Nikola Vucevic di Orlando, non intende separarsi dalla prossima prima scelta dei Brooklyn Nets (i Celtics detengono i diritti per quella che quasi certamente sarà una chiamata top-3).
Ainge potrebbe però proporre un pacchetto di ali comprendente Amir Johnson, Jonas Jerebko (graditi a New York perché in scadenza) e Jae Crowder. Carmelo sarebbe un’addizione intrigante sia per i Celtics che per i Clippers, perché accrescerebbe il tasso di talento dei rispettivi roster, senza sacrificare nessuna pedina importante.
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Melo ha caratteristiche tecniche compatibili sia con l’attacco di Brad Stevens che con quello di Rivers, ma quando si parla di Anthony il punto critico non è rappresentato dalla sua comprensione del gioco, quanto dalla disponibilità ad abbracciare un modo di giocare diverso dal solito isolamento sul lato, o dalla ricezione statica al gomito, e, soprattutto, dalla voglia (non scontata) di difendere con una verve diversa da quella esibita abitualmente in carriera.
Sono tanti “se”, e questo spiega la titubanza di Danny Ainge, che ha già un nucleo futuribile e deve evitare azzardi dei quali pentirsi in seguito, mentre la situazione dei Clippers (in estate dovranno cercare di ri-firmare Paul, Griffin e JJ Redick) impone a Rivers una maggiore spregiudicatezza (inclusa la cessione del figlio, Austin, che sta forse giocando la miglior pallacanestro da quando è arrivato ad L.A.).
Per quanto non sia più nel fiore degli anni, Melo è ancora un eccellente giocatore, e troppo spesso continuiamo a sottovalutare l’effetto che uno spogliatoio coeso e un obiettivo chiaro possono sortire sulla psiche di un giocatore: lontano dai Celtics, Rajon Rondo è andato alla deriva, mentre, con Mike D’Antoni, James Harden è passato da irritante egoista a candidato per l’MVP.
In fondo, Glen Rice vinse il suo unico titolo NBA adeguandosi ad un ruolo minore nell’Attacco Triangolo dei primi Lakers di Phil Jackson (per poi finire a svernare proprio ai Knicks), mentre Glenn Robinson diventò campione nel 2005 alla corte di Gregg Popovich, riciclandosi addirittura come specialista difensivo, con una delle più improbabili metamorfosi mai viste su di un parquet NBA.
Giunti, come sembra, al punto di non ritorno, sembra davvero che una trade (non importa nemmeno quale) sia la soluzione migliore per tutti: toglierebbe Carmelo Anthony da una situazione insostenibile, offrendogli l’ultima opportunità per provare a fare la differenza ad alto livello, e consentendo finalmente ai Knicks di iniziare a tutti gli effetti la nuova era targata Kristaps Porzingis.
Seguo la NBA dal lontano 1997, quando rimasi stregato dalla narrazione di Tranquillo & Buffa, e poi dall’ASB di Limardi e Gotta.
Una volta mi chiesero: “Ma come fai a saperne così tante?” Un amico rispose per me: “Se le inventa”.