Quando si scattava al semaforo verde, a fine ottobre, la corsa al titolo di MVP sembrava la più caotica delle Wacky Races. Particolari congiunzioni tecniche ci stanno regalando un’annata NBA da attacchi prolifici, performer in forma smagliante, triple doppie come se piovesse.
Eppure, nonostante una competizione livellata verso l’alto, a metà gennaio stiamo già parlando di una danza a due, un valzer destinato a decidersi all’ultimo passo. Russell Westbrook e James Harden si contendono la vittoria, ma non si può tacere degli altri candidati; in anni di concorrenza meno spietata sarebbero stati MVP degnissimi.
Kawhi Leonard, per citare uno dei più accreditati alla vigilia, gironzola tra i piani altissimi della lega già da qualche anno ma non ha ancora cominciato a farsi largo sbattendo le porte: non è il suo stile.
Gli Spurs cambiano uomini ma continuano a vincere, come sempre, per inerzia, eppure i successi dei neroargento non stuzzicano l’attenzione. Non sembrano una squadra migliore di quella che in maggio si arrese agli Oklahoma City Thunder, tutt’altro. Pau Gasol è ancora un oggetto da decifrare nel sistema Spurs, Aldridge è continuamente accostato a voci di mercato, coach Pop ha perso il sorriso dopo il ritiro di Duncan e non si fida a sguinzagliare le giovani leve.
Il risultato è che l’impronta di Kawhi sulla squadra si è fatta pesante, le sue responsabilità in attacco forse maggiori delle aspettative. Gioca con la solita efficienza (91% ai liberi, 40% da tre), ma a volte scende tra i comuni mortali; come qualche sera fa, coi due errori a bruciapelo contro Atlanta. L’impressione è che si trovi qualche pollice fuori dalla sua comfort zone, quella che gli permette di essere un giocatore totale su entrambi i lati del campo. Rimbalzi e percentuali sono in calo, il rating difensivo anche, ma qui c’è lo zampino delle squadre avversarie che cercano di isolarlo.
Non ci è voluto molto a Kevin Durant per imporsi come pericolo pubblico numero uno in quel di Oakland. Ai Warriors si vince e si vive in armonia – almeno finché non si arrabbia Draymond Green che è quello che tiene in moto la macchina – ma se dovessimo stabilire una gerarchia, con la pistola puntata alla tempia, metteremmo KD davanti al posato Steph Curry di inizio stagione, lontano dai numeri accumulati lo scorso anno.
La difesa di Golden State ha smarrito la sua identità e fa preoccupare Steve Kerr, ma l’attacco è una macchina scintillante e Durant ne è il principale beneficiario. La percentuale dal campo terrorizza gli avversari, 26 punti col 53% abbondante, e partita dopo partita si è scoperto anche rim protector – career high in rimbalzi e stoppate. Mica male come risposta alle critiche estive.
Finché non deciderà di ritirarsi LeBron James meriterà sempre una menzione nella discussione per l’MVP. L’idea di pallacanestro lebroniana è ormai un concetto affermato, una forza dominante nel meta-game della lega: o la imiti o cerchi di controbatterla.
Nella bibliografia delle triple doppie disseminate da Harden e Westbrook è stampato a chiare lettere l’omaggio al suo nome. “L’intera lega lo sta ancora inseguendo”, ha detto pochi giorni fa un dirigente della Western Conference. “È il modello di riferimento, il giocatore più forte”.
Il Prescelto è bionico, ora ne abbiamo le prove. Risponde alle insistenze di Padre Tempo con un minutaggio in ascesa e giocate atletiche come questa. Cleveland non si cura di quel che succede nella Bay Area e interpreta alla grande il ruolo di favorita, gioca sul velluto, James fa quel che gli riesce meglio e coinvolge Irving e Love; ora ha persino un’altra bocca da fuoco da incendiare in Kyle Korver. La fiducia è alle stelle; LeBron non tirava così bene dall’arco dagli ultimi anni a Miami, rasenta il massimo in carriera alla voce assist e rimbalzi, il tutto senza nemmeno togliere il freno a mano.
Eccoci arrivati ai duellanti. Il Washington Post ha indetto un sondaggio coinvolgendo novanta tra giornalisti, allenatori, scout e media influencer legati alla NBA. 61 voti per James Harden, 18 per Westbrook, tutti gli altri dietro.
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Com’è possibile non conquistare l’MVP nell’annata in cui realizzi una tripla doppia di media? Westbrook ha il passo giusto per portare a termine la stagione eguagliando il primato che fu di Oscar Robertson, ma d’altronde nemmeno The Big O vinse il massimo alloro individuale nel 1962. La verità è che le triple doppie, 17 ad oggi, fanno meno rumore di quanto immaginato.
Sembrano la naturale conseguenza del monologo che quell’atleta fuori da ogni logica mette in scena ogni sera, in casa o in trasferta. È responsabile del 39.2% dei punti della squadra, ha uno usage che s’impenna verso la statosfera: 41.4% (il massimo storico è tre punti percentuali indietro, se ve lo steste chiedendo). Una legge non scritta recita che l’efficienza diminuisca con l’incremento dello usage , ma il suo indice PER è in realtà il terzo della lega, 29.7: simili regole non valgono a West(brook)World, lui è l’unico umano in mezzo alle attrazioni automatizzate – o forse il contrario.
Visto che lo scopo del gioco resta quello di realizzare più canestri dell’avversario in cinque contro cinque, il dato più rilevante è che Westbrook sta trascinando dei modesti Thunder a un record positivo. È su questo che insisterà la giuria se deciderà di coronare Russell. Noi ci ricordiamo dei buzzer beater piantati sul ferro e delle serate in cui spara a salve, ci innamoriamo dei numeri trascendentali e li dissezioniamo, ma le fortune di Oklahoma City coincidono con quelle di Westbrook, nel bene e nel male.
La settimana scorsa Thunder e Rockets si sono affrontati in un mezzogiorno di fuoco. A proposito di tiri decisivi; Westbrook ha sprecato il suo attaccando a testa bassa e lanciando un jumper contestato, Harden dall’altra parte ha subito alzato lo sguardo per pescare Nene vicino a canestro. In questa immagine stanno, forse, quei 43 voti di distacco marcati dagli esperti del Post.
James Harden sta giocando una pallacanestro ispiratissima, possiede un flow inarrivabile da chiunque altro al momento. Ci sono le cifre, certo: 28 punti, 8 rimbalzi, 11 assist di media con quella storica tripla doppia a quota 50 contro i Knicks.
Ci sono soprattutto i risultati; i Rockets sono ancora più modesti dei Thunder ma giocano meglio e vincono di più. Ci piace ripetere che la vera definizione di MVP coincide col giocatore che spreme il meglio dai propri compagni di squadra; il James Harden edizione 2016-2017 vede proprio questo, sotto la barba, quando si guarda allo specchio. Sam Dekker, Patrick Beverley, Nene, Eric Gordon, Ryan Anderson; hanno tutti elevato le loro prestazioni e Montrezl Harrell assomiglia a una minaccia da non sottovalutare nel pitturato. Per non parlare dell’intesa tutta speciale con Clint Capela, ora fermo ai box per infortunio, servito per alley oop a cadenza regolare e ricompensato da cioccolatini sotto forma di assist quando corre il campo.
Resta da vedere se i concetti di Mike D’Antoni dureranno nel tempo o scadranno, come in passato, alla prova dei playoff. Per il momento la Barba&Baffi Connection ha successo e diverte. James Harden ha libertà di gestire il pallone ben oltre i seven seconds or less dei vecchi Suns; se la pallacanestro di Westbrook suona al ritmo di una martellante EBM, quella di Harden è un rhythm ‘n blues. Noi siamo di orecchie buone; ci mettiamo le cuffie e ascoltiamo, non si sa mai che i pezzi migliori del disco debbano ancora arrivare.
Scrittore e giornalista in erba – nel senso che la mia carriera è fumosa -, seguo la NBA dall’ultimo All Star Game di Michael Jordan. Ci ho messo lo stesso tempo a imparare metà delle regole del football.
Che i ROckets siano più scarsi dei Thunder mi sembra una affermazione abbastanza sballata